giovedì 28 luglio 2016

Recensione - La sfera del buio di Stephen King (Torre Nera #4)

Abbiamo attraversato il deserto e le montagne, lasciato precipitare Jake e affrontato l’Uomo in Nero. Siamo scampati alle Aramostre nel mare occidentale, abbiamo oltrepassato le tre porte, siamo giunti in altri mondi e in altri tempi e abbiamo portato via da lì delle persone che potessero fare squadra con noi. Ci siamo incamminati lungo il sentiero del vettore, abbiamo salvato un Jake redivivo, abbiamo attraversato il paese di Crocefiume e la città di Lud. Ora siamo sul treno Blaine il Mono, che, impazzito, vuole porre fine alla sua vita. Con noi nel vagone. L’unico modo per salvarci è seguire il nostro dinh, Roland, e la sua decisione di affrontare il treno in una gara di indovinelli contro il tempo.

Come andrà a finire? Scopriamolo con La sfera del buio, il quarto romanzo della saga della Torre Nera.
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Titolo: La sfera del buio
Autore Stephen King
Anno: 1997                                                          
Editore: Sperling &Kupfer
Pagine: 654





TRAMA

È tempo di flashback, in quel del Medio-Mondo. Dopo aver sconfitto Blaine nella gara di indovinelli grazie a un'intuizione di Eddie, Roland si ferma a discutere con il suo ka-tet. Comincerà dunque il racconto del suo passato e delle ragioni che lo spingono alla ricerca della Torre Nera.

Assistiamo a un giovane Roland, in compagnia dei suoi compagni Cuthbert e Alain, in missione nella città di Mejis. La sera prima di arrivare a Mejis Roland rimane conosce Susan Delgado, giovane destinata a diventare concubina del podestà Thorin, appena tornata da un'esame per controllare che sia idonea proprio per questo scopo, e da lei rimane colpito e affascinato. La ragazza é ancora scossa, poiché ad averla esaminata é la vecchia strega Rhea del Coӧs, che l'ha violata in più modi quella sera. Roland riaccompagna Susan in paese e torna all'accampamento.

Questo é il primo contatto con Mejis. Nel corso del tempo trascorso là, Roland e i suoi compagni conosceranno Jonas e i sorveglianti del paese,il podestà Thorin e altri personaggi, e si troveranno di fronte all'amore, a una cospirazione nella quale pare essere coinvolto anche il ribelle John Farson e a una misteriosa e malvagia sfera magica, destinata ad avere nel futuro di Roland un ruolo molto maggiore di quanto questi potrebbe pensare.

Stephen King col suo compagno di banco al primo giorno delle scuole medie

LA MIA OPINIONE


La sfera del buio é uno stacco narrativo mica da poco con il resto dei libri. A parte le prime ottanta pagine e le ultime quaranta, tutte le altre sono occupate dal flashback sul passato di Roland. Che non dico che non ci volesse, anzi, era necessario, visto che la ricerca della Torre Nera é lo scopo principale dei personaggi. Poteva essere inserito in modo narrativamente più elegante, questo é indubbio. Per esempio, poteva non bloccare la trama per cinquecento pagine. A onor del vero, poteva essere inserito in modo molto peggiore. Poteva per esempio interrompere la trama in un momento cruciale, invece si trova più o meno in un punto morto. Proprio per questo, perché mette carne al fuoco in un momento in cui il plot pare essersi un po' arenato, a me non ha dato particolarmente fastidio il fatto che la storia principale venga interrotta da pagina cento circa a pagina seicento. Ho sentito chi si lamenta di questo, io l'ho sopportato tranquillamente.

Lasciando perdere questo discorso, La sfera del buio è davvero un gran libro. Riesce a mischiare divertimento, romanticismo e azione. È un romanzo che riunisce moltissimi personaggi con scopi e ideali diversi, segue gli obiettivi di tutti fino alla loro conclusione. É un romanzo dove le parti in causa sono molte, ma ci sono spesso cambi di partito, alleanze e mutamenti di posizione. Personaggi che all'inizio paiono avere un obiettivo poi si scopre che ne hanno un altro, oppure che all'inizio hanno un determinato schieramento poi passano a quello opposto. È un romanzo che sicuramente non si risparmia nei colpi di scena, e che presenta momenti di grande tensione tanto quanto momenti divertenti e scoppiettanti. Un esempio ne è la scena del primo scontro, di notte alla locanda, tra Roland e i suoi e Jonas e i suoi uomini (ovvero i mercenari al servizio del podestà con il compito di controllare la città), che è rocambolesca e quasi da film, con i sei pistoleri che si trovano in fila uno dietro l’altro ciascuno a puntare la pistola contro la schiena di quello davanti.

