giovedì 20 aprile 2017

Recensione - Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick

Era da dicembre che non si parlava di fantascienza. Sono sicuro che l’argomento vi era mancato. Non voglio parlare qui della mia breve esperienza con Dune, mi sveglio ancora la notte quando ci penso. Voglio invece parlare di qualcosa che mi è piaciuto, perché dopo essermela presa con la Rowling è il caso di tornare ad argomenti felici. Perché recensire bei romanzi è mille volte più soddisfacente che recensire quelli brutti.

Quindi eccoci qui con Philip K. Dick e il suo Ma gli androidi sognano pecore elettriche?. Che è uno dei titoli migliori che esistano, ammettetelo. Nonché causa principale delle occhiate perplesse che mi rivolgeva la gente quando mi vedeva leggerlo in giro. Dovrei esserne felice, per una volta le persone mi guardano strano per un motivo diverso dal modo in cui sono vestito.

Vediamo dunque di capire che cosa ha da dire Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (che d’ora in poi sarà abbreviato in M.a.s.p.e.?, perché bello quanto volete ma impiego un’era geologica e mezza a scriverlo ogni volta) e se la fama che ha sia meritata o meno.
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Titolo: Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
Autore: Philip K. Dick
Anno: 1968                                                          
Editore: Fanucci
Pagine: 238




TRAMA 

Siamo in un 1992 alternativo, in cui ormai gli umani stanno abbandonando piano piano la Terra, che ogni giorno diventa sempre più invivibile. Moltissime specie di animali sono morte, e perciò possedere un animale domestico è diventato simbolo di prestigio, nonché regola della religione che si è diffusa, il mercerismo. Chi non può permettersi un animale vero lo compra robotico, ma cerca a tutti i costi di non farlo sapere.

Rick Deckard è un cacciatore di taglie che si occupa dell’eliminazione degli androidi ribelli. Vive con sua moglie Iran e con una pecora elettrica, nutrendo sempre in segreto il desiderio di un animale in carne e ossa. Un giorno un superiore di Rick, Dave Holden, viene mandato all’ospedale mentre si occupa dell’eliminazione di alcuni androidi di una nuova tipologia, il nexus 6. Il caso sarà quindi affidato a Rick, che si troverà per la prima volta da quando ha cominciato il suo lavoro a riflettere sulle differenze tra umani e androidi.

Contemporaneamente seguiamo le vicende di un altro personaggio. John Isidore è uno speciale, ovvero una persona che ha un quoziente intellettivo basso a causa dell’esposizione alle polveri radioattive presenti nell’aria. Gli speciali sono soprannominati anche cervelli di gallina, e questo la dice lunga sulla considerazione che la società ha di loro.

Isidore conduce un’esistenza solitaria e monotona. Un giorno piomba nella sua vita qualcosa di inaspettato, ovvero una vicina di casa, Pris Stratton, che risveglia in Isidore qualcosa che lui stesso pensava di avere perso del tutto: l’iniziativa e l’intelligenza. Le storie di Rick e Isidore si andranno a intrecciare, nel tentativo del primo di trovare gli androidi che gli stanno sfuggendo, e dell’altro di trovare sé stesso e un senso alla propria vita.

Philip Dick in braccio al suo padrone. 

LA MIA OPINIONE


M.a.s.p.e.? non è il primo romanzo di Philip Dick che leggo. Ho avuto anche il piacere (inserire ironia qui) di cimentarmi con La svastica sul sole, che ok, non è terribile come Il richiamo del cuculo ma comunque non è tutto ‘sto granché. Non penso che lo recensirò mai, sarebbero comunque sei Cthulhu, non di più.

Philip Dick è un personaggio molto sui generis. Giusto per dare un’idea, era convinto di vivere una doppia vita, una come Philip Dick e l’altra come Thomas, un cristiano del I secolo d.c., e pensava che la nostra realtà fosse come programmata da un enorme computer, in modo tale che le vite che viviamo non siano altro che un’illusione. E, a parte gli psicofarmaci che prendeva fin da piccolo a causa della sua lieve schizofrenia e delle crisi depressive, non ebbe quasi nessuna esperienza con le droghe: assunse in qualche caso LSD, e pare nient’altro. Questo per dire, non è che avesse i neuroni bruciati, era, come dire, particolare di suo.

Da una persona del genere è dura non aspettarsi un romanzo strano. M.a.s.p.e.? in effetti soddisfa abbastanza questa aspettativa, ma è ben più che la visione allucinata di una persona che ha perso un po’ troppo il contatto con la realtà. Anche perché è sì strano per certe cose, ma di allucinato ha ben poco.

