martedì 27 febbraio 2018

Recensione - Sailing to Sarantium di Guy Gavriel Kay

No, neanche oggi Regazzoni. Mi spiace. È che quando ho dovuto scegliere se leggere Foresta di tenebra oppure Sharps di K. J. Parker, dopo notti trascorse sudato e insonne tormentato dal dubbio e dall’indecisione, ho scelto Parker. Quindi vi propino un’altra recensione positiva di un altro fantasy, parecchio diverso però da L’oceano in fondo al sentiero.

Guy Gavriel Kay è uno scrittore molto noto. Alcuni suoi romanzi sono stati tradotti anche in italiano. Si tratta essenzialmente delle sue prime opere, ovvero la trilogia di Fionavar e Il paese delle due lune. Io ho conosciuto Kay leggendo il suo ultimo romanzo, Children of earth and sky, che ho trovato stupendo e che non ho mai recensito perché boh, evidentemente in quel momento avevo altro per la testa. Tipo l’esame di archeologia greca, ora che ci penso. Comunque, dopo l’esperienza positiva sotto quasi tutti gli aspetti di Children of earth and sky ho scelto di leggere la bilogia del mosaico di Sarantium, intanto perché ne ho sentito parlare molto bene, e poi perché ho in ebook anche la Trilogia di Fionavar ma la trama è di una banalità tale che sembra l’abbia scritta il fratello demente di Kay. Quindi ho detto, magari è tutta apparenza, ma perché rovinare la bella immagine che ho di uno scrittore quando posso andare sul sicuro?

E quindi eccoci qui. Dicevo, la bilogia del mosaico di Sarantium, appunto. Ecco cosa ne penso del primo libro che la compone, Sailing to Sarantium.
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Titolo: Sailing to Sarantium
Autore: Guy Gavriel Kay
Anno: 1998                                                       
Editore: Harper Voyager
Pagine: 524




TRAMA 

A Sarantium, l’occhio del mondo, città delle città, grandi cambiamenti sono in atto. Dopo la morte dell’imperatore Apius la successione si consuma nel sangue, e prende il potere Valerius, capo delle guardie imperiali. Quindici anni dopo ha preso il suo posto il nipote Petrus, con il nome di Valerius II, e governa insieme alla moglie Alixana, donna sensuale e misteriosa, nonché, in passato, attrice e danzatrice.

Nella regione di Batiara, invece, si respirano ancora le polveri di un impero ormai caduto sotto le pressioni e le scorrerie dei barbari. La gloria della città di Rhodas, ormai relegata soltanto a centro religioso, è diventata solo un ricordo, e a governare sono i barbari che hanno invaso il paese, gli Antae, comandati dalla giovanissima regina Gisel, che teme le insidie dei nobili del suo popolo, i quali mal sopportano di essere sottomessi a una ragazzina. Batiara e Trakesia, il paese di cui Sarantium è capitale, erano un tempo un unico impero, ora sono divisi, sia nella politica che nel destino.

La narrazione si focalizza sulle vicende di un artigiano mosaicista, Caius Crispus, o Crispin, che vive a Batiara e lavora insieme al suo maestro Martinian. Crispin, dal carattere iracondo e poco incline alla diplomazia, ha visto morire a causa della peste sua moglie e le sue figlie, e da quel momento è diventato molto più svogliato e poco incline a mettersi in gioco. Tutto cambia però quando Martinian viene convocato a Sarantium per comporre il mosaico del nuovo santuario di Jad che Valerius II sta facendo costruire, simbolo sia della sua fede religiosa ma anche e soprattutto del suo potere. Martinian però, che si sente troppo vecchio per viaggiare, convince Crispin a partire spacciandosi per lui. Poco dopo Crispin viene convocato da Gisel, che ha saputo della sua partenza, e che gli affida una missione segreta, di vitale importanza per lei e per Batiara.

