giovedì 28 dicembre 2017

Ritorno al futuro

Chi sentiva la mia mancanza alzi la mano. Non in troppi tutti insieme, mi raccomando.

*silenzio cosmico. Un grillo frinisce un paio di volte*
Bene, grazie per la calorosissima accoglienza. Anche voi mi siete mancati.

Sono stato assente per circa tre mesi per vari motivi poco interessanti. Vorrei poter dire che ho viaggiato nelle foreste del Borneo alla ricerca di specie animali rare e preziose e che il graffio che chi mi conosce vede sopra le labbra è l’unica ferita che ho ricevuto sostenendo numerose lotte contro orsi e leopardi. La verità è che la quotidianità mi ha schiacciato e non avevo tempo nemmeno per respirare. Per quanto riguarda il graffio, se proprio siete interessati, è colpa di una cosa che ancora non ho chiara per niente, ed è che i rasoi, per funzionare, devono per forza avere una lama.

Comunque, ho approfittato delle vacanze per trovare un po’ di tempo libero, e ovviamente Aproposidoketon e voi, miei fedeli e numerosissimi lettori, siete stati i primi cui ho pensato. Quindi sto scrivendo a manetta una serie di recensioni e di post in modo tale da poter riprendere una pubblicazione più o meno regolare anche quando gli impegni cominceranno a tornare in modo più stringente. Questo quindi vuole essere inizio di un nuovo periodo per Aproposidoketon, un periodo conto di tornare attivo come lo ero fino ad alcuni mesi fa. Ho pronte per voi molte chicche, senza fare troppi spoiler avremo prossimamente su questi schermi, tra le altre cose, Neil Gaiman, Guy Gavriel Kay, Eichiro Oda, Mitsutoshi Shimabukuro, e, udite udite, Simone Regazzoni, alle prese con il seguito di Abyss, che degli inclementi compagni di università mi hanno regalato per Natale con il chiaro intento di uccidermi.

Quindi restate sintonizzati su questo canale, perché presto ne vedrete delle belle. Non so voi, ma personalmente non vedo l’ora di pubblicare di nuovo. 

giovedì 14 settembre 2017

Recensione - American Gods di Neil Gaiman

Dopo la svolta high fantasy con Heitz e il nano che “si erge in tutta la sua altezza” (per chi se lo chiedesse sì, é una citazione e no, non è ironica) sono tornato a un buon vecchio urban fantasy. A dirla tutta ho avuto anche una parentesi dedicata alla bilogia del mosaico di Sarantium di Guy Gavriel Kay, ma mentre il primo libro mi è piaciuto molto il secondo mi ha ucciso definitivamente a pagina 200. Comunque, sono tornato allo urban fantasy e ho deciso di leggere American gods, di cui avevo sentito giudizi molto lusinghieri e quindi ero molto curioso di leggerlo. Casualmente, mi sono trovato a leggere subito dopo Pan di Francesco Dimitri, che con American gods presenta notevoli somiglianze (ho letto pure Alice nel paese della vaporità, ma quel libro non esiste o non lo ha scritto Dimitri, quindi non parliamone più). E nonostante Pan sia un libro migliore, conferma che Dimitri é uno scrittore di tutto rispetto, anche American gods si è rivelata un’ottima lettura.
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Titolo: American gods
Autore: Nei Gaiman
Anno: 2001                                                        
Editore: Mondadori
Pagine: 519




TRAMA 

Shadow sta per uscire di prigione dopo tre anni. Finalmente può tornare alla sua vecchia vita, a sua moglie Laura e ai suoi amici. Questo é quello che crede. in realtà, poco prima della sua scarcerazione gli viene annunciata la morte della moglie, e viene assunto come guardia del corpo da un misterioso signore di nome Wednesday. Wednesday nasconde più di un segreto, e non è un semplice umano come sembra a prima vista: il suo obiettivo è radunare le vecchie divinità che esistono nel mondo ma non vengono più venerate per farle combattere con i nuovi déi, gli dèi della televisione, dei computer, della tecnologia e della modernità. Una guerra tra coloro che sono stati dimenticati e coloro che ora comandano, tra i reietti e abbandonati contro la moda. Una guerra nella quale Shadow scoprirà di avere un ruolo molto maggiore di quanto avrebbe mai potuto immaginare.


LA MIA OPINIONE 


Come dicevo avevo sentito dire solo buone cose su American gods, e in effetti posso confermare tutti i complimenti che ha ricevuto. Credo che la traduzione italiana non abbia reso merito all’originale, però, perché ho notato molti punti in cui erano presenti sbavature stilistiche che, più che colpa di Neil Gaiman, mi sembrano colpa del traduttore. Non ricordo esempi precisi, comunque sono fondamentalmente usi eccessivi dell’aggettivazione e cose simili. Cose che insomma il traduttore potrebbe aver reso un po’ troppo liberamente, finendo così per sporcare lo stile di Gaiman, che di solito è molto diverso. Gaiman in generale scrive bene, sintesi, semplicità ed efficacia sono le sue qualità migliori. e le prime che colpiscono il lettore.

Wednesday quando portava le trecce.
Quindi, per quale motivo American gods è così meritatamente famoso, al punto che ci gli hanno pure dedicato una serie tv (che non ho visto perché non seguo serie tv in generale ma che da quel che so ha ben poco a che vedere con il libro)? Bé, a parte la scrittura, sicuramente ha dalla sua un cast di personaggi davvero d’eccezione. Shadow, Wednesday, ma anche Mad Sweeney, Ibis, Chernobog, sono tutti personaggi che funzionano molto bene perché si comportano nel loro modo proprio, nel loro modo naturale e conforme al loro carattere. La sottotrama di Mad Sweeney, che costituisce di fatto una diramazione del plot che poteva essere evitabile in quanto non aggiunge nulla al tutto, dimostra proprio questo, che American gods è, prima che la storia degli eventi che hanno avuto nel luogo in un certo mondo in un certo periodo, è la storia dei personaggi, ed è loro che segue. Non quindi la storia della guerra tra le nuove e le vecchie divinità, ma la storia di Shadow, e di come questi sia stato coinvolto in essa.