Dick scrive bene. È sintetico, diretto ed efficace. Le scene d’azione gli riescono molto bene perché sono rapide, nessun dettaglio di troppo, sono serrate concatenazioni di eventi che passano al lettore quell’ansia concitata che stanno provando i personaggi. Quando deve invece mostrare i sentimenti e le impressioni usa immagini vivide e intense, spesso sviluppandole e soffermandosi sui dettagli per rendere ancora meglio il concetto. Quello che gli viene un po’ peggio sono i dialoghi. In M.a.s.p.e.? ne ho trovato più di uno che suonava artificioso o insensato. Mi viene in mente giusto quello a inizio romanzo tra Dick e Iran, in cui praticamente litigano senza motivo, ma ce ne sono altri. È comunque soltanto un’imperfezione in uno stile che per il resto funziona benissimo.

I pericolosi Nexus 6.
La trama non è nulla di complicato, e soprattutto non ha grossi sconvolgimenti o colpi di scena. Prosegue in modo lineare fino alla fine e, quando capita che vengano cambiate le carte in tavola, sono parti della storia che non sono meno importanti ma comunque si situano in qualche modo accanto agli avvenimenti principali senza intaccarli. Alla fine della fiera tutto va come uno può immaginare. Non che sia necessariamente un male, specie quando come in questo caso tutto il resto funziona abbastanza bene, ma comunque avrei di certo apprezzato una maggiore cura dell’intreccio.

Per quanto riguarda i personaggi, anche qua non mi posso lamentare. Rick è caratterizzato in modo sufficiente, è un po’ il classico protagonista di queste storie e, per quanto abbia un suo personale sviluppo e una sua evoluzione, ho trovato difficile immedesimarmi con lui. Isidore invece è un personaggio che è reso molto meglio, che appare all’inizio come lo stupido qual è e poi nel corso della storia tira fuori tutte le buone qualità che possiede. Voglio dire, chi non tifava per lui durante la telefonata alla moglie del proprietario del gatto morto? Chi non ha desiderato di tirare un bel pugno sul grugno a Sloat mentre insisteva che telefonasse lui e non ha festeggiato mentre al telefono gli venivano quei lampi di genio? Insomma, sarà che viene descritto come l’ultimo degli ultimi e alla fine riesce a fare anche la sua porca figura, comunque Isidore mi è stato simpatico fin dall’inizio e mi è piaciuto seguire le parti in cui la storia è dedicata a lui. Il fatto che poi Dick liquidi con un po’ troppa rapidità il finale della sua sottotrama ammetto che mi ha un po’ infastidito, ma per il resto va tutto bene.

I personaggi coprotagonisti sono abbastanza ben messi a caratterizzazione, nulla di particolare ma va bene, un po’ come Rick. Iran, Phil Resch e Rachael non sono affatto monocorde, hanno una propria personalità e un proprio modo di sentire (nel caso di Resch anche una forte etica), ma si mantengono abbastanza nella media.

Come in tutti i romanzi di Dick ad avere un ruolo di rilievo è la componente ideologica, gli spunti di riflessione che l’autore riesce a intrecciare in modo perfetto con la storia e che emergono qua e là, per essere sviluppati in modo compiuto entro la fine del romanzo. È proprio questo aspetto riflessivo che ora fa dire a molti che Dick non scrive fantascienza, no, perché la fantascienza non è letteratura mentre Dick vuole anche dire delle cose, mica solo raccontare una storia. Giudizi affrettati dei soliti intellettualoidi insomma, nulla di nuovo sotto il sole.

La mia reazione a a questi giudizi affrettati.
Comunque, le tematiche che Dick tratta in M.a.s.p.e.? sono comuni anche ad altri suoi romanzi. La prima e più presente è la ricerca del divino. Nella distopia che fa da sfondo a questo romanzo la divinità principale è Wilbur Mercer, che invita la gente a collegarsi a una sorta di sentimento collettivo attraverso le cosiddette scatole empatiche. Da un lato Mercer e dall’altro Buster Friendly, personaggio solo nominato e mai mostrato dal vivo, comico conduttore di una trasmissione che tenta in tutti i modi di demolire il mercerismo. Ovviamente la soluzione che Dick trova attraverso Rick non la rivelo per non fare spoiler, comunque le prospettive a questo proposito vengono sconvolte un paio di volte, fino al cambiamento finale, mai spiegato sul serio ma solo intuibile dal lettore attraverso la situazione. Da quel che ne so, il tema del divino è trattato in modo più approfondito anche in altri libri, comunque già qui assume dei contorni ben definiti, e le conclusioni che vengono implicitamente tirate verso la fine non sono scontate, e possono offrire materia su cui pensare.