Crispin dopo essere stato fatto santo.
Comincia per Crispin un lungo viaggio fino a Sarantium, viaggio nel quale incontrerà compagni, in cui potrà osservare quanto il mondo sia straordinario, misterioso e incomprensibile, e al termine del quale si troverà nella città delle città, l’occhio del mondo, davanti a tutte le personalità più potenti della sua epoca. Valerius II, Alixana, Leontes, capo dell’esercito, sua moglie Styliane, il cui fratello è stato ucciso all’epoca dell’ascesa del primo Valerius, saranno i giganti davanti ai quali dovrà presentarsi per svolgere il suo lavoro, e lasciare tramite esso un’impronta nella storia.


LA MIA OPINIONE



Qualcuno ha un déjà vu? Qualcuno quando ha letto Valerius II ha detto Giustiniano?

Il forte di Kay è proprio questo, scrivere fantasy di ispirazione storica, in cui cioè il word building si modella sulla storia del nostro mondo. Qui le analogie sono facili da cogliere per chiunque: Rhodas è  il corrispondente di Roma, Sarantium di Costantinopoli, Valerius II di Giustiniano, Leontes  di Belisario, e così via. Siamo comunque sempre di fronte a un fantasy, quindi le vicende prenderanno la piega che preferisce l’autore, a prescindere che nella nostra storia le cose siano andate così o meno. Sono l’ambientazione e le premesse che attingono a piene mani dalla storia, lo svolgimento e la narrazione sono tutta farina del sacco di Kay.

Si vede che l’autore si è molto documentato sulla Costantinopoli dell’epoca di Giustiniano, lo si nota di continuo durante la lettura. Dai dettagli sui profumi, ai modi di vestire, alle fazioni dell’Ippodromo, ogni dettaglio è curato alla perfezione secondo l’uso dell’epoca cui Kay fa riferimento. Questo è molto affascinante, in quanto caratterizza il mondo in modo efficace. Il vincolo di riferirsi a un periodo storico potrebbe, se imposto a una penna meno esperta, risultare limitante, e potrebbe in qualche modo imbrigliare la fantasia dell’autore. Con Kay è il contrario, esso diventa uno strumento per la sua fantasia per svilupparsi e creare.

La storia di Sailing to Sarantium è molto molto verosimile. E non è dovuto al fatto che si ispira alla realtà, anzi, quello c’entra ben poco, visto che gli elementi tratti dal vero, pur essendo moltissimi, riguardano essenzialmente personaggi e ambientazione. La verosimiglianza è data dal fatto che Kay conosce molto bene le cose di cui parla. Sa come funziona un esercito, come è organizzata una corte, come ci si rapporta tra sovrani e sudditi, tutte quelle cose che consentono al suo mondo di assumere una forma realistica. Kay non crea e basta, Kay riveste la sua fantasia di tutti quei dettagli realistici che invece che imbrigliarla la rendono più credibile. Questo aspetto è uno dei principali punti di forza del romanzo, e non solo di questo, anche di Children of earth and sky e quindi, almeno suppongo, più in generale di tutta la sua produzione di fantasy modellati sulla realtà.

Sailing to Sarantium per certi aspetti è un romanzo atipico per Kay (perlomeno per il Kay di ispirazione storica, il Kay di Fionavar non so come sia), mentre per altri rientra perfettamente nei suoi canoni. La cosa più inusuale è che si concentri su un solo protagonista e sulle sue vicende. Di solito invece troviamo un numero di protagonisti molto elevato, ciascuno magari in un luogo diverso del mondo, invischiato nelle sue vicende. La focalizzazione solo su Crispin non è un male, anzi, Kay dimostra di sapersela cavare bene anche con un modulo narrativo che di solito non sfrutta.  D’altra parte, quello che si perde è che l’ampia visione di insieme che invece caratterizzava Children of earth and sky, in cui il lettore nel giro di poco tempo visita quasi tutti i luoghi più importanti del mondo in quell’epoca, grazie al fatto che in ciascuno di essi c’è almeno un personaggio che fa da punto di vista. Si tratta di una libera scelta dell’autore e direi anche piuttosto sensata, visto che, almeno per la maggior parte del libro, il numero dei personaggi in scena non è molto elevato.

Kay invecchiando è diventato Francesco Guccini.