Questo è un grande pregio, perché non butta via nulla. Capita spesso che gli scrittori dimentichino o lascino un po’ perdere certi personaggi perché non servono più allo svolgersi degli eventi. Per Gaiman è l’opposto, Gaiman se ne frega degli eventi, lui segue i personaggi. Il finale ne è un esempio lampante. Se a scriverlo fosse stato Stephen King avremmo avuto almeno tre o quattro pov diversi che raccontavano cose diverse dello stesso evento, magari con capitoli brevi e sbalzi da un pov all’altro. Gaiman no, lui racconta quello che succede a Shadow (e a un altro personaggio che non nomino per non fare grossi spoiler) e fine, e la guerra tra gli dèi noi lettori ce la becchiamo soltanto quando comincia a riguardare Shadow, a parte qualche accenno prima, ma poca roba.

Se ha dei pregi, quest’ottica in cui viene narrata la storia presenta anche dei difetti. Nella prima parte del romanzo, tutta la parte del viaggio fino a Cairo e anche l’inizio del soggiorno a Lakeside suonano abbastanza inutili. Cioé, va bene che presentano alcuni personaggi che riappariranno in seguito, ma al lettore viene da chiedersi “embé? A che serve tutto questo?”. In particolare questa domanda mi martellava nella testa come un bombardamento aereo durante la storia di Mad Sweeney che, come dicevo prima, non ha nulla a che fare con le vicende principali, esiste soltanto perché l’autore ha sentito il bisogno di sciogliere un piccolo nodo della trama che riguardava un dettaglio del primo incontro tra Shadow é Mad Sweeney. Certo, va bene scioglierlo, anche se, se non fosse stato sciolto, dico la verità, sarebbe cambiato ben poco. Durante la lettura, all’inizio, questa domanda ricorrente, questa sensazione di stare leggendo una serie di diramazioni della trama dà fastidio. Una volta però che ci si abitua e si capisce che l’idea che Gaiman ha di trama riguarda i personaggi e non gli eventi allora si comincia ad apprezzare queste apparenti deviazioni del plot, e anzi, si va a creare un effetto particolare. La vicenda di Lakeside é un esempio evidente di questa mia affermazione. Se sulle prime infatti sembra di essere di fronte all’ennesima ramificazione relativamente interessante degli eventi, ecco che poi piano piano si comincia a fare come Shadow, a prenderci l’abitudine. Si conoscono gli abitanti, si simpatizza con loro, si intravede qualche relazione che potrebbe nascere, quando spuntano personaggi marginali già apparsi si ha la stessa sensazione di quando si vede per strada qualche conoscente incontrato una volta e ci si stupisce di quanto sia piccolo il mondo, ed ecco che succede l’evento inatteso, il conflitto, il mistero da risolvere che aggiunge sale agli eventi. É questo evento non sembra più una derivazione del plot, il lettore si è ormai accomodato come sotto una coperta calda, e non potrà che simpatizzare con gli abitanti preoccupati, e con Shadow che si sbatte per fare qualcosa. Il dispiacere e lo straniamento dei personaggi é quello del lettore, e questo dimostra la grande abilità di Gaiman a creare un’atmosfera adatta a conquistare chi legge. Alla fine, direi che l’abilità nel creare atmosfere e nel rendere piacevoli i personaggi é quello che rende interessante e piacevole l'ottica da cui Gaiman ha deciso di raccontare la storia. Lo avesse fatto qualcun altro, lo avessi fatto io per dire, sarebbe risultato un cumulo di vicende secondarie che mettevano in secondo piano le cose importanti.

Gaiman si è emozionato leggendo la recensione.
La vicenda di Lakeside si conclude dopo la guerra degli dei, diventando così quello che il ritorno alla Contea è per Il signore degli anelli. Ho sentito nel corso degli anni molte persone criticare una risoluzione di questo genere, giudicandola troppo prolissa. Io sono d’accordo in alcuni casi, visto che capita che ci siano scrittori che non vogliono proprio che la storia finisca e allora anche dopo che le vicende principali si sono concluse allungano il brodo a dismisura. Non è questo il caso di American gods, sono convinto che questa sia una di quelle situazioni in cui un finale più disteso di sta assolutamente bene. Perché il lettore ha ancora bisogno di risposte, e si è talmente appassionato a Lakeside e ai suoi abitanti che vuole proprio sapere che fine faranno tanto quanto voleva sapere come si sarebbe conclusa la guerra tra divinità.

Ci sono alcune idee del romanzo che mi sono piaciute parecchio, che ho trovato originali e interessanti. Senza fare troppi spoiler, il metodo di importazione degli dei da un paese all’altro non solo mi è piaciuto molto, ma lo ho trovato particolarmente intrigante e affascinante. Viceversa, non ho sempre apprezzato i racconti dei trasferimenti degli dei, ma solo perché erano uno stacco nella narrazione che secondo me stava proprio male.

La trama ha una brusca virata nell’ultima parte, quando la situazione precipita e molti nodi vengono al pettine in un crescendo di colpi di scena inaspettati. Diciamo che dagli eventi di pagina 400 in poi la lettura scorre che è un piacere, le pagine si girano da sole e la tensione si può quasi toccare. Non riuscivo più a smettere di leggere, era un giorno che dovevo studiare come un disperato per l’esame di archeologia romana perché ero indietrissimo eppure continuavo a leggere. In particolare le vicende su Shadow dopo il rito dell’albero mi hanno tenuto con il fiato sospeso.

Infine ho apprezzato l’ambiguità voluta tra realtà e finzione che viene instaurata su più livelli dall’autore. Nelle avvertenze all’inizio si legge:

Va da sé che tutte le persone […] nominate nel libro sono frutto della mia immaginazione. Solo gli dèi sono reali„ (pag.9)

Ecco, a me una cosa del genere fa andare in brodo di giuggiole, comincio a scodinzolare come un cucciolo di cane quando il padrone gli mostra un bastoncino e finge di lanciarlo. Non c’è una ragione precisa, è solo che i paradossi di questo tipo mi piacciono moltissimo, perché sono arguti, e capovolgono il punto di vista del lettore. E offrono anche delle chiavi di lettura di tutta la storia.