"Sto qui per occupare spazio"
Come accennavo prima, appare qui una delle caratteristiche peculiari di Stephen King, che negli altri tre romanzi della Torre Nera non era emersa, e cioè l’uso di molti punti di vista diversi. Qui i personaggi sono appunto davvero molti, non tanti come per esempio ne Le notti di Salem ma sicuramente un numero più che discreto. Ma naturalmente, trattandosi di un romanzo di Stephen King, tanti personaggi significa, almeno in linea generale, eccellenti caratterizzazioni. Dico in linea generale perché, come del resto è anche lecito aspettarsi, le personalità non sono tutte curate con la stessa perizia e la stessa precisione. Ci sono personaggi ottimamente caratterizzati, come Susan Delgado, che non è affatto la damsel in distress che invece facilmente la situazione potrebbe generare. Voglio dire, la trama de La sfera del buio potrebbe facilmente indurre uno scrittore alle prime armi a cadere descrivere Susan come lo stereotipo della donna indifesa. Invece, King le attribuisce una personalità che vada oltre il semplice stravedere per Roland e quindi il contare su di lui per essere aiutata. Susan è anche una persona forte, con i propri valori, la propria indipendenza e la propria voglia di libertà, una persona che spesso si mostra tutta d’un pezzo anche in circostanze non esattamente piacevoli.

Questo per fare un esempio di buon personaggio. Tra i personaggi che invece sono riusciti un po’ peggio c’è senza dubbio, per dirne uno, Jonas, che è in pratica l’antagonista principale del romanzo, e che, nonostante abbia un suo abbozzo di personalità che viene fuori abbastanza spesso, rimane nel complesso abbastanza cliché. È meglio riuscito l’altro antagonista, la capricciosa e vendicativa  Rhea del Coӧs, che riesce davvero a mettere in difficoltà i personaggi senza però compiere gesti da stereotipo o macchietta.

L'attuale occupazione di Jonas dopo la pensione da mercenario
Le situazioni che il libro racconta sono intense e coinvolgenti, spesso ci si lascia trasportare al punto che pare di viverle in prima persona. Questo é merito dei personaggi realistici e ben caratterizzati di cui parlavo prima ma anche della scrittura che é davvero precisa ed efficace. Per quanto mi riguarda, è da La sfera del buio che si raggiunge l’apice dello stile di King nella saga Torre Nera, e su questo livello resteranno, a volte con qualche caduta, i tre libri successivi.

Molto resi bene sono anche i rapporti tra i personaggi. Ok, direte voi, questa è una diretta conseguenza del fatto che siano ben caratterizzati. E io vi rispondo vero, ma fino a un certo punto. Nel senso che caratterizzare bene i personaggi è un buon presupposto per creare relazioni sensate e ben descritte, ma sicuramente non basta. King si dimostra quindi particolarmente abile nel delineare il contrasto tra Susan e la zia o tra Roland e Cuthbert. Sono litigi veri, momenti in cui i legami presenti sul serio tra i personaggi rischiano di spezzarsi veramente. Non esiste artificiosità, non ci sono momenti forzati o in cui si vede che gli eventi vanno in una certa direzione soltanto perché l’autore vuole creare conflitto per far proseguire la trama. Gli eventi scivolano in modo naturale, ed è inevitabile che chi legge ne resti conquistato ed emozionato.

Abbiamo, tra gli intrighi e il mistero, anche, come dicevo, una storia d’amore. Suppongo che sia impossibile vero intuire chi ne siano i protagonisti, vero? Immagino che la suspense vi stia divorando. Comunque, la storia d’amore è gestita decentemente. Non è come quella tra Odetta ed Eddie, che dopo essersi parlati venti minuti decidono di amarsi alla follia. Si ha comunque la sensazione che certi aspetti potessero essere trattati in modo meno frettoloso, perché appena dopo la prima volta che si incontrano già Susan si trova a baciare Roland. Ma fortunatamente non è che questo bacio significhi già amore per la vita, e quindi dopo questo la storia d’amore viene sviluppata in modo più misurato e approfondito.

Susan come rappresentata nel fumetto della Torre Nera
Vanno sicuramente spese un paio di parole per il finale, o meglio, per le ultime cinquanta pagine. Avevo già detto che termine del flashback non significa termine del libro, e infatti, prima della fine, viene introdotta una nuova piccola avventura di Roland, Eddie, Susannah, Jake e Oy, che in questo momento si trovano ad attraversare un mondo che non conoscono, che pare una versione modificata della loro realtà (e che è il quando in cui è ambientato un altro romanzo di King, L’ombra dello scorpione). Qui si trovano ad attraversare un luogo molto particolare, chiaramente ispirato al Mago di Oz. Ora, anche riguardo a questa scelta ho sentito molti lamentarsi, e di nuovo mi sono ritrovato a pensare che la scelta non mi sembrava così malvagia. Bizzarra quanto si vuole, ma interessante, e in grado di spezzare il ritmo piatto che le vicende di Roland avevano assunto una volta sconfitto Blaine il Mono. Inoltre, e qui risiede la genialità di tutta la faccenda (anche se avrò modo di parlarne meglio in seguito nelle prossime recensioni), la cosa pare sul momento non avere il minimo senso. In effetti, che ci fa lì una città di smeraldo? Ecco, la sensazione che pervade la scena è che ci sia una ragione per la sua presenza lì, anche se per ora i personaggi non la conoscono. In realtà questa sensazione è sbagliata, perché nel momento in cui ha scritto La sfera del buio King non aveva la minima idea (come da lui stesso dichiarato) di quello che sarebbe successo in seguito. Tuttavia, con buone scelte narrative e idee se non del tutto originali perlomeno inaspettate, che approfondirò nella recensione de La canzone di Susannah, King riesce a salvare capra e cavoli dando una spiegazione indiretta ma del tutto esauriente della presenza della città di smeraldo. Quindi, a tutti coloro che si trovino a pensare che quando ha scritto questa parte King beveva, tranquilli: il King alcolista è quello degli anni ’80. Qui sa (più o meno, anzi, più meno che più) che cosa sta facendo. Abbiate pazienza, comportatevi da Fedeli lettori e nel sesto volume avrete i dovuti chiarimenti.