Il libro riprende uno dei temi di Children of earth and sky (ma visto che questo è stato scritto dopo sarebbe più corretto il contrario), ovvero l’impossibilità di conoscere tutto nel mondo e quindi la necessità di arrendersi ai misteri che esso presenta. La trama porta questo tema ad intrecciarsi con la riflessione sulle religioni e sul loro significato. Il mondo in cui si svolge la storia, a parte qualche luogo ben preciso, è devoto a Jad, che poi è il corrispondente del Dio cristiano. Anche Crispin sposa questa religione, ma presto è costretto a rendersi conto che le cose non sono così semplici. Che non poter capire come funziona il mondo comprende anche dover riconoscere che esistono forze inspiegabili e che gli dèi del paganesimo prima di Jad rientrano tra queste. Che se non si può spiegare tutto al mondo allora bisogna rassegnarsi ad ammettere che l’esistenza di più divinità non è una contraddizione. 

Questa realizzazione è una tappa fondamentale del viaggio di Crispin, che segnerà lui e il mosaico che realizzerà al santuario di Jad. Il contatto con forze soprannaturali e con l’half-world (ovvero, in buona sostanza, il mondo dei defunti) accompagna tutto il suo viaggio, ed è normale che sia così, appunto per quello che si diceva prima, ovvero che il mondo non è per nulla conoscibile. Dobbiamo accontentarci di comprendere quello che possiamo e quello che ci capita, ma non sperare di andare troppo oltre.

La caratterizzazione dei personaggi è ben realizzata. I coprotagonisti hanno tutti una personalità, da Zoticus a Kasia a Carullus a Plautus Bonosus. A dominare sulla scena è chiaramente Crispin, il quale compie in tutto il suo viaggio una crescita. A fine del romanzo questa crescita è ancora in corso, ma solo perché verrà sviluppata, e conclusa in modo inaspettato, nel libro successivo. In pratica, nelle sue prime apparizioni Crispin ci viene mostrato come una persona suscettibile, facile all’ira e agli insulti, che ha perso la voglia di vivere dopo aver subito ben tre lutti nel corso di un’epidemia di peste. Alla fine del libro Crispin è cambiato moltissimo. Conserva ancora il suo carattere iracondo, ma sta piano piano trovando un suo ruolo, un compito da svolgere che giustifichi la sua presenza al mondo, ed è, naturalmente, la costruzione del mosaico. Il soggetto della rappresentazione di Crispin non è casuale, ma è la manifestazione visiva della sua crescita interiore e del modo che di concepire il mondo che ha sviluppato nelle sue peregrinazioni.

Una parte importante dell’ambientazione e di conseguenza della narrazione è l’Ippodromo. A Sarantium le corse dei cavalli sono una vera e propria fissazione, i cittadini possono scegliere con quale delle quattro fazioni schierarsi e assistere alle gare, esistono locande frequentate solo da una determinata fazione, corridori compresi, danzatrici che lavorano solo per una fazione, e quant’altro. A parte il minuziosissimo lavoro di studio delle fonti (a Costantinopoli nel VI secolo le cose non andavano molto diversamente), volevo segnalare questo per due ragioni. La prima, perché è la caratteristica fondamentale di Sarantium, e quindi evidenzia ancora una volta il grande lavoro che ha fatto Kay nel creare l’ambientazione, visto che la passione degli abitanti per questo sport viene rappresentata in modo molto realistico e vivo, senza però risultare eccessiva, e quindi dare l’impressione che i sarantini pensino solo a quello. L’altra motivazione è che l’Ippodromo è teatro di una delle scene che sono scritte meglio in tutto il libro, una scena che tiene il lettore con il fiato sospeso e gli dà l’impressione di essere anche lui tra gli spalti in mezzo al pubblico. In generale comunque, credo che il modo in cui Kay gestisce l'ippodromo dovrebbe essere preso a esempio da chi vuole realizzare un mondo verosimile.

La mappa del mondo.

Se c’è una cosa che piace a Guy Gavriel Kay è creare scene intrecciate, nelle quali vengono presi in considerazione i punti di vista e si passa da uno all’altro molto rapidamente in pochi paragrafi. La situazione viene raccontata frammentata attraverso gli occhi di più personaggi. Questo sistema è molto affascinante, e devo dire che Kay lo sa mettere in atto molto bene, andando a conquistare il lettore e suscitando in lui tensione e interesse. Sia la scena di Kasia e della sera alla locanda e quella della notte a Sarantium sono delle piccole perle.