Androidi ed esseri umani, robot e animali vanno sempre più a identificarsi mano a mano che il romanzo prosegue. Quello che è all’inizio è un confine ben segnato e ben preciso si assottiglia sempre di più fino a dissolversi e a lasciare le cose in una specie di limbo, un momento in cui fare suddivisioni certe diventa affrettato e in ultima analisi anche poco corretto. Dalle prime pagine capiamo l’antipatia e il fastidio che Rick e Iran provano per il fatto di non possedere un animale reale e di doversi accontentare di una pecora elettrica, ma questa prospettiva viene sul finale ribaltata con l’arrivo del rospo. Non aggiungo altro per non fare spoiler, comunque qui risiede il nucleo centrale del romanzo: in diversi momenti vari personaggi ripetono che è a volte è più giusto fare la cosa sbagliata che quella giusta, ma quando non ci sono più uomini e androidi ma soltanto esseri viventi come si può ancora fare una distinzione netta fra le cose? Ecco che crolla qualunque certezza, qualunque divisione rigida di valori e credenze. C’è soltanto la vita così com’è, la vita di cui fa parte ogni cosa, la vita che non ammette distinzioni. Smette di avere senso parlare di giusto e di sbagliato in base a criteri precostituiti, c’è soltanto l’individuo, e chissà che non possa essere di nuovo Wilbur Mercer a rivelargli come stanno le cose. Un Wilbur Mercer però molto diverso da quello solito.

Questo è soltanto un piccolo assaggio delle tematiche toccate nel corso della storia. Dick le approfondisce molto di più e in modo molto personale e non sempre esplicito attraverso le azioni e le decisioni dei personaggi.

E fin qua più o meno funziona tutto. Cosa invece non va? Bé, la faccenda è strana in realtà. Perché non c’è nulla che in realtà non vada bene, e quindi tutto non va bene. Mi spiego. Nulla in particolare non funziona, ma ci sono tantissime piccole cose sparse qua e là che mi hanno fatto storcere il naso. Molti elementi non sono chiari o sono trattati in modo troppo sbrigativo. Tipo il Palazzo di Giustizia di Mission Street, per dirne una, non dico che non abbia senso, lo ha, ma andrebbe come minimo contestualizzato un po’, altrimenti sembra proprio buttato lì a caso, sembra che Dick dica “toh lettore, io faccio succedere questo, le spiegazioni ci sono ma dattele da solo”. Non si fa così. Lo stesso vale per il finale della vicenda di Isidore, tirato così come se fosse un evento marginale e raccontato sotto il punto di vista di un altro personaggio. Sciatteria mi verrebbe da chiamarla, se non fosse che quando vuole Dick sa essere tutto tranne che sciatto.

E se non vi vanno bene le pecore elettriche, abbiamo anche un gatto cibernetico!
Ci sono come dicevo prima un po’ di dialoghi surreali, qualche personaggio a volte prende decisioni improvvise e non comprensibili nell’immediato (le motivazioni ci sono ma bisogna stare lì a pensarci), ogni tanto capita che i sentimenti dei personaggi mutino un po’ troppo rapidamente e qualche evento avviene in modo così repentino che il lettore non riesce a capire che cosa sia successo e rimane disorientato. Non faccio esempi di tutto ciò per non fare spoiler, comunque sta di fatto che rovina non poco la lettura, e controbilancia in parte in negativo tutti i pregi che ho elencato finora.

IN CONCLUSIONE


M.a.s.p.e.? è un buon romanzo, ben scritto e ben congegnato, con dei personaggi discreti e molte cose da dire. È a volte troppo frettoloso o troppo buttato lì a caso e questo affossa un po’ le sue qualità, ma resta comunque un’ottima lettura, che mi sento di consigliare a chi voglia approcciarsi a Dick. È sicuramente meglio de La svastica sul sole, non c’è paragone.

VOTO: 

P.S. L’edizione italiana è la solita Fanucci di tutte le opere di Dick, quella con la frase fiera scritta sul retro come se fosse un incentivo a comprare il libro, mentre in realtà fa venire voglia di rimetterlo sullo scaffale. Che ci volete fare, dobbiamo tenercela così.

venerdì 14 aprile 2017

Recensione - One Outs di Shinobu Kaitani


Se non si fosse capito, io sono un patito delle strategie. Tanto mi piacciono le strategie quanto poco mi piace lo sport. Quando la gente mi chiede che squadra tifo rispondo che preferisco la peste, ho imparato giusto un mese fa che cosa sia il fuorigioco e penso che l’unico evento sportivo che ho guardato per intero siano stati i tuffi alle olimpiadi di quest’estate. Ed è stato un puro caso.

