Visualizzazione post con etichetta Tardoantico. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Tardoantico. Mostra tutti i post

lunedì 22 ottobre 2018

Il distico elegiaco nella tarda antichità - Ausonio

Con lo scorso post mi sono occupato di un autore sostanzialmente sconosciuto. Se ricordate infatti il De ave Phoenice è attribuito a Lattanzio solo in via ipotetica, e comunque non è possibile collocarlo con certezza in un certo periodo della sua vita e quindi ricostruire il suo scopo e le ragioni della sua composizione. Questa volta invece voglio prendere in esame una situazione radicalmente opposta. Ausonio è infatti un autore di cui conosciamo moltissimo, e sulla cui biografia siamo informati dettagliatamente.

Forse non ho mai avuto modo di dirlo, comunque non amo le biografie degli scrittori. Tuttavia, non posso che riconoscere la loro indubbia utilità, e di certo può giovare osservare a grandi linee la vita di Ausonio. Innanzitutto, nasce all’inizio del quarto secolo d.c. e muore sulla fine dello stesso secolo. Sua città natale è Burdigala, in Francia, l’odierna Bordeaux, e suo padre è medico. Tuttavia, egli intraprende gli studi di retorica, prima a Burdigala e poi a Tolosa, nella scuola di suo zio. Terminati gli studi, esercita l’avvocatura per un periodo e poi fonda una propria scuola di retorica. Si colloca in questo periodo il suo momento di massimo splendore. Ausonio diventa talmente famoso da essere chiamato a ricoprire il ruolo di precettore di Graziano, figlio dell’imperatore Valentiniano I.

Durante il periodo alla corte imperiale la fama di Ausonio gli consente di non svolgere solo incarichi di tipo professionale. Egli ricopre anche diverse cariche pubbliche, come per esempio il consolato nel 379. Questo lasso di tempo di grandi trionfi per lui corrisponde al momento in cui Graziano è al potere. Alla sua morte Ausonio è costretto ad allontanarsi dalla corte, e a tornare nel suo paese di nascita, dove muore intorno al 395.

Che cosa è importante di questa biografia? Essenzialmente la parte centrale. Ciò che influenza in maniera decisiva la sua attività poetica è il suo ruolo di maestro e di retore. L’opera di Ausonio non si configura come caratterizzata da una particolare ideologica alla sua base, ma come un esercizio di stile di una persona che possiede e maneggia in maniera egregia gli strumenti della retorica. Ausonio è stato tacciato di essere uno sterile erudito, e sotto certi aspetti questa definizione non gli sta nemmeno troppo stretta. Personalmente, non è di certo uno degli autori che apprezzo di più. Tuttavia, non c’è dubbio che incarni in maniera efficace le tendenze retoriche e stilistiche dell’epoca in cui è vissuto, e quindi, almeno inserito nel contesto del quarto secolo, non risulta fuori luogo, anzi, così diventa persino chiaro perché era così apprezzato da diventare precettore di Graziano, figlio dell’imperatore.

Graziano
La componente retorica dell’opera di Ausonio è necessaria per spiegare l’uso che egli fa del distico elegiaco. Per capirlo vorrei esaminare parti di alcune opere, le Epistulae, i Parentalia e i Caesares. Mentre le prime sono una serie di lettere in versi e in prosa composte nel periodo dopo la morte di Graziano, i Parentalia sono costituiti da trenta componimenti dedicati ad altrettanti parenti di Ausonio, e i Caesares da una serie di brevi poesie ciascuna deputata alla descrizione di un imperatore. Vedete cosa intendevo? Se osservate i contenuti delle opere come li ho appena elencati, notate che in quasi nessuna (con la parziale esclusione forse delle Epistulae) è sottesa una qualche ideologia. Servono o per mostrare erudizione oppure per mettere in gioco l’abilità dell’autore nella composizione, o al massimo per mettere in scena quelli che sono alcuni topoi della poesia contemporanea o precedente, come l’invito di amici. Tuttavia, avremo modo di osservare, e questa è la caratteristica più importante di Ausonio, come l’impostazione retorica conduca Ausonio a esiti diversi rispetto allo pseudo Lattanzio.

Cominciamo con l’esaminare i Caesares.L’opera è divisa in due parti, una composta da monostici e l’altra da tetrastici. Ciò che ci interessa sono i tetrastici, ovvero poesie di quattro versi ciascuna, perché sono tutte in distici elegiaci, mentre i monostici sono in esametri. Vediamo il tetrastico numero 7, quello dedicato a Nerone.