Io leggendo questa parte.
Verso la fine, invece, troviamo questo paragrafo.

Niente di tutto quello che è stato raccontato fin qui potrebbe accadere davvero. Prendetela come una metafora, se vi fa sentire meglio. Le religioni sono per definizione delle metafore […]. Le religioni sono punti di osservazione che condizionano le vostre azioni, posizioni di vantaggio da cui osservare il mondo.
Quindi, non sta accadendo niente di tutto quello che è stato raccontato fin qui. Cose simili non possono succedere. Non c’è una sola parola di verità. In ogni caso, quel che accadde dopo accadde nel seguente modo:[…]„ (pag.451)

In pratica, prima Gaiman ci scopre l’illusione della sua storia, e poi continua come se fosse reale, e più vero della realtà. Del resto, la frase che citavo prima diceva “solo gli dèi sono reali”. Come a dire che l’aspetto meno reale del libro è in realtà quello più vero, e come le religioni sono punti di vista da cui osservare il mondo anche il libro che stiamo leggendo lo è, anche il libro è soltanto una posizione di vantaggio da cui osservare il mondo. Da questa posizione ciò che è falso può diventare la sola cosa vera, ma non importa, perché quello che conta è il significato che viene celato dietro. È, potremmo dire, la religione, la metafora, gli dèi. Tanto di cappello a Gaiman per come questo concetto viene inserito in modo inaspettato eppure armonico all’interno della storia. Mentre lo leggevo era euforico e disorientato al tempo stesso, perché non me lo aspettavo. La citazione da pagina 451 arriva in un punto della storia così, come se fosse la cosa più logica, ma in realtà è assolutamente inaspettato. Ancora complimenti a Gaiman!

IN CONCLUSIONE


American gods è un ottimo libro, mi sono divertito molto a leggerlo, mi è piaciuto molto e, nonostante abbia dovuto subire il confronto con Pan, a mio avviso migliore, comunque risulta lo stesso davvero una buona lettura. Leggetevelo, fidatevi. Non guardare la serie tv. Pare non c’entri niente con il libro.


VOTO: 

domenica 3 settembre 2017

Recensione - Ken il Guerriero di Tetsuo Hara

Il terreno su cui mi arrischio a camminare oggi è un campo minato. Oggi parlo di un classico, e mica di un classico qualunque, di uno di quei classici che ha fatto la storia di un genere, che è osannato da generazioni e che rappresenta ancora oggi una lettura obbligata, una tappa fondamentale per chi si dice appassionato. E ne parlo male.

Sì, mi accingo a recensire negativamente Ken il guerriero. Io ne ho sentito sempre parlare benissimo, eppure l’ho trovato sciapo, ripetitivo, superficiale e in ultima analisi poco interessante. Ok, non dico che all’epoca in cui è stato scritto non avesse niente da dire, dico solo che è invecchiato veramente male. A seguire, le ragioni della mia affermazione.
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Titolo: Ken il guerriero
Autore: Tetsuo Hara e Buronson
Anno: 1983                                                   
Volumi: 27
Editore: Planet Manga




TRAMA

Ci troviamo in un futuro post apocalittico, dove la terra è dominata da bande di criminali e le singole città sono controllate da personaggi potenti e senza scrupoli che si ergono a tiranni. Un mondo duro e difficile, dove sopravvivere non è scontato e anzi, richiede forza, astuzia e spietatezza.

Ken è un abile combattente. Compito che si è prefisso è difendere gli innocenti e i deboli in un’epoca che non risparmia nessuno. Seguiremo le sue avventure contro nemici sempre più forti, mentre cerca di difendere quanto ha di più caro: gli amici e l’amore.

LA MIA OPINIONE


Mi sento di ripetere quello che dicevo poco fa. Ken è invecchiato malissimo. È quello il suo problema principale. Ricordate quando, parlando di Dragon Ball, dicevo che conserva una sua freschezza? Ecco, per Ken è l’opposto. Ken è una soffitta piena di ragnatele, e appena entri vieni soffocato dal tanfo di vecchio.

Molti aspetti sono grezzi, mal rifiniti, tirati via oppure poco incisivi. La trama è per la maggior parte ripetitiva e molto poco curata. I personaggi molto spesso non agiscono spinti da delle motivazioni, quanto così, perché lo dice la trama. Ogni saga è uguale alla precedente, non ci prova nemmeno a variare. Certo, cambiano le situazioni e i personaggi, ma alla fine si può ricondurre tutto a un medesimo schema. Soprattutto, non esiste un vero e proprio nodo da risolvere, non esiste un collante che unisce tutte le parti, se non la figura di Ken appunto. Tant’è vero che la fine di fatto è una non conclusione, la storia finisce perché l’autore si è stufato, ma se avesse voluto avrebbe potuto appiccicarci un’altra saga e tirare avanti per altre tre o quattro volumi. E avanti così all’infinito.

Ken, ovvero l'uomo dalle molte espressioni. Qui sorride.
Le situazioni mancano di mordente. L’esempio tipico di questo è il salvataggio. Succede moltissime volte (credo che si rasenti la ventina) che un personaggio si trovi in pericolo. Puntualmente arriva Ken, o a volte qualcun altro dei protagonisti, a salvarlo. Questo accade sempre, non c’è una volta che questo modulo vari. Così, alla prima il lettore pensa emozionato “uao, cosa succederà? Si salverà o no?”. Dalla terza in poi sbadiglia e si chiede “Quando arriva qualcuno a salvarlo?”. Non c’è tensione, non c’è volontà di sapere che cosa succederà, c’è solo la svogliata consapevolezza che il deus ex machina di turno sta per intervenire, e nient’altro.

Lo stesso si può dire per i combattimenti. La prima parte è molto fitta, c’è la media di un combattimento a capitolo. Con il procedere dei volumi questa media si fa più rada, ma comunque resta piuttosto alta. E quelli in cui Ken si trova in difficoltà si contano sulle dita di una mano no ma di due sì, e ce n’è d’avanzo. Ken è praticamente sempre più forte del suo avversario, già dall’inizio del combattimento. L’hype è nullo, perché intanto si sa già che Ken vincerà senza difficoltà.