In realtà a me non piace fare sport. Guardarlo giocare non è certo così male, specialmente se posso mettermi a capire i funzionamenti della partita, e cercare così di stabilire quale possa essere il modo migliore per vincere. Non lo faccio perché poi non mi viene mai la voglia, ma in realtà fare da spettatore mi piace pure. Comunque sia, di non rientra tra le mie attività preferite, e quindi potrebbe suonare strano che oggi io mi presenti a recensire One Outs, un manga che parla di sport. Ma ehi, avete presente la prima premessa? A me piacciono le strategie. E dire One Outs è dire strategia.
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Titolo: One Outs
Autore: Shinobu Kaitani
Anno: 1998                                                  
Volumi: 20
Editore: Inedito in Italia (su internet esiste la traduzione in inglese di un buon 70% dei volumi, ma per alcuni bisogna rassegnarsi a guardare l’anime. O a imparare il giapponese).


TRAMA

Hiromichi Kojima è il battitore di una squadra di baseball abbastanza scarsa, i Lycaons. Questa è la sua ultima stagione prima di ritirarsi, e sarebbe suo desiderio vincere il campionato. È durante la sua ricerca di quel qualcosa che gli manca per vincere che Kojima si imbatte nel one outs, un gioco che viene praticato clandestinamente a Okinawa e che è oggetto di scommesse da parte del pubblico, che consiste in qualcosa di molto semplice: il lanciatore deve eliminare il battitore segnando almeno due strike su tre. Campione di questo gioco è il misterioso e taciturno Tokuchi Toua, che non è in grado di lanciare palle particolarmente rapide ma non ha mai perso una volta. È questo l’inizio nella vita di Tokuchi di un radicale cambiamento, che lo porterà a fare di tutto per realizzare il sogno di Kojima e portare i Lycaons alla vittoria del campionato. D’ora in poi però sarà assunto in base a un contratto molto particolare fatto su misura per lui, un contratto dove vengono messe in gioco somme di denaro altissime, e che uno scommettitore come lui non può permettersi di rifiutare.

Tokuchi Toua mentre rappa.

LA MIA OPINIONE


Io non sapevo niente di baseball quando ho cominciato a leggere One Outs, e quando dico niente intendo proprio zero col buco. Ma questo non è stato per nulla un problema, mi sono armato di Wikipedia e pazienza e con un po’ di ricerca mi è stato tutto chiaro. In sostanza, non conoscere il baseball non impedisce di leggere e soprattutto apprezzare One Outs.

Come anticipavo prima, sport e strategie sono le due componenti essenziali della storia. Questo non deve stupirci, visto che l’autore è Shinobu Kaitani, che ha disegnato e sceneggiato anche Liar Game, che non ho mai recensito su questo blog ma sappiate che mi piace parecchio (a parte il finale, ma voglio autoconvincermi che il finale sia un’orrenda allucinazione collettiva). Ecco, Liar Game per chi non lo conoscesse è il trip mentale fatto manga. E One Outs, che cronologicamente lo precede, non è affatto da meno.

Tokuchi si prepara a un sevizio.
Tokuchi Toua è, prima che un buon giocatore di baseball, un ottimo stratega, un fine lettore dell’animo umano e un ardito scommettitore. Queste sue tre caratteristiche combinate insieme creano il suo personale e imbattibile stile di gioco, che consiste nel capire l’avversario e trovare il modo migliore per vincerlo. In questo modo costruisce le strategie che lo portano alla vittoria della partita.

Le strategie sono l’aspetto più coinvolgente di tutto il manga. È uno spettacolo seguirle, cercare di anticipare Tokuchi oppure di capire che cosa ha in mente di fare. Spesso anche gli avversari utilizzano metodi di questo genere per cercare di vincere, e ciò non fa altro che aumentare la tensione e l’attenzione. Osservare come alla fine l’avversario viene messo al muro nel modo più astuto possibile, come già da parecchio tempo Tokuchi avesse previsto che la partita avrebbe preso una determinata direzione e quindi si fosse già premurato per rispondere in modo efficace è davvero interessante. Io personalmente mentre leggevo non riuscivo a smettere, dovevo a tutti i costi sapere come andava a finire. Giusto per darvi un’idea, vi racconto questo. Non so se l’ho mai detto comunque io ho molta difficoltà a non fare nulla per tanto tempo. Non riesco perciò per esempio a guardare serie tv, perché guardare è un atto passivo, e mi annoio. Stesso discorso vale per gli anime. Riesco invece a leggere perché leggere è qualcosa di attivo, e quindi mi tiene sufficientemente impegnato. Altra cosa, come accennavo prima alcuni volumi di One Outs non sono mai stati tradotti in inglese, bisogna guardare l’anime. Ecco, premesso tutto questo, ho guardato una cosa come sei episodi di One Outs in una mattina. Che per me non è tanto, di più, è come se un astemio si trincasse dieci birre in una serata. Questo per dare l’idea di quanto mi ha appassionato.