Aeneadum generis qui sextus et ultimus heres,
polluit et clausit Iulia sacra Nero.
Nomina quot pietas, tot habet quoque crimina vitae.
Disce ex Tranquillo: set meminisse piget.

Della stirpe degli eneadi sesto e ultimo erede,
che infangò e concluse la sacra famiglia di Iulo, è Nerone.
Quanti i nomi che doveva rispettare, tanti i crimini della sua vita.
Imparalo da Tranquillo: ricordarlo mi addolora.

In questo caso nella traduzione ho preferito rimanere un po’ più sul difficile e sul meno bello a leggersi, mantenendo però il più possibile i costrutti e soprattutto la posizione delle parole del testo latino. La ragione è semplice, vorrei che si comprendesse facilmente l’alto livello di elaborazione della poesia. Come vedete il soggetto della prima frase, che occupa i primi due versi, si trova alla fine del secondo verso, e questa, anche per una lingua come il latino, non è di sicuro una posizione usuale. Lo stesso si può dire per il terzo verso, che, pur rifiutando una struttura interna che collochi le parole in un qualche ordine, costituisce comunque un’espressione molto brachilogica e sintetica. Insomma, già da questo si può capire come Ausonio, pur non presentando difficoltà a livello di contenuti, possa non essere agevole alla lettura per via del manierismo che caratterizza il suo stile.

Lo scopo dell’opera è come dicevo quello di mostrare l’erudizione dell’autore e la sua capacità di comporre versi. Ausonio vuole semplicemente evidenziare che è in grado di scrivere una poesia di quattro versi su ogni imperatore, e basta, non vuole andare oltre. Siamo di fronte a esibizioni di bravura e di erudizione, e questo lo vediamo sia dallo stile barocco che ho già evidenziato sia dai frequenti richiami alla tradizione letteraria. Il più evidente è quello dell’ultimo verso, in cui Ausonio invita il lettore a imparare la vita di Nerone non dalle sue poesie bensì dall’opera di Svetonio (chiamato nel testo con il cognomen Tranquillo), noto per uno scritto dedicato alla vita dei primi imperatori da Cesare fino a Domiziano. C’è un altro riferimento, molto evidente anche questo, nell’incipit della poesia. Le prime parole riprendono modificato il celeberrimo inizio del De rerum natura. Da “aeneadum genetrix” Ausonio deriva il suo “aeneadum generis”. Anche altri luoghi del componimento possono essere associati a passi di altri poeti, tuttavia questo è il più evidente e anche il più sicuro, visto che si tratta della evidente ripresa di un punto importante e quindi facilmente impresso nella memoria del poema di Lucrezio.

Svetonio Tranquillo
Tocca ora cercare di capire quale sia il ruolo del distico elegiaco in questo sfoggio di cultura e di stile. Potrebbe venire da pensare che ci troviamo in una situazione simile a quella di Lattanzio, in cui il metro non aveva una vera e propria relazione con il contenuto. In realtà io credo che qui Ausonio voglia rifarsi alla grande tradizione dell’elegia erudita che inizia con Callimaco e con Properzio arriva a Roma. Certo, della profondità di questa tradizione in Ausonio resta poco o niente: quello che in Properzio era una scusa per fare della grande poesia qui diventa lo scopo stesso della poesia, riducendone così lo statuto a puro mezzo per esibire questa conoscenza. Insomma, il vecchio ruolo del distico elegiaco è sì ripreso ma ridotto all’osso al punto da essere scarno e svilito.

Non credo serva soffermarsi ulteriormente sui Caesares. Voglio invece passare a leggere una delle Epistulae. Si tratta della prima lettera della raccolta, destinata ad Assio Paolo.

Tandem eluctati retinacula blanda morarum
Burdigalae molles linquimus illecebras
Santonicamque urbem vicino acessimus agro.
Quod tibi si gratum est, optime Paule, proba.
Cornipedes rapiant imposta pertorrita mulae,
vel cisio triiugi, si placet, insilias,
vel celerem mannum vel ruptum terga veredum
conscendas, propere dummodo iam venias,
inastantis revocant quia nos sollemnia paschae
libera nec nobis est mora desidiae.
Perfer in excursu vel teriuga milia epodon
vel falsas lites, quas schola vestra serit;
nobiscum invenies, multas quia linquimus istic
nugarum veteres cum sale reliquias.