E poi quello che tutti aspettavamo appena abbiamo preso in mano il libro. Le motivazioni di Roland. Che vediamo sotto spoiler.


[SPOILER] Dunque, perché Roland cerca la Torre Nera? In sostanza, perché viene spinto dalla sfera di Rhea ad abbandonare Susan alla morte in cambio della ricerca della Torre. Che sulle prime mi era sembrata una motivazione un po’ debole, ma tutto sommato è accettabile, è coerente con il carattere di Roland e non è banale. Si poteva inventare di meglio, è vero, ma va bene anche così alla fin fine. Non mi lamento, ecco. Quindi, se per caso vi foste chiesti “ma questa caspita di ricerca della Torre Nera, è fuffa o ha un senso?”, domanda tra le altre cose legittima, visto che per tre libri non si era detto nulla al riguardo, sappiate che sì, ha un senso che alla fine della fiera soddisfa abbastanza. [SPOILER]

IN CONCLUSIONE


La sfera del buio è un romanzo con i fiocchi. Non ai livelli de La chiamata dei tre, che era più agile ed elettrizzante, ma comunque un ottimo libro, che riporta ad alti livelli la saga della Torre Nera, che il precedente Terre desolate aveva un po’ affossato. Il mio consiglio quindi è di cimentarvi nella lettura, perché da qui in poi non ci saranno più scivoloni: la serie andrà sempre più in crescendo.

VOTO:

mercoledì 13 luglio 2016

Recensione - 20th Century Boys e 21st Century Boys di Naoki Urasawa

Quando ho letto la trama di 20th century boys mi si sono illuminati gli occhi. In poche parole posso riassumerla con “dei bambini da piccoli inventano un gioco in cui un’organizzazione malvagia conquista il mondo e quando sono adulti cominciano ad accadere eventi che seguono lo schema del loro gioco”. Che non è semplicemente un’idea buona e interessante, ma appartiene un po’ quel filone di cui fa parte anche It di Stephen King, ovvero a quelle storie in cui le vicende di un gruppo di bambini si vanno a intrecciare con le vicende di quello stesso gruppo quando i bambini ormai sono adulti. Storie in cui passato e presente si sviluppano parallelamente e svelano uno i misteri dell’altro. E siccome io ho adorato It, sapere che aveva scritto qualcosa di vagamente simile un autore come Urasawa, che già avevo avuto modo di apprezzare per abilità nel disegno e nella sceneggiatura, è stato sufficiente a invitarmi a impossessarmi dell’opera e divorarla.

Recensisco insieme a 20th century boys anche 21st century boys. Infatti, nonostante esista come manga a parte, di fatto costituisce i volumi 23 e 24 di 20th century boys, che senza resterebbe incompleto. Per questa ragione, nonostante farò due discorsi separati, ho deciso di unirli, perché di fatto costituiscono un unico fumetto, in quanto il 21st comincia esattamente dove è finito il 20th e ne rappresenta la naturale conclusione.
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Titolo: 20th century boys  + 21st century boys
Autore: Naoki Urasawa
Anno: 1999/2006                                                      
Volumi: 22 + 2
Editore: Planet manga



TRAMA 

Parte del necessario l’ho già detto sopra. In sostanza, 20th century boys racconta la storia di Kenji e del suo gruppo di amici, che scrivono un libro intitolato “libro delle profezie”. Su questo libro scrivono tutto quello che succederà negli anni successivi, in cui una misteriosa organizzazione fa progetti per conquistare il mondo.

Anni dopo, quando ormai i ragazzi sono adulti, nasce in Giappone un’associazione comandata da un misterioso individuo mascherato che si fa chiamare l’Amico. Contemporaneamente, si verificano una serie di eventi molto simili a quelli che i ragazzi avevano scritto nel loro libro delle profezie, e vengono collegati all’Amico. Il vecchio gruppo si riunisce perciò per cercare di capire chi sia l’Amico (è sicuramente una persona che almeno una volta ha visitato la loro base segreta e visto il libro delle profezie, ma chi?) e quale sia il suo scopo. E impedire che conquisti il mondo.
RASENGAN!

LA MIA OPINIONE 


Come dicevo all’inizio, sulle prime ero esaltatissimo. Ditemi se non è una trama interessante! E non solo in virtù delle affinità con It, ma anche proprio di per sé. L’idea di base è bella, e mette subito grande interesse nel lettore. Chi è l’Amico? Cosa vuole? Queste domande non possono che nascere nella mente di chi legge, suscitate dai molti eventi strani e inspiegabili che avvengono di fronte a Kenji e ai suoi compagni. All’inizio quindi si procede con la lettura senza mai smettere, attirati dalla volontà di conoscere quello che succederà e di avere qualche risposta. E qui cominciano i primi problemi.

20th century boys è intelligente ma non si applica. Ha tutte le qualità per diventare un capolavoro e poi cade su delle cose stupide. Parte bene e prosegue male. Vediamo perché.