Tokuchi soddisfatto. Ha appena innaffiato il girasole che ha in testa.
C’è un altro elemento molto coinvolgente, che insieme alle strategie costituisce uno dei punti meglio riusciti di tutto il manga. Sto parlando di Tokuchi Toua, che non solo è il protagonista, è la figura che domina tutta la storia. Anche i comprimari vengono spesso relegati sullo sfondo della scena, Tokuchi è il centro dell’attenzione dell’autore. Solo in certi momenti si fa largo la figura di Izumi Takami, che pare può rivaleggiare con Tokuchi. Comunque sono solo alcuni momenti, per il resto del tempo Tokuchi la fa da padrone. E questa è una delle mosse più azzeccate che l’autore potesse fare.

Tokuchi è per certi aspetti un personaggio monocorde. Non si scopre nulla del suo passato, e lo vediamo sempre calmo, controllato e padrone della situazione. È ben caratterizzato, ma non è affatto approfondito psicologicamente e non ha un’evoluzione. Il Tokuchi del primo volume è identico a quello dell’ultimo. Eppure Tokuchi svolge in modo perfetto quello che è il suo ruolo, ovvero essere la colonna portante di tutta la storia. Tokuchi ha carisma, ha la capacità di affascinare il lettore. È il tipico personaggio che non sbaglia mai, ma ha intorno a sé un alone di mistero sufficiente per bilanciare questa sua fastidiosa perfezione. Ha sempre tutto sotto controllo e sa qual è la soluzione, ed è anche freddo, calcolatore e dalla parlata tagliente e acuta. Insomma, è una variazione piacevole del personaggio troppo perfetto perché invece che essere un insopportabile saccente a cui viene tutto bene è una figura a volte ambigua, severa e spesso cattiva nei confronti degli altri. Tokuchi è il motivo per cui leggere One Outs non è ripetitivo né lento, ma sempre affascinante ed emozionante, perché oltre che offrire delle strategie molto ben elaborate mette in scena un personaggio carismatico che con la sua altezzosa superiorità conduce il lettore, insieme agli altri membri della squadra, alla demolizione degli avversari.

"Maledetto Tokuchi... Mi ha relegato a comparsa..."
La trama è semplice, fin troppo semplice. Tuttavia, per evitare una generalizzazione dannosa, mi sembra sensato dividerla in due grossi filoni. Il primo che racconta delle partite giocate da Tokuchi, il secondo quello che vede Tokuchi ricoprire un altro ruolo, su cui non aggiungo altro per evitare spoiler. Bisogna dire che la prima parte è per certi aspetti migliore. Nella seconda le strategie si fanno molto diverse, se nella prima erano applicate alle partite in modo diretto (e quindi erano spesso inserite in una serrata spirale di tattiche), nella seconda vengono applicate per così dire ai giocatori (continuo a essere poco chiaro per non finire in spoiler), e questo porta il tutto a scivolare un po’ senza rimanere molto impresso. Per dire, nella seconda parte intere partite vengono raccontate nel giro di pochi capitoli, e questo naturalmente priva un po’ la storia del suo mordente. È vero che vengono approfonditi altri aspetti, tipo viene fornito a Tokuchi un rivale degno di questo nome, vengono rivelati i retroscena che risiedono dietro al baseball professionistico e in un paio di volumi la lotta strategica non è più a livello di partite ma a livello di contratto e acquisto. Ma resta comunque sempre l’impressione che quel qualcosa che rendeva speciale la prima parte sia andato irrimediabilmente perso.

Ah, la trama si conclude in realtà nel volume 19, il 20 racconta una storia a sé ambientata in un punto del volume 18 (se non mi sbaglio). Fate finta che non esista perché è un drastico calo di qualità rispetto a quello che viene prima, il nemico che sembra pericoloso è un idiota e il lettore capisce dieci anni prima perché la sua tattica andrà storta. In sostanza è un’aggiunta di cui non si sentiva il bisogno e che anzi, non fa altro che abbassare la qualità. Saltatela, tanto è l’ultimo volume, o se proprio desiderate leggerla fatelo coprendovi le orecchie con le mani e ripetendo forte “se non sento non è vero”. Ma fidatevi che non vi perdete niente.

