sabato 21 aprile 2018

Il distico elegiaco nella tarda antichità - storia dell'elegia



Commentare il Liber è faticoso. Richiede un grande lavoro di ricerca, che per altro io adoro svolgere, ma devo riconoscere che occupa un sacco di tempo, e io questo tempo attualmente non lo possiedo. Quindi, mentre raccoglierò materiale per il Liber, terrò qualche rubrica più breve e anche più attinente agli studi che sto conducendo ora. La prima è quella che state leggendo ora, e come suggerisce il titolo è dedicata all’uso del distico elegiaco nella poesia tardoantica.

Ho scelto questo argomento, oltre perché ho seguito un corso di letteratura latina tardoantica, anche perché è sicuramente meno trito di Catullo, e quindi potrebbe anche risultare più interessante. La mia idea è quella di trattare l’argomento per autori, osservando come in ogni scrittore il distico venga ripreso e utilizzato diversamente. Per ora ho in programma di parlare di Ausonio, Rutilio Namaziano, Lattanzio e Boezio, ma non è escluso che ne aggiunga altri. È bastata una ricerca rapida per vedere che il distico elegiaco è un metro diffuso nella tardo antichità, ma questo non significa che valga la pena osservare come lo usa ogni scrittore. Insomma, intanto comincio così che già ci vorrà un po’ di tempo, poi vediamo.

Prima di vedere comunque Lattanzio (o chi per lui) e il suo De ave phoenice, ritengo utile ripercorrere un po’ le tappe dell’elegia in ambiente greco e ancora di più in ambiente romano. Quindi rimandiamo Lattanzio al prossimo articolo e ora dedichiamoci a un rapido viaggio tra Archiloco e Ovidio per capire un po’ che cosa sia questo distico elegiaco e perché, in Grecia e nella latinità classica, un autore sceglieva di utilizzare questo metro piuttosto che uno qualunque degli altri.

Lattanzio.

Intanto, il nome. Distico va da sé che deriva dal fatto che è composto da due versi, nella fattispecie un esametro dattilico e un pentametro dattilico. Il termine elegiaco è invece di più incerta derivazione. La tradizione antica ne dà alcune etimologie (tutte comunque tratte dall’ambito poetico in cui era maggiormente usato, e cioè il lamento), mentre la critica moderna propende in modo più o meno uniforme per un’altra interpretazione. Lo si fa risalire a un termine frigio che indicava il flauto che accompagnava i canti eseguiti appunto in distici elegiaci. Il carattere di questi canti era sempre luttuoso o comunque malinconico, e in questo senso il distico elegiaco verrà adoperato per gli epigrammi funebri senza subire nel corso dei secoli relativamente nessuna variazione in quest’utilizzo.

Comunque, già la prima tradizione greca sfrutta il distico non soltanto per la poesia funebre. Possiamo individuare quattro indirizzi principali dell’elegia arcaica: d’amore, di guerra, sentenziosa e politica. Questi indirizzi hanno come punti di contatto lo sfruttamento di un linguaggio comune, la lingua e omerica, e il riportare riflessioni sull’uomo e sulla sua vita rapportate a vari ambiti, almeno in base a quello che possiamo dedurre dai frammenti che possediamo. L’elegia d’amore canta la malinconia e il rimpianto dell’amore passato di gioventù, l’elegia guerresca è un’esortazione a ottenere la virtù e la grandezza attraverso il proprio sacrificio in battaglia, l’elegia politica esorta i cittadini a seguire certe decisioni piuttosto che altre nella vita politica della città, che si inserisce nel più ampio disegno divino, e l’elegia sentenziosa, o gnomica, ha lo scopo di esporre delle verità, che possono anche rientrare nel progetto più ampio della formazione di un codice morale educativo. Questo in linea generale, giusto per dare un’idea dei contenuti di questi generi, che comunque non sono così a compartimenti stagni come potrebbe apparire dalla mia descrizione.

Solone, principale esponente dell'elegia politica.

La tradizione elegiaca viene poi reinventata quasi completamente in età ellenistica per mano di Callimaco. Attraverso questo poeta il distico elegiaco assume una nuova funzione, che poi sarà quella che resterà sua propria nei secoli successivi, ereditando solo in parte e limitatamente quelli che erano i suoi usi precedenti. Resterà quasi sempre tipica dell’elegia quella sfumatura malinconica e lamentosa che ne caratterizzava le origini, ma ora il suo scopo viene fortemente modificato. Callimaco infatti è il primo a scrivere elegie eziologiche. Si tratta di poesie di tipo fortemente erudito, in cui vengono spiegate delle tradizioni, dei toponimi, degli usi, qualunque elemento della cultura di un popolo che possa non essere immediatamente comprensibile. L’elegia di età ellenistica conserverà in ogni sua forma questo taglio dotto: anche la Leonzio di Ermesianatte di Colofone, di cui possediamo frammenti e che consisteva in un’elegia amorosa, comunque era ben lontana dalle poesie di Mimnermo. L’amore veniva trattato attraverso colti riferimenti alle versioni meno note dei miti meno noti, oppure alla letteratura precedente. Nulla a che vedere con il semplice lirismo della prima elegia, quindi, siamo di fronte a un prodotto per un pubblico ben istruito e che, prima che parlare d’amore, vuole divertirsi trovando riferimenti oscuri e difficili a nozioni conosciute da pochi. Un pubblico che cioè gioca con l’autore in una gara di erudizione.