I poteri dei personaggi sono qualcosa di abbastanza casuale. É in realtà si potrebbe pure accettare. Del resto, l’aura di Dragon Ball non é che abbia molte regole, anzi, si può usare più o meno per qualunque cosa. Nonostante questo mantiene una sua coerenza interna che la rende accettabile. In Ken invece succede l'opposto, in particolare con la questione degli tsubo, su cui si basano gli attacchi non solo di Ken ma anche di altri personaggi. Gli tsubo sono, in buona sostanza, dei punti dei circolazione dell'energia. Se premuti nel modo giusto fanno esplodono la relativa parte del corpo dell'avversario, ma possono anche essere usati per ripristinare delle funzioni vitali. Finqui tutto bene direte voi, e lo direi anche io. Il problema viene dopo, quando l'autore comincia a tirare fuori uno tsubo per ogni occasione. Ken ha bisogno di fare dimenticare qualcosa a qualcuno? Ma c'è lo tsubo che cancella la memoria (e ovviamente non tutta la memoria, ma solo il singolo evento che vuole Ken)! Ken ha bisogno di sapere qualcosa ma la persona che interroga è recalcitrante? Ma abbiamo anche lo tsubo che costringe una persona a rivelare un’informazione contro la propria volontà! Che cosa non si può fare semplicemente schiacciando un po’ l'avversario, eh?

Ken, ovvero l'uomo dalle molte espressioni. Qui è triste.
E potrei andare avanti per molto, ma non servirebbe. Già da questi pochi esempi di può intuire come presto gli tsubo diventino un modo che l'autore usa per fare procedere le cose nel modo in cui vuole. Diventano una sorta di scorciatoia narrativa per fare succedere quello che Buronson preferisce, ma non sa come fare accadere.

Nessun personaggio è realmente caratterizzato. Se si esclude Ken, che è insopportabile ma ha una sua personalità, tutti gli altri sono macchiette, privi di qualunque spessore (chi più chi meno naturalmente). Ken stesso non ha un’evoluzione psicologica, il Ken del primo volume è uguale identico al Ken dell’ultimo. Esistono personaggi con un abbozzo di personalità, tipo Raoul o Toki, ma in generale nessuno di loro ha una caratterizzazione accettabile. Sono più che altro delle figure con appiccicate un paio di caratteristiche che li distinguono dagli altri. A onor del vero a un certo punto Raoul ha una specie di evoluzione psicologica, ma siamo sempre allo stesso punto, é insufficiente. Lo sarebbe in qualunque manga, in Ken il guerriero, che dovrebbe essere un pilastro degli shonen, lo é anche di più.

Parliamo un po’ di Ken e del perché lo odio e mentre leggevo speravo che qualcuno prima o poi lo uccidesse facendogli saltare in aria qualche parte del corpo come lui fa con tutti. Ken è un arrogante sputasentenze, un insopportabile pallone gonfiato che giudica tutto e tutti e pensa di essere sempre dalla parte del giusto. Sapete qual è lo schema tipo di un’avventura di Ken? Ken arriva in un posto nuovo, Ken parla con gli abitanti del luogo (che sono sempre dei poveracci sfruttati e maltrattati da qualche cattivone random), Ken decide che gli abitanti del luogo hanno ragione e sono le vittime e poi va a combattere il cattivo. E fin qua potrebbe più o meno andare tutto bene. Il problema è che mentre combatte i cattivi Ken si arroga il diritto di dire “tu meriti di morire” o “non meriti di vivere” o simili e a me questo non va bene. Non mi va bene perché Ken non sa nulla della situazione, ha ascoltato soltanto una parte in causa eppure ha già deciso che loro hanno ragione e che sono dalla parte del giusto. Non ascolta le motivazioni degli avversari, non si pone il problema che possano essere loro quelli nel giusto, no, lui ha la verità, lui sa già tutto e quello che decide lui è Giusto e Vero.

Questo è dovuto alla pessima caratterizzazione che affligge Ken. L’autore non vorrebbe rappresentarmi come arrogante e superbo, questo é un tratto che emerge dalla trama perché il personaggio viene gestito male. A giustificare il fatto che Ken ha sempre ragione e da chi sta dalla parte del giusto arriva il fatto che i cattivi sono degli stereotipi superficiali e di poco spessore: i tipici cattivi cliché che sono malvagi per decreto autoriale, e dunque diventano rapidamente caricaturali.

La nuova attività di Toki.
I personaggi femminili sono piatti quanto quelli maschili, e fanno venire quasi tutti il latte alle ginocchia. Hanno bisogno tutti (tranne qualche dato caso) di essere salvati e aiutati dai personaggi maschili. Fino all'arrivo degli eroi resteranno a piagnucolare e a farsi torturare e insultare senza fare resistenza. Sono passivi, incapaci di difendersi e di opporsi, subiscono qualunque cosa in attesa del deus ex machina che li metterà in salvo. Che poi, non è che sia sbagliato che un personaggio non sia combattivo, quello che è brutto è che tutti i personaggi femminili lo siano, e questo è indice di gravi problemi nel settore caratterizzazione (cos'è, la terza volta che lo scrivo? Certo che la situazione è davvero messa male...). In parte forse è colpa della cultura dell’epoca, che non era a favore della donna, ma se prendete Dragon Ball, contemporaneo di Ken, trovate una situazione molto diversa. É vero che non c'è quasi nessun personaggio femminile che combatte insieme agli uomini, ma non si può dire che siano passivi e incapaci di difendersi. Chichi, Bulma, Videl, sono tutti personaggi combattivi e decisi, con un coraggio e una determinazione da vendere. Chichi addirittura si affronta Majin Bu da sola, voglio dire, mica pizza e fichi. Insomma, sono personaggi che non sfigurano, che hanno una propria dignità. Altro che le insopportabili damsel in distress di Ken.