Sempre senza cadere in spoiler volevo dire due parole sul finale. Il finale è di per sé abbastanza casuale, si vede lontano un miglio che Kaitani non sapeva bene come concludere e quindi ha deciso di dare un taglio netto a tutto. Quindi di suo non è il massimo, tuttavia viene reso con sufficiente malinconia e riesce a dare un senso di tristezza che non ci sta affatto male. È di nuovo grazie al fatto che il lettore ha avuto modo di simpatizzare con Tokuchi, e quindi non può fare a meno di rimanerci un po’ male. Quindi diciamo che un po’ per l’astuzia dell’autore un po’ per il carisma di Tokuchi quello che sarebbe stato un finale un po’ tirato riesce a essere almeno dignitoso. Del resto sappiamo che Kaitani non ci sa fare con i finali. Non dirò altro se non Liar Game. Chi ha orecchie per intendere...

Shinobu Kaitani il giorno della sua laurea.
Ci sono varie sbavature qui e là che intaccano lo scorrere piacevole della lettura. Le più evidenti sono nella parte dedicata a Kurai, Muruwaka e Sugadaira, dove la sospensione dell’incredulità che viene richiesta è decisamente eccessiva. Si vede che Kaitani ha deciso di strafare, e propone situazioni che, per quanto possibili, suonano davvero esagerate. Di nuovo non dico di più per non fare spoiler, comunque questa esagerazione è davvero fastidiosa: One Outs tira avanti grazie alle strategie e all’intelligenza di Tokuchi. Di colpo invece, fortunatamente per poco, pare che intelligenza e astuzia non contino più, l’importante è avere innata l’abilità di superare un record mondiale, il tutto senza aver mai praticamente mosso un dito. Ma per favore.

Non che in quella parte vada tutto male, niente affatto. A onor del vero, il discorso tenuto a Sugadaira da Tokuchi merita sul serio, ma controbilancia solo in parte le assurdità di trama.

I disegni all’inizio non sono granché, ma migliorano molto. Nei primi volumi sono mal fatti, mano a mano che prosegue diventa meglio, fino a raggiungere verso la fine quello stile elegante e slanciato che caratterizzerà anche Liar Game.

IN CONCLUSIONE


One Outs è un manga di tutto rispetto, che pur non riuscendo a diventare un capolavoro è ricco di buone qualità, ha un protagonista carismatico e coinvolgente e delle strategie davvero ben realizzate. La lettura non è quasi mai noiosa e la storia, per quanto semplice e ridotta all’osso, prosegue in modo interessante, anche se a volte osa troppo poco. È un manga nella media,e che a volte riesce a elevarsi un po’ sopra gli standard tipici, ma non sempre e ogni tanto ricade anche in qualche errore da principiante. Insomma, vale la pena recuperarlo, specie se si amano le strategie e i trip mentali, ma tuttavia bisogna sapere che, pur essendo una lettura di tutto rispetto, non andrà molto oltre quello.

IL GIUDIZIO DI HISOKA:

domenica 9 aprile 2017

Commento integrale al Liber di Catullo. Carme 2.

Eccoci tornati a parlare di Catullo e del suo Liber. Dopo aver esaminato il ricco e complesso componimento proemiale possiamo immergerci nella lettura dell’opera avendo presenti le coordinate principali della poetica di Catullo come lui stesso le ha espresse.

Come forse ho già avuto modo di ricordare, il Liber non è una raccolta organica né dotata di un ordine premeditato (non è il Canzoniere di Petrarca, per capirci), anche se ovviamente esistono riferimenti che passano tra una poesia e l’altra e quindi le mettono in relazione. È quello che succede con i carmi 2 e 3, che sono vicini per un motivo: formano un dittico, in cui lo stesso tema viene affrontato in maniera continuativa. All’inizio avevo pensato di commentarli insieme, ma l’articolo stava assumendo dimensioni abnormi (quasi come una puntata di Abyss, per intenderci), quindi ho deciso di separarli. Il tema in questione è l’animaletto caro alla donna amata, in questo caso il passero.

Passiamo quindi subito a vedere quello che ci aspetta oggi, ovvero il carme 2.