Dopo avere finalmente superato I blandi vincoli dell’attesa
lascio i languidi piaceri di Burdigala
e giungo a Santonica, nel territorio vicino.
Valuta se questo ti è gradito, ottimo Paolo.
Le mule dagli zoccoli unghiati tirino le carrozze a loro imposte,
o, se preferisci, salta sul carro a tre cavalli,
o sali sul rapido manno, o sul veredo dalla schiena
ferita, purché tu mi raggiunga di fretta,
poiché ci chiamano le solennità della Pasqua
incombente, e non c’è spazio per il tempo libero.
Porta nella tua visita tre epodi
o le false liti che costruisce la vostra scuola;
troverai con me molti resti di vecchi
divertimenti che ho lasciato qui.

Il tema della poesia è un classico, ovvero l’invito rivolto dal poeta a un amico. Se lo confrontate con i carmi di Catullo che trattano lo stesso argomento, però, vi rendete conto di moltissime differenze. Non è mia intenzione soffermarmi su tutte, anche perché riguardano i fatti più svariati (dalla lingua ai singoli luoghi del testo), e sarei costretto ad andare fuori da quello che è il mio intento. Mi limiterò quindi soltanto a evidenziare la stranezza del metro elegiaco. I carmi di Catullo che costituiscono inviti agli amici sono infatti scritti in endecasillabi faleci. La scelta di Ausonio appare quindi non convenzionale. Si potrebbe provare anche ad accostare quest’epistola a un altro tipo di poesia, quella delle Silvae di Stazio. Ora, ammetto la mia ignoranza. Io non conosco questa raccolta così bene da stabilire se effettivamente contenga degli antecedenti significativi di questa epistola, tuttavia sono abbastanza sicuro che non ne abbia, e per un semplice motivo. Le Silvae di Stazio sono poesia d’occasione, mentre quella di Ausonio no. Non dico che Ausonio non potrebbe avere avuto presente una silva di Stazio, dico che vista la natura molto diversa delle due raccolte è difficile che la scelta del metro possa avere una motivazione comune.

Come spieghiamo quindi il distico elegiaco? A parer mio, qui ci troviamo in una situazione di uso del metro svuotato del suo significato. Non esiste una vera ragione per scegliere il distico elegiaco al posto dell’esametro, semplicemente il suo uso si può ricondurre alla volontà del poeta di ricorrere a vari metri della tradizione. Nell’Epistulae infatti troviamo anche esametri o anche abbinamenti originali, come nel caso dell’epistola 2. In buona sostanza, qui Ausonio si muove in modo diverso che con i Caesares, scegliendo di utilizzare il distico elegiaco senza una ragione precisa, e non per rifarsi a una tradizione.

Ausonio
Veniamo ora ai Parentalia. L’opera si configura, come dicevo, come una raccolta di poesia dedicata a una serie di parenti defunti di Ausonio. Ho deciso di riportare qui la prefazione, che ha com’è ovvio carattere programmatico.

nomina carorum, iam condita funere iusto
fleta prius lacrimis, nunc memorabo modis,
nuda, sine ornatu fandique carentia cultu:
sufficit inferiis exequialis honos.
Nenia, funereis satis officiosa querellis,
annua ne tacitus munera praetereas,
quae Numa cognatis sollemnia dedicat umbris,
ut gradus aut mortis postulat aut generis.
Hoc satis est tumulis, satist est telluris egenis:
voce ciere animas funeris instar habet.
Gaudent compositi cineres sua nomina dici:
frontibus hoc scriptis et monumenta iubent.
Ille etiam, maesti cui defuit urna sepulcri,
nomine ter dicto, paene sepultus erit.
At tu, quicumque es, lector, qui fata meorum
dignaris maestis commemorare elegis,
inconcussa tuae percurras tempora vitae
et praeter iustum funera nulla fleas.