Cosa invece funziona? I disegni. I disegni sono promossi senza se e senza ma. Sono proprio ben fatti, adatti alla storia, cupi e accattivanti. Non sono belli a vedersi nel senso stretto del termine (personalmente li trovo poco puliti), ma sono davvero ben realizzati. Sono l’unica cosa che non si può contestare in nessun modo, tanto di cappello a Tetsuo Hara!

IN CONCLUSIONE



Non voglio negare il ruolo importante che Ken ha avuto nella formazione dei canoni del genere shonen, né voglio negare la grande influenza che ha avuto, né il fatto che abbia segnato un’epoca. Voglio solo dire che a me, lettore del 2017 e non del 1984, non è piaciuto. Penso sia legittimo. Troppi gli elementi che non funzionano, che suonano raffazzonati o mal fatti, troppe le sciattezze a livello di trama e caratterizzazione, troppo rese male insomma le cose che in un manga moderno costituiscono gli aspetti più importanti per determinarne la qualità. Lettura obbligata come tutti dicono, quindi? Sì, ma solo per conoscere che cosa ha fatto la storia di un genere, non perché si tratti (almeno per me) di un’opera di qualità.

IL GIUDIZIO DI HISOKA:

sabato 1 luglio 2017

Recensione - Le cinque stirpi di Markus Heitz

Sapete che cosa manca a questo blog? Una cosa fondamentale, una di quelle cose che non se non ce l’hai non sei nessuno e sarai disprezzato e odiato dal tuo pubblico. No, non sto parlando della regolarità nella pubblicazione, anche se non sarebbe male. Mi riferisco alla recensione di un high fantasy di chiara ispirazione tolkeniana.

Sono sicuro che noi tutti scrittori nel tempo libero di narrativa fantastica abbiamo scritto almeno una volta nella vita un high fantasy ispirato a Il signore degli anelli. Questo perché tutti lo abbiamo letto, lo abbiamo apprezzato e ne siamo stati influenzati, in un modo o nell’altro. Se poi ti chiami Stephen King il tuo high fantasy che scopiazza Tolkien diventerà la saga della Torre Nera e sarà un’opera stupenda. Nella maggior parte dei casi è roba banale e di poca sostanza. Fidatevi, ve lo dico perché nel corso degli anni credo di aver provato a farlo almeno sei volte, e raramente è uscito qualcosa di anche solo accettabile.

High fantasy ispirato a me! Che bello!
Comunque, potevo forse io esimermi dal porre rimedio a sì grave mancanza? Naturalmente no, e quindi beccatevi la recensione de Le cinque stirpi di Markus Heitz.
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Titolo: Le cinque stirpi
Autore: Markus Heitz
Anno: 2003                                                        
Editore: Editrice Nord
Pagine: 635




TRAMA 

La Terra Nascosta è circondata da una fittissima catena montuosa, che la protegge dagli assalti dai mezz’orchi che provengono dall’esterno. L’unico modo per entrare sono cinque porte disposte in punti diversi della catena montuosa, e queste cinque porte sono protette dal popolo dei nani, suddiviso in cinque stirpi, una per ogni porta. I nani difendono le porte da millenni, ma quando la difesa della quinta stirpe viene meno i mezz’orchi e le altre creature del buio irrompono nella Terra Nascosta.

Passano alcuni anni. Mezz’orchi e compagnia hanno invaso una piccola parte della Terra Nascosta. Tungdil è un nano che vive tra gli uomini, presso il mago Lot Ionan. La cosa è di per sé strana, perché nella Terra Nascosta ciascun popolo se ne sta nel fazzoletto di terra che gli è stato assegnato e di rado se ne allontana. Quindi gli elfi stanno nella terra degli elfi, i nani in quella dei nani, e non è frequente che si viaggi. Comunque, Tungdil riceve un compito da Lot Ionan, consegnare a un suo amico lontano degli oggetti. Questa missione, di suo piuttosto innocua, porterà Tungdil a diventare concorrente al trono di re dei nani, e lo metterà contro il malvagio stregone Nudin, che ha come obiettivo conquistare il mondo.

LA MIA OPINIONE


Le cinque stirpi è il romanzo d’esordio dell’autore. E si vede, si vede tantissimo. Non ha soltanto difetti, è vero, ma è pieno di cose che sbavano, punti che non funzionano, imperfezioni di trama, situazioni involontariamente divertenti per la loro intrinseca stupidità. Prima che me lo chiediate la risposta è no, non sarò prodigo di citazioni come lo sono stato con Abyss, per il semplice motivo che mentre leggevo Abyss mi appuntavo tutti i problemi del libro e la pagina in cui li trovavo. Con Le cinque stirpi ho deciso di non farlo perché sono pigro ma soprattutto perché voglio scrivere una recensione e non un romanzo breve a puntate come l’altra volta.

Non per questo vi risparmierò dai punti più interessanti. Quindi cominciamo con una bella carrellata di insensatezze per voi.

1) Insensatezze

“Nella Terra Nascosta, trovare un rappresentante della sua razza [i nani] era raro quanto trovare una pepita d’oro sul ciglio della strada, e la fama dei pochi nani ambulanti che, nelle loro peregrinazioni, offrivano i loro servizi come fabbri o costruttori di utensili non era delle migliori”

Comincio con la mia preferita, i fabbri ambulanti. Avete letto bene, fabbri ambulanti. E non vengono nominati solo in questa frase, appaiono qua e là in tutto il libro. Fabbri ambulanti, ovvero persone che girano per il mondo portandosi dietro fucina, incudine, mantice, mola, martello e quant’altro. Insomma, tutte cose assai semplici da trasportare, affatto pesanti, e che stanno in uno zainetto. Qua le possibilità sono due, o i fabbri ambulanti viaggiano con dei container, oppure l’autore non ha molto riflettuto su quello che scriveva.

E sapete qual è la cosa divertente? Che a un certo punto un fabbro ambulante appare pure! È un vero peccato che non si dica nulla del suo bagaglio, sarei stato proprio curioso di sapere come ha stipato l’incudine, la mola e la fucina in un carro...