Passer, deliciae meae puellae,
quicum ludere, quem in sinu tenere,
cui primum digitum dare adpetenti
et acris solet incitare morsus,
cum desiderio meo nitenti
carum nescioquid libet iocari,
et solaciolum sui doloris,
credo, ut cum gravis acquiescat ardor:
tecum ludere sicut ipsa possem
et tristis animi levare curas!

Passero, delizia della mia ragazza,
con te gioca e ti tiene in grembo,
a te dà la punta del dito perché la becchi,
e incita i tuoi morsi rabbiosi,
quando al mio amore piace
fare un non so quale dolce gioco,
e consolazione al suo dolore, credo,
affinché allora il grave ardore si acquieti:
con te potessi come lei giocare
e alleviare le tristi pene dell’anima!

Segnalo come sempre che questa traduzione non vuole essere né poetica né ben fatta, vuole rendere al lettore l’immediato significato del testo. Serve cioè per permettermi di lavorarci sopra e di condurvi attraverso la sua interpretazione.

La donna amata e il suo passero.
La poesia si rivolge al passero della donna amata da Catullo, che per ora non ha nome ma lo acquisirà presto. Viene descritta una scena di gioco tra i due, e da questa scena quotidiana poi il poeta passa subito a parlare di sé stesso e dei suoi sentimenti. Dall’esterno si passa all’interno, il punto focale della attenzione del poeta si sposta dal passero a sé. Del resto, e questo lo vedremo in tutto il Liber, il centro della poesia di Catullo è Catullo stesso, e anzi, compito della poesia diventa dare voce a quello che gli si agita dentro, far parlare l’interiorità (sempre secondo un modulo letterario: la poesia di Catullo, come ho già avuto modo di dire, non è scritta di getto ma meditata e calcolata, anche quando non lo sembra affatto, e per questo non bisogna pensare che tutto quello che racconta tragga davvero spunto da un fatto reale, né che provi realmente tutti i sentimenti che descrive).

Viene qui introdotto il tema amoroso, che sarà centrale in tutto il resto del Liber, e viene presentato in un’ottica positiva. L’aspetto negativo del rapporto d’amore, costituito dal tradimento e dalla sofferenza, che emergerà a più riprese in molte delle poesie successive, è qui solamente accennato sul finale, quando appunto si passa a parlare del poeta. Il resto della poesia è però dedicata alla donna e alla contemplazione in un momento di svago e quotidianità. Questa vista assorbe completamente Catullo, e sottrae alla sua fantasia qualunque spazio per parlare del suo dolore.

Regalare uccelli alle donne romane era una prassi diffusa. Catullo però nel ritrarre la donna che ama insieme al suo animale domestico riprende un modulo della poesia alessandrina, e non da un poeta qualunque, bensì da Meleagro, che, come di certo ricordate aveva già preso a modello per il carme proemiale. Sotto il suo nome infatti, nel libro VII dell’Antologia Palatina, ci sono stati tramandati due epigrammi dedicati a una cicala e a una cavalletta. Il tema è quindi ellenistico, ma calato nella realtà romana.

Il carme è un’elaborata trama di giochi e allusioni, di serietà e parodia. Qualche commentatore ha voluto esagerare: ha pensato che il passero celi in realtà un doppio senso osceno. A parte il fatto che, se così fosse, la parte finale perderebbe di senso (come potrebbe il poeta auspicare di alleviare le proprie pene con il passero se il passero fosse un’allusione sessuale?), una simile interpretazione è senza dubbio esagerata. Non è sbagliato tuttavia cercare nella poesia parole che significano più di quanto sembrino, e che rimandano ad ambiti ben precisi. In particolare, troviamo qua e là parole che appartengono al lessico erotico. L’esempio più evidente di questo è il verbo ludere, che viene ripetuto più volte, e che, oltre che giocare, può indicare anche il compiersi dell’atto sessuale, ma anche desiderium era termine frequente della poesia d’amore. Con quest’uso ambiguo di termini che rimandano ad un contesto ben più malizioso di questo Catullo vuole mettere in atto la parodia del filone della poesia ellenistica in cui si sta inserendo: si parla sì di animaletti domestici, ma sottintesa alla descrizione c’è l’attrazione del poeta verso la proprietaria del passero, attrazione che viene mascherata nella descrizione innocente del gioco di farsi becchettare le dita.