I nomi dei miei cari, già sepolti secondo i riti.
che prima ho pianto in lacrime, ora ricorderò in versi,
nudi, senza ornamenti, che mancano di cura stilistica:
basta ai morti l’onore dei riti funebri.
Nenia, che si dà da fare per le lamentazioni mortuarie,
non trascurare in silenzio la festa annuale
che Numa ha dedicato alle ombre dei parenti,
come richiedere il tipo di morte e la parentela.
Questo basta alle tombe, basta anche a chi è non ha terra:
chiamare le anime ha l’aspetto di un funerale.
Gioiscono le cenere che sia pronunciato il loro nome:
lo ordinano anche le scritte sui sepolcri.
Anche a chi mancò l’urna della triste tomba,
chiamato tre volte sarà quasi sepolto.
E tu, lettore, chiunque tu sia, che il destino dei miei
ti degni di ricordare con queste infelici elegie,
percorri sicuro il tempo della tua vita
e non piangere nessuna morte più del giusto.

Qui la situazione è ben diversa dalle precedenti. Qui l’uso del distico elegiaco è motivato, e da più di una ragione. Innanzitutto, bisogna invocare il genere letterario dei Parentalia, riconducibile all’epigramma funebre, per quanto senza dubbio presenti tratti di grande originalità. Come ricorderete dall’articolo sulla storia dell’elegia, la funzione primaria e originale del distico elegiaco era proprio quella associata alla poesia dedicata ai morti. Quindi qui Ausonio si rivela assai tradizionale, riproponendo una elegia, potremmo dire, alla maniera antica. Tuttavia, questo richiamo non va inteso come una grande influenza sull’opera: la precedente poesia elegiaca è di certo richiamata dalla scelta del metro ma non costituisce in alcun modo un ipotesto. Il suo utilizzo è quindi da associare, ancora una volta, con la volontà di Ausonio di mostrare la sua erudizione.

Vediamo quindi di tirare le conclusioni. Con Ausonio ci troviamo di fronte a un autore colto e ben consapevole della tradizione letteraria che lo precede, al punto da rendere la sua ripresa e allusione un punto fondamentale della sua poesia. Alla volontà di mostrare cultura può essere in tutti i casi, in fondo in fondo, ricondotto l’uso del distico elegiaco, con il fatto che a volte la sua funzione originale appare svilita o ridotta del suo valore. Se quindi può apparire un utilizzo sterile e superficiale, è tuttavia da sottolineare che la poesia di Ausonio si mantiene su livelli alti, se non emotivamente almeno formalmente, e questo restituisce un minimo di dignità a un metro che, per esempio, lo pseudo Lattanzio uso solo a scopo di esercizio.

La carrellata su Ausonio può concludersi qui. Nel prossimo articolo voglio esaminare il poema di Rutilio Namaziano, il De reditu suo, che riserva sorprese ancora diverse da quelle che abbiamo trovato in Ausonio. Saremo di fronte a un distico elegiaco usato davvero in modo originale, in un poema che spesso è stato considerato solo un collage di versi di poeti precedenti.

sabato 21 aprile 2018

Il distico elegiaco nella tarda antichità - storia dell'elegia



Commentare il Liber è faticoso. Richiede un grande lavoro di ricerca, che per altro io adoro svolgere, ma devo riconoscere che occupa un sacco di tempo, e io questo tempo attualmente non lo possiedo. Quindi, mentre raccoglierò materiale per il Liber, terrò qualche rubrica più breve e anche più attinente agli studi che sto conducendo ora. La prima è quella che state leggendo ora, e come suggerisce il titolo è dedicata all’uso del distico elegiaco nella poesia tardoantica.

Ho scelto questo argomento, oltre perché ho seguito un corso di letteratura latina tardoantica, anche perché è sicuramente meno trito di Catullo, e quindi potrebbe anche risultare più interessante. La mia idea è quella di trattare l’argomento per autori, osservando come in ogni scrittore il distico venga ripreso e utilizzato diversamente. Per ora ho in programma di parlare di Ausonio, Rutilio Namaziano, Lattanzio e Boezio, ma non è escluso che ne aggiunga altri. È bastata una ricerca rapida per vedere che il distico elegiaco è un metro diffuso nella tardo antichità, ma questo non significa che valga la pena osservare come lo usa ogni scrittore. Insomma, intanto comincio così che già ci vorrà un po’ di tempo, poi vediamo.