È a questo punto che l’elegia giunge a Roma, e nasce un grande problema. Sulle origini dell’elegia romana si è molto dibattuto. Non ha infatti precedenti con l’elegia di età ellenistica, dal momento che dà grandissimo spazio all’elemento del sentimento soggettivo, che invece i poeti alessandrini trascuravano o usavano come puro pretesto per le loro notazioni colte. Varie ipotesi sono state formulate, tra cui quella che sosteneva che l’elegia romana derivasse da un tipo di elegia ellenistica che presentava caratteristiche analoghe, e di cui non ci è giunta alcuna testimonianza. Ad ogni modo, la critica attuale tende a vedere nell’elegia romana un genere poetico originale, che si è sviluppato autonomamente in ambito latino. Si è formata sul modello dell’elegia amorosa greca ma ha assunto presto caratteri propri. Spinte in questo senso sono per esempio il carme 68 di Catullo, che contiene tutti quelli che saranno poi i temi e i modi tipici dell’elegia successiva, o la decima ecloga di Virgilio, che invece prova a cantare in chiave bucolica un amore tipicamente elegiaco. Queste due grandi esperienze letterarie gettano le basi per gli Amores di Cornelio Gallo, di cui possediamo soltanto frammenti, ma che sappiamo essere la prima opera dell’elegia latina.

Cornelio Gallo.

L’opera di Tibullo, il primo poeta elegiaco latino di cui abbiamo qualcosa di completo, si distingue per l’originalità con cui presenta un amore rilassato e affatto tormentato, un amore bucolico verrebbe da dire. E a ragione, visto che recentemente la critica ha evidenziato come l’elegia di Tibullo dipenda fortemente dall’ecloga X di Virgilio. L’altro elegiaco latino del periodo, Properzio presenta una raffinata ed efficace fusione della poesia amorosa con la poesia erudita di età ellenistica, arrivando a definirsi il Callimaco romano. Come si vede da queste descrizioni brevissime e assolutamente non esaustive, sia Tibullo che Properzio hanno una loro indipendenza molto forte rispetto alla tradizione che li precede. A rompere fortemente qualunque legame e a introdurre un nuovo modo di osservare non solo l’elegia ma anche tutti i generi letterari è un poeta di poco successivo, Ovidio. Ovidio infatti si muove tra i generi con un senso di libertà assoluta, si permette di unirli, contaminarli e rinnovarli a suo piacimento. Questo, oltre che portare una ventata di novità e creare alcuni generi che saranno poi sviluppati nei periodi successivi, come l’epistola metrica in esametri, renderà l’elegia latina un genere definitivamente proprio. Ed è nel momento del suo più grande splendore che ha una brusca caduta.

In età imperiale infatti l’elegia è un genere scarsamente praticato, se non come epigramma, e infatti nei libri di Marziale i distici elegiaci non sono pochi. Sembra quindi che sia morta, un genere letterario sterile che non ha più nulla da dare. Sembra, ma il tardoantico smentisce quest’apparenza.

Dobbiamo innanzitutto sottolineare che in età tardoantica né poeti né prosatori possono fare a meno di rivolgersi al passato glorioso della letteratura classica per comporre le loro opere. L’Imitatio è quindi qualcosa di perfettamente normale, come era normale per i latini di età classica guardare alla poesia greca. La distanza che li separa dai modelli è grande, e ancora più grande è il divario culturale. Tra un poeta che scrive all’epoca di Cicerone e uno che scrive all’epoca di Ausonio c’è una distanza incolmabile a livello di percezione della letteratura. Di conseguenza, quando uno scrittore di età tardoantica riprende modelli di età classica lo fa svuotandoli del significato che avevano al loro tempo e dotandoli di nuove istanze e nuovi scopi.  

In quest’ottica bisogna considerare anche la ripresa del distico elegiaco. Ed ecco che quindi diventa evidente la motivazione che mi ha spinto a scrivere questa serie di articoli: se l’elegia è plasmabile in qualcosa di nuovo e diverso dal passato diventa significativo osservare in quale modo gli autori tardoantichi la utilizzino, contaminandola con i gusti e le mode letterarie della loro epoca. 

Siamo giunti ora al punto di partenza, da qui possiamo osservare Lattanzio, Ausonio, Rutilio e Boezio (e chissà chi altri) dal giusto punto di vista. La storia dell’elegia che ho fatto finora è un bignami del bignami del bignami e non rende affatto merito né giustizia a questo genere letterario, ma consente almeno di comprendere le coordinate generali entro le quali si muove e quindi di poter cogliere le differenze quando un autore prende le distanze dalla tradizione. Quindi non resta nient’altro da dire, se non dare l’appuntamento al prossimo articolo, in cui vedremo un’opera molto strana e la cui interpretazione è tutto fuorché chiara, il De ave phoenice.