Intanto, è da sottolineare che qui Urasawa ha rinunciato al tipo di narrazione presente in Monster, e la trama non può trarne che giovamento. Continua a essere intrecciata e complicata perché ogni volta che viene svelato un mistero ne nascono altri tre, tuttavia risulta comunque comprensibile, e si segue senza particolari problemi. Quello che invece secondo me non funziona sono i contenuti. Certe volte le situazioni sono stupide, o surreali, o inverosimili. Siamo di fronte a un’opera di fantasia, e come a tutte le opere di fantasia si può e si deve concedere un minimo di sospensione dell’incredulità. Ma ci sono situazioni che risultano eccessivamente surreali, vuoi perché non ricevono una spiegazione, vuoi perché sono talmente esagerate da non risultare credibili. Per fare un esempio, posso citare la parte dell’incontro in chiesa, o di quando Kana (la nipote di Kenji) da sola ferma una faida tra mafiosi. Perché è più che naturale riuscire a far ragionare dei mafiosi che si stanno sparando semplicemente chiacchierando, non è che finiresti crivellato di colpi nel giro di tre secondi.
Kenji con la sua nuova Nimbus 2000
La trama di 20th century boys si articola in diversi piani temporali. Non soltanto sui binari paralleli passato-presente: all’interno di questi ci sono diversi time skip, al punto che Kana, che all’inizio vediamo in fasce, diventa la protagonista di gran parte delle vicende ambientate nel presente. Sulle prime non ho apprezzato questa scelta, ma in realtà posso dire che alla fin fine funziona. Dà a tutta la storia un sapore decisamente più epico e la rende più affascinante.

La trama diventa più debole sotto molti aspetti mano a mano che si va avanti. All’inizio è solida, poi, anche per colpa delle scene surreali di cui parlavo prima, comincia a perdere colpi e molte cose non reggono. Un esempio su tutti, l’attrazione virtuale. Qual è lo scopo per cui esiste? Ufficialmente è una sorta di mezzo per trattare le persone troppo curiose riguardo l’Amico. In pratica ha lo scopo di mandare avanti la trama quando resta impantanata. E infatti ogni volta che i personaggi non sanno dove sbattere la testa puntualmente qualcuno si fa venire l’idea di andare nell’attrazione virtuale. E puntualmente è lì la risposta a tutte le domande.

E poi ci sono i personaggi che fanno cose stupide senza una buona ragione, solo perché Urasawa voleva creare un po’ di tensione e quindi toh, facciamo che questo qui senza che ne abbia la necessità e nonostante ci siano soluzioni molto più furbe si metta in pericolo di vita. Così gli occhi del lettore non si scolleranno dalla pagina! Più o meno...

Di buono sicuramente c’è che molti sviluppi della trama sono imprevedibili. Questo le conferisce tutto sommato un buon ritmo, e tiene viva l’attenzione. In effetti, la cosa più stupefacente è che, nonostante le situazioni surreali, comunque l’interesse per la storia non cala praticamente mai. Come nel primo volume, anche nel ventiduesimo la volontà di sapere chi è l’Amico è forte allo stesso modo. Anzi, direi che scoprire chi l’Amico è il primo impulso che spinge a superare i vistosi difetti per arrivare alla fine. E bisogna ammettere che se una storia riesce ad avere mordente a sufficienza per mantenere alto l’interesse verso il suo mistero principale qualcosa di buono deve averlo per forza.

Inoltre la sceneggiatura di Urasawa rimane sempre davvero ben realizzata. Per tornare all’esempio fatto prima, la scena dell’incontro in chiesa è una sequela di WTF dal punto di vista dei contenuti, ma è un capolavoro di sceneggiatura, riesce a tenere con il fiato sospeso. Al punto che il mio pensiero mentre leggevo era “dovrei smettere di ragionare e godermi semplicemente la tensione che quasi si respira. Apprezzerei molto di più”.

Qualche considerazione sul finale. Sotto spoiler.
[SPOILER]Il finale fa schifo. No, non esagero. Non spiega nulla. Nulla. Non dice chi sia l’Amico! Cioè, io ho seguito Urasawa per 22 volumi volendo sapere chi fosse e lui non me lo dice? Tutto il manga si incentra su quello! Tra l’altro, se proprio vogliamo dirla tutta la scena del concerto non è male, anzi, è molto bella. Ma uno non riesce proprio a godersela, con la delusione di non sapere chi sia l’amico che dà veramente fastidio. Quindi, nonostante il bel momento del concerto non mi sentirei di promuovere il finale. Se non fosse che esiste 21st century boys, sia ringraziato Chtulhu, in cui Urasawa ripara ai problemi di questo finale pessimo. [SPOILER]

In Monster quindi rimproveravo Urasawa di non aver capito quali fossero le cose che andavano raccontate e quali no. Alla luce di quello che ho potuto vedere qui, direi che il problema di Urasawa è a monte: avrebbe bisogno di una persona che lo aiutasse a razionalizzare le interessantissime trame che crea. A sfoltirle e a renderle più credibili. A non soffermarsi soltanto sull’aspetto emotivo della vicenda (cioè a creare tensione) ma anche a curare quello logico (ovvero scrivere scene che non risultino assurde o irreali).