Prima di vedere comunque Lattanzio (o chi per lui) e il suo De ave phoenice, ritengo utile ripercorrere un po’ le tappe dell’elegia in ambiente greco e ancora di più in ambiente romano. Quindi rimandiamo Lattanzio al prossimo articolo e ora dedichiamoci a un rapido viaggio tra Archiloco e Ovidio per capire un po’ che cosa sia questo distico elegiaco e perché, in Grecia e nella latinità classica, un autore sceglieva di utilizzare questo metro piuttosto che uno qualunque degli altri.

Lattanzio.

Intanto, il nome. Distico va da sé che deriva dal fatto che è composto da due versi, nella fattispecie un esametro dattilico e un pentametro dattilico. Il termine elegiaco è invece di più incerta derivazione. La tradizione antica ne dà alcune etimologie (tutte comunque tratte dall’ambito poetico in cui era maggiormente usato, e cioè il lamento), mentre la critica moderna propende in modo più o meno uniforme per un’altra interpretazione. Lo si fa risalire a un termine frigio che indicava il flauto che accompagnava i canti eseguiti appunto in distici elegiaci. Il carattere di questi canti era sempre luttuoso o comunque malinconico, e in questo senso il distico elegiaco verrà adoperato per gli epigrammi funebri senza subire nel corso dei secoli relativamente nessuna variazione in quest’utilizzo.

Comunque, già la prima tradizione greca sfrutta il distico non soltanto per la poesia funebre. Possiamo individuare quattro indirizzi principali dell’elegia arcaica: d’amore, di guerra, sentenziosa e politica. Questi indirizzi hanno come punti di contatto lo sfruttamento di un linguaggio comune, la lingua e omerica, e il riportare riflessioni sull’uomo e sulla sua vita rapportate a vari ambiti, almeno in base a quello che possiamo dedurre dai frammenti che possediamo. L’elegia d’amore canta la malinconia e il rimpianto dell’amore passato di gioventù, l’elegia guerresca è un’esortazione a ottenere la virtù e la grandezza attraverso il proprio sacrificio in battaglia, l’elegia politica esorta i cittadini a seguire certe decisioni piuttosto che altre nella vita politica della città, che si inserisce nel più ampio disegno divino, e l’elegia sentenziosa, o gnomica, ha lo scopo di esporre delle verità, che possono anche rientrare nel progetto più ampio della formazione di un codice morale educativo. Questo in linea generale, giusto per dare un’idea dei contenuti di questi generi, che comunque non sono così a compartimenti stagni come potrebbe apparire dalla mia descrizione.

Solone, principale esponente dell'elegia politica.

La tradizione elegiaca viene poi reinventata quasi completamente in età ellenistica per mano di Callimaco. Attraverso questo poeta il distico elegiaco assume una nuova funzione, che poi sarà quella che resterà sua propria nei secoli successivi, ereditando solo in parte e limitatamente quelli che erano i suoi usi precedenti. Resterà quasi sempre tipica dell’elegia quella sfumatura malinconica e lamentosa che ne caratterizzava le origini, ma ora il suo scopo viene fortemente modificato. Callimaco infatti è il primo a scrivere elegie eziologiche. Si tratta di poesie di tipo fortemente erudito, in cui vengono spiegate delle tradizioni, dei toponimi, degli usi, qualunque elemento della cultura di un popolo che possa non essere immediatamente comprensibile. L’elegia di età ellenistica conserverà in ogni sua forma questo taglio dotto: anche la Leonzio di Ermesianatte di Colofone, di cui possediamo frammenti e che consisteva in un’elegia amorosa, comunque era ben lontana dalle poesie di Mimnermo. L’amore veniva trattato attraverso colti riferimenti alle versioni meno note dei miti meno noti, oppure alla letteratura precedente. Nulla a che vedere con il semplice lirismo della prima elegia, quindi, siamo di fronte a un prodotto per un pubblico ben istruito e che, prima che parlare d’amore, vuole divertirsi trovando riferimenti oscuri e difficili a nozioni conosciute da pochi. Un pubblico che cioè gioca con l’autore in una gara di erudizione.