All’inizio del libro si racconta che i mezz’orchi tentano da millenni di invadere la Terra Nascosta, senza successo. Da millenni, non un anno, non lustri, non decenni, non secoli, millenni. Bene. Questo significa che sono millenni che centinaia di migliaia di mezz’orchi prendono a capocciate le porte non solo senza mai vincere ma anche senza, che ne so, cambiare tattica una volta. In realtà l’autore specifica che i mezz’orchi sono stupidi, ma questa non è una giustificazione. Un conto è essere un po’ tardi, un conto è essere dei rimbecilliti totali. È surreale che per tutto quel tempo a nessuno sia mai venuto in mente di scavare una buca sotto la porta, oppure mandare qualche esploratore attraverso le montagne e farsi aprire dall’interno, o altro. E badate, quando comoda i mezz’orchi sono stupidi e non capiscono che cambiare una strategia non efficace può essere una buona idea, tuttavia sono dotati più o meno delle stesse armi dei nani, parlano in un linguaggio sensato e articolato, sanno montare un accampamento, hanno una suddivisione gerarchica e un senso dell’onore e della competitività, come viene dimostrato più volte nel romanzo. Insomma, questi mezz’orchi non sembrano così molto più stupidi dei nani, o degli uomini, anzi, paiono una civiltà più o meno al loro livello, se non fosse appunto per questo dettaglio che continuano ad attaccare le porte. Direi che a questo punto è ovvio che la stupidità è soltanto un escamotage che l’autore ha architettato per giustificare al lettore una situazione altrimenti stupida a cui non sapeva dare una spiegazione più sensata. Solo che questo escamotage non solo non rende la situazione meno stupida ma risulta pure incoerente con il resto che la storia ci mostra sui mezz’orchi.

Un mezz'orco.
Due parole merita anche il viaggio di Tungdil su incarico di Lot Ionan. Allora, Lot Ionan dice a Tungdil di andare in un luogo, pur sapendo che l’amico cui Tungdil deve portare delle cose non abita più là (non chiedete). Mentre leggevo mi ero messo a fare i conti bene, ora non ricordo, comunque mi pare che avessi calcolato che tra andata e ritorno il viaggio sarebbe stato in totale di un po’ meno di 2000 chilometri. In pratica Tungdil va a piedi, da solo, con un’ascia che non sa usare (come lui stesso ci informa), in una terra che Lot Ionan sa benissimo essere preda delle pericolose razzie dei mezz’orchi, verso un luogo dove non è mai stato e dove, anche se non lo sa, non troverà il suo obiettivo e, indovinate un po’, senza neppure essere in grado di leggere una cartina. E sapete che cosa dice Lot Ionan di tutto questo?

“«Gli farà bene. Così vedrà la Terra Nascosta anziché leggerne solo le descrizioni nei libri»”

Cioè, stai mandando Tungdil a una morte quasi certa e te ne esci con “ma sì, così si vede un po’ il mondo”? Ma quanto è irresponsabile Lot Ionan? Per lui è un viaggio di piacere, manco se n’è accorto dei pericoli che gli fa correre...

“«Il mio affetto per Tungdil è fuori discussione»”

Ebbene sì, Lot Ionan dice anche questo, e lo fa molto vicino alla citazione di prima. Ma ormai è chiaro, l’espressione è da intendere in modo ironico e in realtà Lot Ionan voleva liberarsi di Tungdil. Devo autoconvincermi che sia così, altrimenti il mio cervello esplode.

L'affetto per Tungdil.
Che poi, la cosa grave è che l’autore palesemente non si è reso conto che Lot Ionan qui fa la figura dell’idiota irresponsabile. Voglio dire, se avesse voluto rappresentare intenzionalmente il personaggio in questo modo allora poteva avere un senso, ma è chiaro che non è così. Siamo di nuovo di fronte a una situazione in cui l’autore propone cose insensate e né lui né l’editor se ne sono accorti.

Questi sono solo alcuni esempi, i più lampanti, ma leggendo il libro ho incontrato diverse altre situazioni simili.

2) Personaggi

I personaggi ricalcano lo stereotipo della razza cui appartengono. O meglio, Heitz ha preso quelli che sono i nani tipo, gli elfi tipo, eccetera e poi vi ha appiccicato quelle due o tre caratteristiche in più giusto per non rendere proprio evidente il fatto che si trattasse di cliché. I nani sono tutti rozzi, pragmatici e orgogliosi, gli elfi leggiadri, e così via. I gemelli Boindil e Boendal sono un chiaro esempio di questo. Entrambi sono rozzi, pragmatici e orgogliosi, solo che uno è schizzato mentre l’altro ha un po’ di buon senso, per il resto sono uguali identici. E lo stesso vale per tutti gli altri nani del romanzo.

Che l’autore avesse in mente degli stereotipi e non dei personaggi veri e proprio lo si nota dal fatto che tutti i nani si esprimono allo stesso modo. Mi spiego. I nani hanno le loro imprecazioni, come per Vraccas, che hanno senso solo per loro perché, per esempio, solo loro adorano Vraccas. Ebbene, dice per Vraccas pure Tungdil, che è cresciuto con gli uomini e ha visto pochissimi esponenti della sua razza nel corso della vita. Suona insensato, no? Sarebbe più logico sentire Tungdil imprecare come un umano. Ma non è così, perché Tungdil è un nano, e quindi deve rispondere ai requisiti del nanoTM by Marcus Heitz. Un po’ ridicolo, non trovate anche voi?

E adesso so che cosa state pensando. “Ma i nani sono rozzi, pragmatici e orgogliosi, altrimenti non sarebbero nani! Non sono stereotipi, è così che funziona il fantasy!” E la mia riposta è no, non è così affatto, anzi, fortunatamente non è così. Un ragionamento del genere è la morte della creatività, è un blocco a qualunque possibilità di cambiamento e originalità. Non sta scritto da nessuna parte che i nani debbano essere tutti così, come non sta scritto da nessuna parte che gli elfi debbano essere tutti leggiadri ed eterei o che gli stregoni tutti saggi e barbuti. Così erano per Tolkien e così sono rimasti per la tradizione successiva, ma nessuno vieta che domani uno scrittore scriva un libro in cui gli elfi sono bassi, grassi e puzzolenti e i nani alti, leggeri ed eterei. Anzi, questa sarebbe una vera sfida, scrivere un libro del genere e farlo suonare credibile alle orecchie dei lettori che ormai sono abituati a qualcosa di completamente diverso. Questa sarebbe vera originalità. A confronto il fare dei nani i protagonisti è ben poca cosa.