La cavalletta di Meleagro.
Accanto a questa parodia ce n’è un’altra, e di un genere letterario molto più serio. I primi versi contengono l’invocazione del passero, e sono molto elaborati. Dopo l’apostrofe che dà inizio al componimento segue un’apposizione (deliciae meae puellae), cui si aggiungono ben tre proposizioni relative, che ci danno informazioni su che cosa il passero fa, dando così inizio alle descrizioni dei giochi tra l’animaletto e la donna. L’uso di relative in successione è tipico degli inni agli dèi: un esempio notissimo è quello dell’incipit del De rerum natura di Lucrezio, dove Venere è accompagnata da due relative (“quae mare navigerum,/quae terras frugiferentis concelebras...”). Adottando con il passero le stesse modalità espressive dell’innografia, Catullo vuole lodarlo con un eccessivo innalzamento dello stile, che ricade così in un effetto di comica esagerazione. Del resto il passero è posseduto dalla donna amata, e questo è abbastanza perché possa essere equiparato ironicamente a un dio.

Su questi due livelli si articola la parodia, che costituisce la cifra più importante dell’intero componimento, e gli conferisce originalità. Senza questi elementi, sarebbe facile bollarlo come una banale imitazione di Meleagro, che ben poco ha da offrire di nuovo. Invece l’adozione ironica di moduli della poesia alta lo distacca decisamente dalla fredda formalità di certi versi degli epigrammi di età ellenistica. Inoltre, l’uso del vezzeggiativo solaciolum è un tratto tipicamente neoterico.

Proprio per questo in questa poesia il contenuto è meno importante che nel carme 1. L’unico elemento notevole è sul finale, quando come dicevo prima viene anticipato l’elemento di sofferenza presente nel rapporto d’amore. Catullo sostiene che, come la donna amata, anche lui può trovare conforto alle sue pene. Che si parli d’amore è qui evidente dal lessico e dal contesto, e quindi viene da pensare che la donna amata non lo corrisponda. Il componimento assume perciò una sfumatura diversa. Il poeta sta immaginando la donna con il passero, o forse la sta osservando da lontano. Comunque sia, egli si trova distante da lei, e questo spiega l’ironica divinizzazione del passero: l’uccellino fa quello che vorrebbe fare il poeta, ovvero passare del tempo con la donna. In quest’ottica, la descrizione dei giochi viene velata da una patina quasi di rimpianto da parte di Catullo per la sua impossibilità a prendervi parte.

Voglio infine soltanto accennare qualche problema relativo alla struttura del testo. Come dicevo all’inizio, la traduzione che propongo è per così dire di servizio. In realtà, se avessi voluto dare una traduzione più accurata avrei innanzitutto dovuto esaminare le varie correzioni che sono state fatte in alcuni punti della poesia. Innanzitutto, qualche editore ipotizza la caduta di alcuni versi tra il verso 6 e il 7. Inoltre, crea alcuni problemi dare un senso a ut al verso 8. Io l’ho tradotto come una congiunzione finale, ma c’è anche chi lo ha espunto e ha modificato o in tum il cum che viene subito dopo o in posse il possem del verso successivo. Un’altra soluzione adottata è stato dare a ut una sfumatura interrogativa, oppure considerare ut cum come un unico nesso causale. Vi offro soltanto le varie ipotesi, senza però prendere una posizione precisa, e nella traduzione sopra ho soltanto seguito l’interpretazione che viene data solitamente.


Credo che questo sia sufficiente per capire, cosa che non è scontata, che non siamo davanti semplicemente a una poesia qualunque su un passero e la donna amata, ma l’operazione compiuta dal poeta è più arguta, più letteraria. È qui del resto che possiamo ammirare la bravura di Catullo, ed è questa una linea interpretativa che possiamo seguire anche per interpretare altri autori antichi. Capita spesso che nei libri di scuola o nelle spiegazioni degli insegnanti si privilegi l’aspetto grammaticale o quello culturale; come se spiegando la Divina Commedia ci si limitasse a tracciare un profilo biografico dei personaggi che Dante incontra o a fare l’analisi grammaticale e logica dei versi. Capite che ci si perderebbe tutto l’aspetto ideologico e letterario dell’opera. Questo aspetto è presente anche nelle opere antiche, anche se appunto spesso viene trascurato. Mio obiettivo è anche quello di porre l’accento su questo.


Quindi, ricapitolando, il primo approccio con la poesia di Catullo dopo il carme proemiale ci presenta l’immagine di un poeta che cerca di conciliare modi della poesia ellenistica con la tradizione romana e in chiave parodica, e che vela con questa patina ironica quelli che sono gli argomenti più intimistici, che verranno meglio approfonditi nelle poesie successive.

Sinceramente, non so quando riuscirò a postare il commento al carme 3, se tutto va bene tra un paio di settimane. Comunque non mollo, anche se sono consapevole che il commento al Liber non lo finirò mai tiro avanti imperterrito! Alla prossima!