È a questo punto che l’elegia giunge a Roma, e nasce un grande problema. Sulle origini dell’elegia romana si è molto dibattuto. Non ha infatti precedenti con l’elegia di età ellenistica, dal momento che dà grandissimo spazio all’elemento del sentimento soggettivo, che invece i poeti alessandrini trascuravano o usavano come puro pretesto per le loro notazioni colte. Varie ipotesi sono state formulate, tra cui quella che sosteneva che l’elegia romana derivasse da un tipo di elegia ellenistica che presentava caratteristiche analoghe, e di cui non ci è giunta alcuna testimonianza. Ad ogni modo, la critica attuale tende a vedere nell’elegia romana un genere poetico originale, che si è sviluppato autonomamente in ambito latino. Si è formata sul modello dell’elegia amorosa greca ma ha assunto presto caratteri propri. Spinte in questo senso sono per esempio il carme 68 di Catullo, che contiene tutti quelli che saranno poi i temi e i modi tipici dell’elegia successiva, o la decima ecloga di Virgilio, che invece prova a cantare in chiave bucolica un amore tipicamente elegiaco. Queste due grandi esperienze letterarie gettano le basi per gli Amores di Cornelio Gallo, di cui possediamo soltanto frammenti, ma che sappiamo essere la prima opera dell’elegia latina.

Cornelio Gallo.

L’opera di Tibullo, il primo poeta elegiaco latino di cui abbiamo qualcosa di completo, si distingue per l’originalità con cui presenta un amore rilassato e affatto tormentato, un amore bucolico verrebbe da dire. E a ragione, visto che recentemente la critica ha evidenziato come l’elegia di Tibullo dipenda fortemente dall’ecloga X di Virgilio. L’altro elegiaco latino del periodo, Properzio presenta una raffinata ed efficace fusione della poesia amorosa con la poesia erudita di età ellenistica, arrivando a definirsi il Callimaco romano. Come si vede da queste descrizioni brevissime e assolutamente non esaustive, sia Tibullo che Properzio hanno una loro indipendenza molto forte rispetto alla tradizione che li precede. A rompere fortemente qualunque legame e a introdurre un nuovo modo di osservare non solo l’elegia ma anche tutti i generi letterari è un poeta di poco successivo, Ovidio. Ovidio infatti si muove tra i generi con un senso di libertà assoluta, si permette di unirli, contaminarli e rinnovarli a suo piacimento. Questo, oltre che portare una ventata di novità e creare alcuni generi che saranno poi sviluppati nei periodi successivi, come l’epistola metrica in esametri, renderà l’elegia latina un genere definitivamente proprio. Ed è nel momento del suo più grande splendore che ha una brusca caduta.

In età imperiale infatti l’elegia è un genere scarsamente praticato, se non come epigramma, e infatti nei libri di Marziale i distici elegiaci non sono pochi. Sembra quindi che sia morta, un genere letterario sterile che non ha più nulla da dare. Sembra, ma il tardoantico smentisce quest’apparenza.

Dobbiamo innanzitutto sottolineare che in età tardoantica né poeti né prosatori possono fare a meno di rivolgersi al passato glorioso della letteratura classica per comporre le loro opere. L’Imitatio è quindi qualcosa di perfettamente normale, come era normale per i latini di età classica guardare alla poesia greca. La distanza che li separa dai modelli è grande, e ancora più grande è il divario culturale. Tra un poeta che scrive all’epoca di Cicerone e uno che scrive all’epoca di Ausonio c’è una distanza incolmabile a livello di percezione della letteratura. Di conseguenza, quando uno scrittore di età tardoantica riprende modelli di età classica lo fa svuotandoli del significato che avevano al loro tempo e dotandoli di nuove istanze e nuovi scopi.  

In quest’ottica bisogna considerare anche la ripresa del distico elegiaco. Ed ecco che quindi diventa evidente la motivazione che mi ha spinto a scrivere questa serie di articoli: se l’elegia è plasmabile in qualcosa di nuovo e diverso dal passato diventa significativo osservare in quale modo gli autori tardoantichi la utilizzino, contaminandola con i gusti e le mode letterarie della loro epoca. 

Siamo giunti ora al punto di partenza, da qui possiamo osservare Lattanzio, Ausonio, Rutilio e Boezio (e chissà chi altri) dal giusto punto di vista. La storia dell’elegia che ho fatto finora è un bignami del bignami del bignami e non rende affatto merito né giustizia a questo genere letterario, ma consente almeno di comprendere le coordinate generali entro le quali si muove e quindi di poter cogliere le differenze quando un autore prende le distanze dalla tradizione. Quindi non resta nient’altro da dire, se non dare l’appuntamento al prossimo articolo, in cui vedremo un’opera molto strana e la cui interpretazione è tutto fuorché chiara, il De ave phoenice.