A distanza di sessanta anni mi copiano ancora!
Comunque, a dirla tutta Tungdil è uno dei pochi personaggi, forse l’unico, a non essere una macchietta con appiccicate un paio di caratteristiche distintive. Se si tralascia quello che ho detto nel paragrafo sopra, Tungdil è abbastanza accettabile. Non so se l’intenzione dell’autore fosse quella, comunque l’immagine di Tungdil che ricaviamo dal libro è quella di un personaggio ingenuo, con la tendenza a parlare a sproposito, ma coraggioso e con degli affetti molto precisi. Giusto per fare un paragone con un altro caposaldo della letteratura, Abyss, il dispiacere di Tungdil per la strage compiuta in sua assenza è molto più credibile e ben reso di quello di Michael per il rapimento della fidanzata. Lo so, non è un gran merito essere meglio di Abyss, ma anche in assoluto devo ammettere che questa parte è accettabile.

Nodin è, manco a dirlo, il classico cattivone che vuole il potere perché sì, che fa cadere il gelato ai bambini, fa lo sgambetto alle vecchiette e poi sghignazza di gusto dicendo “ma quanto sono cattivo!”. La logica conseguenza di questo è che bene e male abbiano una divisione ben netta che non lascia spazi a dei grigi. Questo manicheismo di fondo porta a volte delle situazioni che non funzionano. Faccio un esempio, sappiate che è spoiler. Il re dei nani non vuole assolutamente che Gandogar, dei quarti, diventi suo successore, e non vuole perché è, in breve, succube del suo consigliere malvagio Bislipur. Quindi, venuto a sapere dell’esistenza di Tungdil, fa credere che questi sia un orfano della quarta stirpe e si appella a un cavillo della legge che prevede che un candidato al trono possa venire messo in discussione solo da un altro appartenente alla sua stirpe. Così Tungdil diventa un pretendente al trono, e, secondo la legge, deve sfidare Gandogar in cinque prove, che stabiliranno chi dei due diventerà re. Prima della quinta prova, i protagonisti vengono a scoprire che Gandogar sta imbrogliando, e per questa ragione sono rimasti molto svantaggiati. E sapete che cosa fanno? Cominciano a gridare all’inganno, accusando Gandogar di essere sleale. Ma diamine, loro sono i primi ad avere imbrogliato mentendo sulle origini di Tungdil, e poi hanno il coraggio di lamentarsi se Gandogar li ripaga con la stessa moneta? Ma che incoerenza è? E ovviamente a nessuno dei personaggi verrà mai in mente di fare un ripensamento, no, loro sono i buoni e quindi se barano va bene, se però bara Bislipur è sbagliato e cattivo e come si permette gliela faremo pagare. Va bé, contenti Markus Heitz e l’editor contenti tutti, suppongo.

3) Scrittura

Lo stile non è il massimo, ma c’è di peggio. Più che altro, non ho ben capito se le sbavature di vario genere che si trovano in giro siano colpa della traduzione oppure siano così anche nell’originale, dovrei controllare ma non conosco il tedesco. Comunque, una cosa che sicuramente non è colpa della traduzione è che Heitz spesso riporta un discorso ma ci informa prima del suo contenuto. Vi faccio un esempio che mi invento così, senza citare.

“Tungdil era davvero felice.
«Sì! Che bello! Sono proprio contento»”

Non é qualcosa che si verifica una volta o due, ma per tutto il libro, e in modo anche più fastidioso, il mio esempio è molto semplicistico.

Più in generale, spesso le scene non sono descritte in modo preciso, e soprattutto le battaglie sono piuttosto mal raccontate. Avete mai letto una battaglia scritta per esempio da Guy Gavriel Kay? Se la vostra risposta è sì allora sapete che in questi casi Kay è sintetico all'ennesima potenza. É capace di scrivere che tizio viene trafitto e muore, e fine del discorso. A me come soluzione non fa impazzire, apprezzo Kay per altri motivi, ma non posso negare che sia efficace. La concitazione e la rapidità del momento di sposano bene con uno stile essenziale e semplice. Heitz risulta invece molto macchinoso nel mostrare i combattimenti. O non è chiaro oppure pasticcia il POV o anche entrambi nei migliori casi. Zoppica, é chiaro che non ha mai scritto combattimenti e non ha una grande esperienza di armi su cui basarsi. 

4) Toccare con mano

Ho pensato che  più che molti miei discorsi può essere utile per capire che cosa non va riportare un brano del libro un po’ più lungo. Ho scelto di mostrare due delle prove che, come dicevo prima, Tungdil e il suo rivale Gandogar devono sostenere. La prima è un duello.

Tungdil si prepara al duello. 
“Gandogar [come arma ha un’ascia, ricordatelo perché ci serve] iniziò subito con una serie di affondi, tempestando di colpi lo scudo di Tungdil; il brillio dei diamanti sulla sua lama aumentava il nervosismo dell'avversario. Tungdil sbirciava oltre il bordo di metallo per vedere quale fosse il bersaglio dei fendenti successivi. Così facendo, indietreggio fino a sbattere contro una colonna.”

Gandogar dà prova fin dall'inizio di essere un abilissimo guerriero, infatti massacra di colpi lo scudo di Tungdil. Geniale! E molto utile, direi. Proprio una mossa da spadaccino provetto. Mi sono sbagliato, non sono colpi, sono... affondi. Affondi di ascia... Uhm, un'altra mossa geniale. Secondo voi é Gandogar che ha imparato a combattere per corrispondenza o l'autore che non sa il significato dei termini che usa? C’é da dire che nella frase dopo gli affondi diventano per magia fendenti, quindi la seconda ipotesi suona come la più probabile...