La caratterizzazione dei personaggi è invece eccellente come al solito. Con poche pennellate Urasawa riesce a imprimere i personaggi nella mente del lettore e da lì non se ne vanno mai più. Con Urasawa è impossibile confondere personaggi, tutti hanno le proprie personali caratteristiche fisiche e morali. Alla fin fine la cosa più bella di tutto il manga è proprio la sensazione di vicinanza che trasmettono questi personaggi. Dopo venti volumi si ha la sensazione di conoscerli sul serio, che sia reali, veri, che si stia leggendo scene tratte dalla realtà. L’atmosfera che si respira è davvero quella dell’anno 1970, e il rapporto tra i personaggi è descritto in modo accurato e realistico. C’è ben poco di artificioso, Urasawa è straordinario nel descrivere la banda di ragazzini protagonisti. È difficile rendere in modo realistico le dinamiche dell’infanzia, far fare ai bambini cose realistiche, scrivere i loro dialoghi in modo preciso, e Urasawa ce la fa. Senza quest’abilità, senza questo enorme pregio 20th century boys sarebbe davvero a un livello più basso.

Naoki l'ultima volta che è venuto a casa mia
La narrazione scorre piacevole e difficilmente annoia. Ci sono dei momenti in cui Urasawa riprende la sua vecchia abitudine di Monster e riprende a raccontare un po’ tanto da lontano, ma sono pochi e poco influenti. Come dicevo, ci sono elementi che hanno l’unico scopo di far proseguire la trama, e questo ne intacca la piacevolezza e la fluidità.

Come nella scorsa recensione, ho ben poco da dire riguardo ai disegni, se non che sono eccellenti. E lo stesso vale per la sceneggiatura. In questo la mia opinione non si differenzia in nulla da quell’altra volta: sul versante tecnico posso rimproverare poco a Urasawa. 

Come in Monster, anche qui, dietro la trama fantascientifica c'è un messaggio. Kenji è un musicista mancato: sognava di diventare un chitarrista, ma alla fine per mancanza di voglia e di volontà di faticare e di spendere energie per il suo desiderio abbandona quella strada e passa a gestire il negozio di alimentari della sua famiglia. Con l'evolvere della trama Kenji troverà un senso a questo suo sogno, cominciando a scrivere canzoni di protesta contro il regime dell'amico e a suonarle in pubblico. Capirà che il successo non serve per inseguire un sogno, e infatti continuerà a suonare nonostante nessuno lo apprezzi. Continuerà a sudare mettendo amore e fatica nella musica e alla fine del manga avrà l'occasione di coronare il suo sogno. Ma lo realizza perché ha continuato con costanza e determinazione e ha trovato un senso al suo sogno. Solo così può trasformarlo in realtà.

E ora, parliamo un po’ di 21st century boys e del perché ho unito le due recensioni. Di nuovo sotto spoiler.
[SPOILER]21st century boys è, come accennavo all’inizio, la naturale conclusione di 20th. Lo dicevo poco fa, 20th century boys finisce senza rivelare il mistero principale della storia, ovvero l’identità del secondo Amico, quello che tirava le fila da tutto il tempo anche alle spalle del primo Amico. 21st century boys si propone proprio di fare questo.

21st century boys è un manga che per metà vale molto, per metà no. Per scoprire l’identità dell’Amico che cosa risolvono di fare i personaggi? Andare nell’attrazione virtuale. Naturalmente, che vi aspettavate? Ecco, nell’attrazione virtuale comincia una caccia agli indizi tra quel mondo e quello della realtà. Che è una cosa stupida per vari motivi, non ultimo il fatto che se qualcuno nasconde qualcosa poi non lascia indizi come in una caccia al tesoro per permettere ai suoi nemici di ritrovare quel qualcosa. Senza contare poi l’apparizione del robottone gigante, che già mi aveva fatto storcere il naso quando appariva in 20th century boys, ma lì non era mai così palese ed evidente da risultare trash. Qui sì. Non ho trovato invece fastidiosa l’apparizione di un fantasma. Non che fosse molto contestualizzato, è un tocco di soprannaturale che ha poco a che fare con il tenore del resto della trama. Ma tutto sommato non dà fastidio.

Quella che ho appena mostrato è la parte che non va bene. Ho invece apprezzato la parte della ricerca dell’identità del secondo amico, fino a quando non viene effettivamente scoperta. Ecco, ho sentito opinioni diverse al riguardo, c’è chi elogia la scelta di Urasawa e chi invece la critica. Io personalmente ho apprezzato: alla fin fine, non poteva che essere quella persona lì, visto che a ben vedere era l’unico personaggio citato del passato che effettivamente non fosse stato dimostrato che non fosse l’Amico. Quindi quella che Urasawa ha dato non può che essere l’unica conclusione possibile, visto che tutti gli altri, per un motivo o per l’altro, era già stato stabilito che non fossero l’Amico. Non dico che lo avevo indovinato: non me lo sarei mai immaginato. Ma con il senno di poi, non poteva che essere così. E in effetti non è che sia esattamente un personaggio secondario: non è mai apparso, è vero, ma ne abbiamo sentito parlare moltissime volte. Certo, Urasawa avrebbe potuto organizzare qualche scena con lui, quello sì, ma anche così non ha sfigurato così tanto.[SPOILER]

In poche parole, la parte con l’alternanza mondo reale mondo virtuale è abbastanza assurda e poco sensata, quella ambientata nel mondo virtuale e basta è bella, appassionante e rivela cose che uno non si sarebbe mai aspettato. È un manga che alla fine della sua breve lettura mi ha lasciato da un lato molto soddisfatto (finalmente avevo le risposte alle mie domande di 20th!) ma dall’altro molto deluso.
Kenji suona all'angolo della strada

IN CONCLUSIONE 


20th century boys mi è piaciuto molto sotto il punto di vista delle idee di base, dell’atmosfera e della sceneggiatura, molto meno dal punto di vista dello sviluppo della trama, di alcune scelte narrative e della gestione di certe scene. Non è da buttare via assolutamente, anzi, mi verrebbe da consigliarlo più di Monster, ma soltanto perché appunto l’idea di base mi piace molto di più di quella di Monster e perché mi sono sentito proprio a mio agio con i personaggi e l’atmosfera. Ma ciò non toglie che con Monster  Urasawa abbia raggiunto risultati migliori.

IL GIUDIZIO DI HISOKA:



lunedì 4 luglio 2016

Sallustio. L'uomo e la crisi.

Pochi sono gli storici latini le cui opere ci sono giunte integre. Sallustio si difende abbastanza bene: sappiamo che aveva scritto tre opere storiche, e di queste tre sono giunte integre e una in frammenti. Un numero più che discreto, quindi, che ci permette ampiamente di farci un’idea dei temi trattati da quest’autore.

Sallustio mentre posa per un servizio fotografico
Le tre opere menzionate sopra consistono in due monografie storiche (il De coniuratione Catilinaee il Bellum iugurtinum) e di un’opera di stampo annalistico (le Historiae). Se si considera che le Historiae sappiamo che coprivano gli anni dal 77 al 66 a.c. (con una sezione di archeologia che trattava gli eventi a partire dalla guerra sociale del 91 a.c.), appare chiaro come l’opera sallustiana copra gli anni circa dal 110 al 62 a.c., con il buco grosso modo dell’ascesa, delle lotte con Mario e del dominio di Silla, da Sallustio più volte indicato come un modello di cattivo governante (anche se, nonostante non sia qui la sede adatta per approfondire questo aspetto, le ragioni per il silenzio di Sallustio su quegli anni non sono soltanto di natura ideologica).

Questi tre scritti storici sono caratterizzati da un costante ritorno sui medesimi temi, analizzati ed esaminati in modo sempre nuovo alla luce dei diversi avvenimenti trattati. Anche le Historiae, nonostante ci siano giunte solo in frammenti, smembrate nel V secolo d.c. da un qualche monaco verso il quale il più autorevole editore dei frammenti sallustiani, Maurenbrecher, manifesta tutta la sua stima definendolo “demente”, confermano compiutamente l’unità dell’impianto ideologico delle tre opere.

La scelta da parte di Sallustio di dedicarsi alla scrittura della storia viene motivata nei proemi alle sue due monografie (in particolare nel De coniuratione Catilinae), con qualche integrazione dalla sua biografia. Sallustio infatti dichiara, nel De coniuratione, che è importante sia compiere grandi imprese che raccontarle, e, per quanto la prima cosa abbia più dignità e più difficoltà della seconda, anche la gloria ottenuta nella scrittura non è per nulla da disprezzare. Sappiamo che in questo periodo Sallustio, dopo la sconfitta di Cesare, viene completamente emarginato dalla scena politica romana. Perciò, siccome scopo dell'uomo è guardare verso l’alto ed esercitare l’ingegno, parte di noi che abbiamo in comune con gli dèi, e non fare come le pecore, che sono portate per natura a guardare verso il basso, e siccome a Sallustio non è più possibile operare a livello politico, egli sceglie perciò di dedicarsi alla storiografia.

Dopo essersi ritirato dalla politica Sallustio ha deciso di guadagnare in un altro modo
Le ragioni di questa scelta ci aiutano a capire perché centrale nelle tre opere sia il tema di cui voglio parlare qui, ovvero l’uomo, visto da solo e inserito in un contesto di crisi dello stato. Se la storiografia di Sallustio costituisce un atto di ripiego dalla politica, è chiaro però che avrà come argomento d’indagine proprio la politica stessa. In particolare, quella che Sallustio vive è un’epoca di crisi, in cui le istituzioni dello stato non sono fiorenti ma anzi, cominciano a lasciare intravedere i propri punti deboli: ecco così che il governo degenera affidato a oligarchici come Silla oppure a democratici che però cercano il potere per sé come Cinna, e ed ecco che suscita nei cittadini la necessità di ribellarsi, di cercare res novas, di risolvere i problemi che li affliggono. Da questa necessità di risolvere la crisi, che sta affliggendo anche economicamente i cittadini, nasce la congiura di Catilina, che, sperando di salvare lo stato, non fa altro che affossarlo ancora di più, poiché per riparare i problemi usa quegli stessi mezzi che li hanno provocati. Insomma, l’intera opera di Sallustio si configura come un tentativo di comprendere quali sono le ragioni che hanno portato alla crisi dello stato. E, fatto ancora più interessante, questa ricerca trova una risposta che si sviluppa e migliora attraverso le varie opere.

Cominciamo con il primo scritto in ordine cronologico, il De coniuratione Catilinae.All’inizio dell’opera Sallustio inserisce una digressione sulle cause remote che hanno portato alla decadenza dello stato romano al punto da generare un uomo come Catlina, che, nel tentativo di portare riparo a questa decadenza, ne rappresenta di fatto l’apice. Questa è la spiegazione che dà Sallustio.
[11] 1 Sed primo magis ambitio quam avaritia animos  hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat.[…] 4 Sed postquam L. Sulla armis recepta re publica bonis initiis malos eventus habuit, rapere omnes, omne strahere, domum alius, alius agros cupere, neque modum neque modestiam victores habere, foeda crudeliaque in civis facinora facere. 5 Huc accedebat, quod L. Sulla exercitum, quem in Asia ductaverat, quo sibi fidum faceret, contra morem maiorum luxuriose nimisque liberaliter habuerat. Loca amoena, voluptaria facile in otio ferocis militum animos molliverant. […] 7 Igitur ii milites, postquam victoriam adepti sunt, nihil reliqui victis fecere. 8 Quippe secundae res sapientium animos fatigant: ne illi corruptis morbus victoriae temperarent.
[11]All’inizio stimolava l’animo degli uomini più che l’avidità l’ambizione, che è comunque più vicina al vizio che alla virtù.[…] Ma dopo che Lucio Silla aveva ottenuto lo stato con le armi, da un buon inizio seguirono fatti disastrosi, e tutti a rubare e commettere furti, chi a desiderare una casa, chi dei campi, e i vincitori non avevano né misura né limiti, e commettevano atti crudeli e malvagi contro gli altri cittadini. Si arrivava a ciò perché Lucio Silla, aveva, contrariamente ai costumi dei padri, trattato con troppo lusso e liberalità, quell’esercito che aveva condotto in Asia, e lo aveva fatto per renderselo fedele. Quei bei luoghi, quei piaceri vissuti nell’ozio avevano rammollito l’animo ardente dei soldati.[…] Dunque quei soldati, dopo avere ottenuto la vittoria, non lasciarono nulla ai vinti. Le situazioni favorevoli fiaccano anche l’animo dei sapienti: neppure loro, essendo ormai degenerati i costumi, posero una misura alla vittoria.
Silla alle audizioni per fare Voldemort
Qui la crisi di Roma è attribuita alla decadenza dei costumi. In un passo che non ho riportato, Sallustio descriveva l’antica società romana prima di Silla, e la rappresentava come un ambiente in cui il massimo obiettivo fosse quello di gareggiare nella virtù: i romani tentavano costantemente di essere i primi non per brama di potere o altro ma per il loro amore verso tutto ciò che rende alto l’uomo. Qualunque conflitto intraprendessero, dunque, era dovuto alla volontà di superare sé stessi quanto a valore e altezza. Nell’età di Sallustio, invece, a muovere l’uomo non è più il desiderio del valore ma la cupidigia e la mollezza, che inquinano l’uomo e lo trattengono verso il basso. E il motivo di questo scambio, per cui alla volontà della virtù si sostituisce la volontà del vizio, è da trovare nel governo di Silla, il quale ha corrotto le persone, offrendo loro i piaceri facili ma contemporaneamente caduchi del corpo, rendendo legge il furto e gli atti illegali e chiamando ingenuità il rispettare i valori del mos maiorum, su cui si potrebbe parlare per settimane ma che qui per comodità e per intenderci possiamo chiamare costumi dei padri. Lo stato viene rappresentato come una massa di persone che segue a ruota chi li governa, e se, come in questo caso, chi li governa è un vizioso, allora anche il popolo non potrà che assumere su di sé gli stessi vizi. E Silla è un vizioso non tanto perché lui stesso possieda quegli elementi negativi che fa nascere negli altri, quanto perché, invece che incoraggiare a seguire i valori del passato, per il proprio interesse (rendersi fedele l’esercito) diffonde piaghe che deviano le persone dalla retta via. Silla pensa prima al proprio bene e poi forse a quello dello stato, ed è per questo che presto cominciano a farlo anche i cittadini.

Chi governa lo stato è responsabile della moralità dei suoi sudditi, e rovinarla porta alla crisi più totale. Per ora quindi la crisi è attribuibile in ultima istanza a un governo che non è stato in grado di mantenere alti i costumi e ha permesso il loro degrado. Sallustio ha ancora una visione piuttosto generale della situazione. Non analizza ancora l’uomo come parte integrante dello stato, ma considera in massa la popolazione e la vede come qualcosa di fortemente condizionato da ciò che riceve da chi sta più in alto di lei.

Questa visione cambia nella monografia successiva. Qui Sallustio comincia a osservare non soltanto le cause esterne della crisi, ma anche quelle interne nelle persone. Ecco che qualcosa cambia. Per usare le sue parole:
[41] Nam ante Carthaginem deletam populus et senatus Romanus placide modesteque inter se rempublicam tractabant, neque gloriae neque dominationis certamen inter civis erat: metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido menti bus decessit, scilicet ea, quae res secundae amant, lascivia atque superbia incessere. Ita quod in adversis rebus optaverant otium, postquam adepti sunt, asperius acerbiusque fuit.
Infatti, prima della distruzione di Cartagine, il senato e il popolo romano con tranquillità e misura gestivano tra sé lo stato, e non c’era rivalità tra cittadini né per la gloria per il comando: la paura del nemico tratteneva la città nei limiti delle azioni oneste. Ma quando quella paura lasciò gli animi, quelle cose che si amano quando la situazione è tranquilla, dissolutezza e superbia, presero il potere. Così quell’ozio che avevano desiderato nelle difficoltà, dopo che lo ebbero ottenuto, fu anche più aspra e crudele.

Da questo passo si nota subito come la prospettiva da cui chi scrive osserva la situazione sia molto cambiata. Sallustio non osserva più la storia da un punto di vista puramente generale, ma è come se si fosse accorto che a prendere parte agli eventi del popolo romano non sia una massa astratta, bensì composta da persone. Queste persone vengono colte, con un’acutezza davvero sorprendente, in uno stato psicologico che si ripeterà più volte nel corso della storia e che ormai è riconosciuto come un dato importante per la comprensione delle dinamiche di determinati eventi. Infatti, è da tempo che ormai gli storici hanno abbracciato l’idea, qui intuizione geniale di Sallustio, che la paura di un nemico esterno rende saldo un popolo.
Silla e Cariddi
Come dicevo, comprendere questo pensando al popolo come a una moltitudine indistinta sarebbe impossibile. Qui l'occhio dello storico si focalizza sull'interiorità dei singoli uomini che compongono la massa, ne osserva i movimenti dell'animo e le tendenze, in modo così da determinare che cosa ha garantito l'antica virtù e quindi, una volta perduta, ha provocato la decadenza. Da ciò deriva che la crisi non é stata causata dal vizio di un singolo (quindi dall'esterno), ma dalla caduta di un atteggiamento interiore collettivo.
Da questo cambiamento di prospettiva  deriva poi nelle Historiae un ulteriore salto di qualità, un ulteriore zoom dell'osservazione dello storico nella natura umana. Prima Sallustio osservava sì la massa da un punto di vista psicologico e interiore, ma lo faceva ancora in maniera collettiva, esaminava i sentimenti di tutti, non dei singoli. Nelle Historiae viene superata anche questa visione.
Nobis primae dissensiones vitio humani ingeni evenere, quod inquies atque indomitum semper in certamine libertatis aut gloriae aut dominationis agit.
Se prima quindi Sallustio descriveva un sentimento collettivo, adesso passa a osservare ciascuno di noi singolarmente. Solo così può notare questo difetto dell’indole umana, che la spinge sempre a mettersi contro gli altri per i propri desideri. L’espressione che usa Sallustio è generale, ma indica qualcosa che è dentro ciascuno di noi, quindi appare chiaro che il discorso dello storico è un discorso generale fatto però osservando tutti i casi particolari. È un salto rispetto a prima, quando invece le considerazioni erano fatte osservando la massa nella sua interezza, anche se da un punto di vista interno.
Questo è il culmine della riflessione di Sallustio sull’uomo e sulla crisi, e sembra che lo storico sia giunto a un picco di irreversibile pessimismo: la crisi non può essere evitata perché è causata da qualcosa di insito nell’uomo. Appare quindi come qualcosa di necessario.
Fermo restando un profondo pessimismo di fondo nell’opera di Sallustio, e fermo restando che nelle Historiae probabilmente questo pessimismo raggiungeva l’apice, occorre però moderare il giudizio esposto sopra. Un passo del De coniuratione Catilinae può essere illuminante al riguardo.

     “Omnis homines qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne vitam silentio                        transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit. 

        Tutti gli uomini, che vogliono superare gli altri esseri viventi, occorre si dedichino a grandi imprese, per non                trascorrere la vita in silenzio come le pecore, che la natura ha reso prone e obbedienti al ventre.


Già dal De coniuratione, quindi, Sallustio considerava la possibilità di una degenerazione da parte dell’uomo. Tuttavia c’è una possibilità di redenzione, si può cambiare: infatti questo passo e quello delle Historiae sopra riportato non sono in contraddizione. È vero che per un problema della’indole umana l’uomo tende verso il basso e verso la soddisfazione personale, ma è anche vero che questo è solo un aspetto della natura umana, poiché non per questo esiste l’uomo, bensì per seguire quegli aspetti più alti di sé. Ecco che quindi il radicale pessimismo delle Historiae lascia però aperta la porta a una risalita verso l’alto, a un cambiamento in meglio. Occorre che l’uomo non segua (come si dice nel resto del passo del De coniuratione, che ho omesso) la parte che ha in comune con gli animali ma quella che ha in comune con gli dèi.

Questo quindi è quanto di importante possiamo ricavare dall’analisi dell’opera di Sallustio, che in tempi di crisi non è all’esterno che dobbiamo guardare, ma a noi stessi. Dobbiamo smettere di seguire quegli istinti che ci portano in basso e cercare di elevarci. Correggendo noi stessi correggeremo anche lo stato, e correggendo lo stato elimineremo la crisi, di qualunque crisi si tratti. Il cambiamento non è qualcosa che fanno i singoli, è il risultato del lavoro comune di tutti quanti. Solo così potremo sperare di ottenere qualcosa.