Il romanzo ha anche dei difetti, ma incidono poco sulla generale buona impressione che mi ha fatto. La narrazione è incostante, a volte si concentra su dettagli che potrebbe trascurare. Roba di poco conto, comunque.


IN CONCLUSIONE



Sailing to Sarantium mi è piaciuto, direi che si è capito. È un ottimo romanzo, davvero valido e davvero ben scritto. È inutile che dica che consiglio caldamente di leggerlo. Il successivo, Lord of emperors, sarà all’altezza? Riuscirà a concludere in modo degno la vicenda di Crispin e della costruzione del mosaico di Sarantium?

Io lo so già perché l’ho letto. Se lo avete letto lo sapete anche voi. Se no vi tocca aspettare la prossima recensione.


VOTO: 

lunedì 5 febbraio 2018

Harry Potter è per deficienti

Bene, siete tutti pronti per pregiudizi a non finire? Oggi ce ne sono a profusione soltanto per voi!

Ci sono schiere di persone che pensano che discutere con me sia una perdita di tempo, e che io sia una persona pesante e che vuole avere ragione a tutti i costi. Ci manca solo che esista un circolo di chi pensa questo di me e poi siamo a posto. Questo circolo avrebbe comunque recentemente acquistato un nuovo membro, visto che non è passato molto da quando a una festa ho avuto modo di intavolare una discussione con gente che non conoscevo. Non serve sapere il contenuto della discussione, si parlava di coerenza interna e infodump in una storia, e la persona con cui parlavo a un certo punto se n’è uscito con una frase che mi ha fatto pensare. E con la quale non sono affatto d’accordo. 

«Ma Harry Potter è per bambini!» E il sottinteso è che essendo per bambini possa essere meno curato. Nel caso specifico, possa avere una gestione più a caso del mondo, dei personaggi e della trama. Che è come dire che Harry Potter è una serie per idioti, e io in questo mi sento chiamato in causa. Mi sento chiamato in causa perché a me Harry Potter piace, nonostante la Rowling non scriva proprio in modo eccelso. E soprattutto perché questa affermazione implica una serie di cose che trovo profondamente sbagliate.

Che un libro (o un film, o qualunque altra cosa) pensato per un pubblico di bambini possa essere di qualità inferiore rispetto a un libro per adulti è un pensiero molto diffuso. Mi è capitato giusto la settimana scorsa di parlare con dei genitori riguardo ai film nel cinema sotto casa, e di sentirli dire di essere stufi di guardare cartoni con i loro figli, ma di desiderare di guardare qualcosa con gli attori, qualcosa di più adulto. Ma in concreto che cosa significa? Che cosa differenzia un film/libro/whatever per adulti da uno per bambini? Certo, è chiaro che un prodotto per un pubblico infantile presenterà scene meno crude, e magari sarà meno volgare. Ma queste sono caratteristiche che riguardano soltanto la selezione dei contenuti, non il modo in cui questi siano assemblati nella trama, né, cosa più importante, lo stile con cui il romanzo è scritto. 

Un tipico esempio di tenero bambino.

Un bambino è perfettamente in grado di rendersi conto se la storia che sta leggendo sia sensata oppure no. Non è stupido, sa riconoscere un’incoerenza. Sa capire se i personaggi agiscono come degli idioti, e lo sa perché anche lui possiede della logica nella sua testa, e anche perché viene naturale, quando si segue una storia, chiedersi che cosa si farebbe al posto dei personaggi. Ed è quindi semplice capire se si farebbe qualcosa di più furbo di quello che fanno loro oppure no. Infine, è anche in grado di capire se un personaggio è ben caratterizzato. Magari non userà la parola caratterizzato, magari dirà soltanto che un certo personaggio gli sta più simpatico di un altro, ma il concetto è lo stesso. Certo, è possibile che possa non rendersi conto se sta leggendo qualcosa di banale, e questo per ragioni di esperienza: non ha alle spalle letture a sufficienza per classificare con cognizione di causa che cosa sia già visto e che cosa no. Ma questo è l’unico punto dove forse il suo giudizio può non essere all’altezza, per così dire. In generale, dove lo stile cala, dove la qualità è inferiore, il bambino se ne accorge, forse non saprà esprimerlo come un adulto ma lo capisce. 

Quindi giustificare presunte incoerenze o imperfezioni con “ma è per bambini” la stragrande maggioranza delle volte è insensato. Perché non sono i bambini a non notare le incoerenze, sono gli stupidi o i distratti. Quindi dire che Harry Potter è per bambini con lo spirito con cui è stato detto a me equivale a dire che Harry Potter è per deficienti. E io non mi sento un deficiente, così come non penso si sentano tali tutte le altre persone che come me lo apprezzano.

Se esuliamo dall’argomento libri e osserviamo i film la scarsissima considerazione che ricevono i prodotti per bambini diventa evidente. Una grande parte dei film di animazione più recente è vuoto, idiota e banale. Perché questo si pensa che piaccia. Sia chiaro, non sto difendendo il diritto dei bambini a non essere ritenuti dei decerebrati, non è questo il punto che mi interessa. Voglio sottolineare che siamo di fronte a un pregiudizio bello e buono, che porta con sé delle conseguenze di un certo spessore nel giudizio che le persone danno di un libro o di un film. Infatti, sulla base di questo pregiudizio l’etichetta per bambini porta immediatamente a una svalutazione dell’opera in esame. Capite cosa intendo? C’è un ingiustificato trasferimento di significato. Si formula un’equazione target = (scarsa) qualità che non ha alcuna giustificazione teorica valida né alcun riscontro pratico. 

Come si può prendere sul serio un giudizio viziato in questo modo? Tra l’altro da “questo libro è per bambini quindi fa schifo” a “questo autore è per bambini quindi fa schifo” a “questo genere è per bambini quindi fa schifo” il passo è breve. Accennavo all’argomento parecchio tempo fa, nella recensione a Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip Dick. Dick è stato a lungo considerato un autore di serie b, perché scriveva fantascienza, la fantascienza è una branca del fantastico e si sa, come ci insegnano i critici intellettualoidi, il fantastico è un genere per bambini quindi non è degno di essere considerato. Poco importa che Philip Dick sia in realtà un autore parecchio impegnato, poco importa che sappia scrivere molto bene, spesso meglio di quelli che i nostri intellettualoidi portano come esempi di buona scrittura, scrive fantastico, quindi ha perso in partenza. La capacità di scrivere, ovvero di svolgere bene il proprio mestiere, diventa meno importante dei temi trattati, quindi se uno parla di magia o di alieni è infantile, se uno parla dei problemi della società contemporanea allora è un bravo scrittore, a prescindere da come scrive. È come dire che lo scarabocchio di un bambino italiano degli anni ’30 che rappresenta Mussolini che parla alla folla è meglio di un Monet. Il primo rappresenta un momento importante e anche grave della nostra storia, il secondo sempre la stessa maledetta cattedrale di Rouen, e venuta male, perfino!


Nemmeno un riferimento al problema dell'immigrazione! Che schifo!

Sfruttare questo pregiudizio assurdo per giudicare un’opera comporta di fatto evitare di giudicarla per come effettivamente è. Se penso che un libro sia per bambini e quindi di scarsa qualità non ho bisogno di leggerlo per trarre le mie conclusioni. Il pregiudizio è comodo, risparmia la necessità di pensare, di dover far funzionare la testa e di mettersi a ragionare su quello che si legge/guarda/fa. Molto meglio spegnere il cervello e riempirsi la bocca di aria fritta, si fa prima e tanto chi vuoi che si metta a contestare? 

È per questo motivo che i romanzi di Regazzoni (dico lui perché ne ho parlato su questi schermi, ma potrei elencare nomi fino a domani mattina) vengono pubblicati, perché le opinioni delle persone vengono talmente infarcite di pregiudizi che alla fine giudicano qualunque cosa tranne come il libro è scritto. Se vogliamo veramente metterci in testa di capire qualcosa di quello che abbiamo di fronte dobbiamo toglierci qualunque condizionamento e riflettere solo sul libro in sé, senza nient’altro. Coerenza interna, stile, caratterizzazione dei personaggi, scorrevolezza, e quant’altro. Badate bene, non sto presupponendo un’idea assoluta di qualità, non voglio dire che esistano opere che sono belle in assoluto e non possono che essere giudicate tali e l’opinione di chi pensa il contrario è viziata da un pregiudizio. Sto dicendo che eliminare i pregiudizi porta a giudicare l’opera secondo i criteri che le sono più appropriati. Un’opinione basata su questi criteri, positiva o negativa che sia, è valida.   

C’è sicuramente chi non è d’accordo con me. Ho conosciuto persone cui non frega niente dei buchi logici nella trama. Persone che al cinema ti dicono “guarda il film, non pensare!”. Potrebbero dirmi che non esiste un modo univoco per determinare come giudicare qualcosa. E questo è vero, ma fino a un certo punto. Io posso dire che Il signore degli anelli è un brutto romanzo perché ne ho assaggiato una pagina e ha un pessimo sapore. Ma siamo tutti d’accordo che sia legittimo che qualcosa che non è pensato per essere mangiato non debba per forza avere un buon gusto. Seguendo questa linea di ragionamento riusciamo a stabilire perlomeno un range di criteri (alcuni li nominavo prima) che in linea generale possono essere ritenuti appropriati a essere applicati a un libro. Nessuno vieta di usarne altri, ma appunto, è come valutare un libro per il suo sapore. Ci si sta perdendo qualcosa, no?


Questo tabacco è proprio cattivo... Magari Il ritorno del re ha un sapore migliore...

Quindi se non consideriamo l’etichetta “per bambini” applicata (ingiustamente, a mio avviso) a Harry Potter, possiamo renderci conto che ha moltissime di quelle qualità che elencavo prima. Eliminando il tasto dolente dello stile, che comunque migliora nel corso della serie, non è per nulla semplice trovare un’autrice esordiente in grado di caratterizzare i personaggi come li caratterizza la Rowling. Avete provato a contare quante volte in tutti e sette i libri i personaggi fanno la scelta più furba e quando invece fanno qualcosa di stupido ma accettabile senza problemi dal lettore perché perfettamente coerente con il loro carattere? Accompagnare Harry all’espresso per Hogwarts da parte di Sirius non è proprio quello che definirei intelligente. Ma sappiamo tutti che Sirius è uno spirito libero che odia essere controllato e limitato, ed erano mesi che non poteva uscire di casa. Né sicuramente è una grande idea rifiutarsi di studiare occlumanzia solo perché chi te la insegna ti sta antipatico. Ma in entrambi i casi a nessun lettore è venuto da pensare che Sirius o Harry si comportassero come degli stupidi. Si comportavano secondo il loro carattere, e tanto basta.

Nella trama torna tutto e anzi, molti elementi buttati in modo casuale nei primi libri tornano a ricoprire un ruolo importanti nei libri successivi. Molti eventi che parevano senza importanza in realtà ne hanno e molti misteri vengono chiariti senza che la soluzione sembri tirata per i capelli. Il mondo in cui si svolgono le storie è il nostro ma migliorato, ha sempre qualche sorpresa, qualche cosa di strano, bizzarro o divertente da mostrare. È un mondo ampio e articolato, con una salda coerenza che lo lega e che risulta interessante e coinvolgente proprio perché l’autrice riesce a trovare sempre qualche idea in grado di stupire. La narrazione fila liscia e con pochissimi momenti di noia. Molti invece sono i momenti divertenti, dove emerge una grande ironia, che controbilancia bene i toni cupi che diventano sempre più dominanti negli ultimi libri.

Tutto quello che ho detto finora non significa che HP non abbia difetti. Solo, sarebbe off topic sottolinearli adesso. 

Quante cose si notano se si lasciano perdere le etichette. L’invito è quindi quello che ho già fatto, a lasciar perdere i preconcetti e a giudicare il libro per come è a prescindere da tutto. E a non tirare in ballo Harry Potter.