“Reagi a una nuova offensiva del re scostandosi e attaccando di sorpresa. La scure scivolo con un suono orribile lungo lo scudo sollevato frettolosamente dal sovrano e rimbalzo contro l'orlo inferiore del suo elmo. Stordito, Gandogar retrocedere di alcuni passi.
[Boendal esorta Tungdil e questi continua a combattere]
...Bislipur entrò in azione. Urtò Swerd [il suo gnomo schiavo], che era in piedi accanto a lui, mandando la testa dello gnomo a cozzare contro il boccale di un nano. La birra traboccò, spandendosi sul pavimento.
La pozza fu fatale a Tungdil. Nella fretta, non vide il liquido sparso sulle lastre di marmo, che si tramutarono in una superficie viscida. Il suo piede destro slittò di lato, e lui incespicò e mancò l’avversario.
[…]Gandogar ben presto si riprese e colpì nell’attimo in cui l’avversario gli scivolava accanto. La sua pesante scure colpì con forza la schiena di Tungdil, facendogli perdere del tutto il controllo. Imprecando, il nano cadde e uscì sconfitto dalla prima prova.”

Abbiamo la fiera della ridondanza, con il “colpì con forza” (in effetti mi era venuto il dubbio che gli avesse sferrato un fendente piano...) e il liquido sul pavimento che viene ribadito due volte nel giro di due righe, come se il lettore non avesse capito. Più in generale, una buona parte del libro potrebbe essere sfoltita con grande guadagno in scorrevolezza. Comunque, poi abbiamo la prima prova che finisce perché Tungdil cade per terra (davvero i duelli funzionano così? Va bé...) e soprattutto la birra scivolosa. Questa è una delle mie parti preferite. Tungdil ci scivola sopra neanche fosse sapone! Pare una fusione tra Stanlio e Ollio, Mr. Bean e Il signore degli anelli. Questa è arte, gente, pura e semplice arte.

Ma passiamo alla seconda prova. Viene proposta da Tungdil.

“«Scriveremo un testo. Vince chi finisce per primo».
«Che cosa?» fece il suo rivale esterrefatto.”

Gundogar sa scrivere male, pare. Ma seriamente? È un re e non sa scrivere? E come li firma i decreti, ci mette una x sopra? Ci manca solo che non sappia leggere...

Ma poi qual è il senso di questa prova, che cosa viene valutato? Da come parla Tungdil sembra che vinca chi finisce per primo di scrivere. Ma ehm, che senso ha? Inoltre non viene data nessuna indicazione riguardo alla composizione. Stando quindi all’unica regola di Tungdil, basterebbe scrivere una parola e poi mettere un punto per vincere. Del resto, vince chi finisce per primo...

“Il Sapientone, come lo chiamava Boendal in tono scherzoso, cominciò quasi subito a scrivere, mentre Gandogar fissava le rune con espressione rabbiosa e scarabocchiava qualcosa sul suo foglio.”

Questo mi fa venire in mente che Tungdil viene perlopiù descritto come colto e istruito, molto più del resto dei nani, perché, citando Heitz stesso, legge “di tanto in tanto un buon libro”. Oh bé, quindi bastano un romanzetto o un saggio ogni qualche mese per diventare dei dotti che Umberto Eco levati. Come, lo sa solo Heitz.

Esiste anche un gioco ispirato al romanzo, che a differenza sua pare sia molto valido.
“«Finito» annunciò Tungdil per primo. Il testo venne verificato e giudicato privo di errori. Gandogar impiegò più tempo e la sua accuratezza non si avvicinò minimamente a quella dello sfidante. Balendilìn dichiarò Tungdil vincitore.”

Torna la scemenza del finire il testo per primo (non è stata decisa una quantità di parole da raggiungere, che senso ha?), si aggiunge il fatto che viene giudicata anche la qualità del testo, cosa che non era stata accennata prima. E infine si dice che il testo di Gandogar non era accurato quanto quello di Tungdil, e per questo, oltre che per averci impiegato più tempo, perde. Di nuovo non ha senso! Non si era dato un tema, perché il testo di Gandogar sarebbe dovuto essere accurato? Inoltre nella valutazione di quello di Tungdil viene considerata solo la correttezza, non il contenuto. Insomma, c’è una grande confusione e non si capisce quali siano i criteri di valutazione!

Siamo giunti alla fine. Lo ammetto, ho scelto uno dei punti più bassi del libro, ma il resto non è su livelli troppo più alti. Paradossalmente, il momento più basso è uno dei più alti, perché è uno dei più involontariamente divertenti. In effetti, se preso in modo ironico e con poca serietà allora il libro tira fuori tutta la sua vena trash, che lo rende in quest’ottica molto più godibile.

5) Qualcosa di buono

Uso questa sezione per riportare quello che invece vale nel romanzo. Non è molto, ma c’è. Del resto c’era in Abyss, ci deve essere per forza anche qua. Ho apprezzato il world building, che, pur non essendo originale, è accurato, approfondito e interessante. Ho apprezzato il fatto che il popolo dei nani sia descritto in molti aspetti della sua cultura, che, per esempio, ciascuna delle cinque stirpi abbia una sua specializzazione, o che ogni popolo abbia le sue leggende e i suoi dèi. La parte finale si fa leggere con la dovuta foga e suona un po’ migliore del resto, anche se il colpo di scena che dovrebbe essere inaspettato in realtà si intuiva da molto tempo prima, e per questo non riesce ad avere sul lettore un grosso impatto, se non fargli dire “avevo ragione”. Mi è infine piaciuto l’umorismo che salta fuori qua e là, e che riesce ad essere davvero efficace, come nella scena sulle donne dei nani e la barba. Ma a parte questo, c’è poco altro.

IN CONCLUSIONE


Come dicevo all’inizio, Le cinque stirpi è un’opera d’esordio e si nota. Si nota nell’utilizzo ingenuo di materiale già visto, nella scrittura non di alto livello e nelle incongruenze di cui abbonda. Si salva su certi aspetti ma risulta molto più efficace come romanzo trash che preso seriamente. In sostanza, leggetelo solo volete farvi quattro risate, se cercate un buon romanzo high fantasy vi conviene guardare altrove.

VOTO: