giovedì 29 dicembre 2016

Recensione - Seconda Fondazione di Isaac Asimov

È una vita che non scrivevo nulla su Asimov. La ragione è la stessa per la quale ho ancora a metà la recensione della saga della Torre Nera, e cioè che non c’è tempo per fare tutto e mi sono saltati fuori romanzi che avevo più fretta di recensire. Ma adesso rimedio a tutto, promesso, prima di parlare de Il richiamo del cuculo o della Trilogia dei fulmini o di qualunque altro libro io abbia letto in questi mesi chiudo le saghe che ho a metà.

La trilogia della Fondazione aveva cominciato con un romanzo mediocre e continuato con uno eccellente. Resta da vedere se Seconda Fondazione ne sia una degna conclusione oppure sia un flop come Prima Fondazione.
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Titolo: Seconda Fondazione
Autore: Isaac Asimov
Anno: 1953                                                          
Editore: Mondadori
Pagine: 210




TRAMA

Come gli altri due volumi della serie anche Seconda Fondazione é suddiviso in parti, e come nel caso di Fondazione e Impero queste parti sono due. Ricompare un personaggio che chi ha letto la mia recensione dello scorso volume ricorderà sicuramente, ovvero il Mule. Sapete, quello che era un antagonista ma era ben caratterizzato, quello che alla fine ti stava simpatico quanto i protagonisti se non di più. Ecco, il Mule é protagonista della prima parte, che lo vede alla ricerca della misteriosa (e potenzialmente pericolosa) Seconda Fondazione, creata da Hari Seldon in concomitanza con la prima ma in segreto, con scopi sconosciuti. Lo scopo del Mule é semplice: trovare la Seconda Fondazione prima che possa diventare una minaccia per l'impero che sta costruendo.

La seconda parte racconta la ricerca della Seconda Fondazione da parte della Prima Fondazione. La protagonista di questa storia é un personaggio all'apparenza marginale, cioè Arcadia, la figlia del dottor Darell, incaricato della ricerca insieme a una commissione di membri della Prima Fondazione. Arcadia, sveglia e arguta, riuscirà a inserirsi in modo clandestino in questa missione, rivelando la propria intelligenza nel tentativo di rispondere all'interrogativo che esiste dall'inizio del romanzo: dove si trova la Seconda Fondazione?

Il Mule.

LA MIA OPINIONE


Il mistero della Seconda Fondazione è un po’ la domanda cardine su cui ruota tutta la trilogia, perché è stata accennata nel primo romanzo, è diventata importante nel secondo e nel terzo è il motore di tutti gli eventi e, una volta soddisfatta, pone fine alla storia. È anche ciò che consente di conoscere del tutto il Piano Seldon, che è ciò che sta dietro a tutti gli eventi della trama e che viene spiegato poco per volta. Insomma, ha un ruolo davvero importante nel plot, e proprio per questo deve essere gestito molto bene, altrimenti tutto il romanzo crolla. C’è bisogno di un’abilità narrativa notevole per fare questo e allo stesso tempo dare al tutto un finale che sia degno sia del romanzo che dell’intera trilogia.

Asimov ha già dimostrato grandi capacità di narrazione nei due libri precedenti, anche nel primo che pure non era granché, e bisogna dire che non si smentisce. Il segreto della Seconda Fondazione non viene svelato fino proprio alla fine, e riesce a stuzzicare e accendere la curiosità del lettore in modo molto efficace. Questo è dovuto alla particolare struttura che assume il finale del romanzo, dove per finale intendo le ultime più o meno trenta pagine, in cui, senza fare spoiler, in sostanza viene messa una dietro l’altra una serie incalzante di colpi di scena. Vengono proposte tutte le teorie che sono state elaborate dai personaggi sull’ubicazione della Seconda Fondazione e tutte vengono prima date per vere e poi smontate. La tensione nel lettore è in un costante crescendo che aumenta e lo stringe mano a mano che le teorie vengono presentate e poi inevitabilmente demolite, e alla fine quando una viene rivelata come vera si ha la stessa sensazione di quando in un giallo il detective accusa l’assassino e la soluzione, prima nebulosa, diventa chiara ed evidente. Queste ultime trenta pagine conquistano, trattengono il lettore nella lettura e scorrono tutte d’un fiato, quasi non si sentono e giunti alla fine si ha una sensazione di tranquillità, di serenità. Si ha l’impressione che tutto sia al suo posto, che la storia non poteva né doveva continuare, che tutto è stato sistemato, che quella non poteva che essere la fine. Visto che capita spesso di terminare un libro e avere la sensazione che un po’ di pagine in più avrebbero migliorato la trama, oppure che certi punti avrebbero potuto essere trattati in modo più approfondito, questa sostanziale completezza è davvero apprezzabile.

"Ma se io mi nutro e tu ti nutri, Frank Sinatra?"
Nella recensione di Fondazione e Impero avevo decantato le lodi del Mule, e bisogna dire che non posso fare altrettanto parlando di Seconda Fondazione, ma questo non avviene per negligenza dell’autore, quanto perché l’approfondimento psicologico del Mule non è più importante, essendo già stato portato a compimento. Quello che fa ora la trama è mostrarcelo alle prese con altre vicende, e quindi su di esse vanno a concentrarsi le attenzioni sia dello scrittore che del lettore. È anche per questo che altri personaggi coprotagonisti hanno uno spazio non indifferente nella storia, personaggi che risultano caratterizzati in modo accettabile. Non sono nulla di straordinario ma fanno il loro sporco lavoro senza essere piatti come sagome di cartone oppure banali o stereotipati. 

Il personaggio rivelazione del romanzo appare nella seconda parte, ed è la protagonista Arcadia. Arcadia è una ragazzina intraprendente, energica e intelligente, una che sa il fatto suo, che sa cosa vuole e fa di tutto per ottenerlo. È davvero piacevole leggere le parti dedicate a lei, anche perché comportano un cambiamento affatto sgradito nello stile. Infatti, la scrittura di Asimov per tutti e tre i libri è sempre composta e posata, mentre dall’apparizione di Arcadia in poi diventa vivace e brillante, scivola che è un piacere (non che prima fosse noiosa, anzi, ma così va via che uno neanche se ne accorge) e riesce a incalzare il lettore e a divertirlo senza diventare mai stupida o frivola. Non che sia una novità che Asimov è posato per scelta, ma quando vuole riesce a scrivere in modo divertente, basta leggere Rompicapo in quattro giornate, che fa dello stile delle parti di Arcadia uno dei propri punti di forza, ma è di certo un fatto inusuale e davvero ben azzeccato all’interno della Trilogia.

In diversi punti ritorna quella caratteristica che avevo lodato nella scorsa recensione, quei punti così ben scritti, così intensi e lirici che fanno a volte quasi tremare. I ricordi che mi sono rimasti più impressi sono nel finale, ma il romanzo intero è costellato di questi momenti che sanno davvero trasportare, costituiscono quel qualcosa che aggiunge un tocco in più alla lettura, quell’elemento che solleva il lettore e gli fa sembrare di volare leggero come una piuma. Sono più frequenti che in Fondazione e Impero, ma sono altrettanto intensi e coinvolgenti.

La protagonista Arcadia ritratta durante una gita al lago.
La trama è davvero ben congegnata, come del resto dopo aver letto due suoi romanzi è lecito aspettarsi da Asimov. La tecnica dei colpi di scena in serie non è utilizzata solo nel finale della seconda parte ma anche in quello della prima, seppure in modo meno incalzante, e anche in quel caso riesce a generare sufficiente tensione. In generale si nota appunto una maggiore volontà da parte dell’autore di tenere i lettori sulle spine, e il gusto di sottoporre loro delle situazioni che sembrano essere in un certo modo e poi si scopre che non era così. La volontà di sorprendere e interessare è la cifra dominante del romanzo, e questo non solo non dispiace, ma risulta affascinante. Sono arrivato ad attendere con piacere i momenti in cui l’autore ribalta le carte in tavola, perché non vedevo l’ora di poter verificare le teorie che avevo pensato durante la lettura, e poi perché l’abilità di Asimov è tale che è bello leggere i suoi colpi di scena.

La scrittura è scorrevole e interessante, contribuisce a tenere il lettore incollato alla pagina e a non staccarsi mai dalla lettura. A tratti diventa un po’ noiosa, in particolare quando si sofferma su dettagli tecnici non di secondaria importanza ma che non sono certamente il massimo delle emozioni, ma sono pochi momenti e isolati, che quindi non vanno a intaccare la grandezza del libro.

Siamo di fronte perciò a una lettura di tutto rispetto, un libro che riesce a concludere in modo degno la Trilogia. Non posso trovare difetti, a pensarci bene non ce ne sono di particolarmente evidenti o fastidiosi, c’è solo qualche sbavatura ogni tanto che mi impedisce di dargli il voto massimo.   

Isaac felice che sente l'odore degli Cthulhu che si avvicina.

IN CONCLUSIONE


Oggi ho avuto meno da dire del solito. Nelle recensioni normali scrivo almeno cinque o seicento parole in più. Il fatto è che Seconda Fondazione è sì un ottimo romanzo, ma presenta di fatto gli stessi pregi del libro che lo precede, e vi aggiunge quel qualcosa che lo rende un filino migliore, ovvero la tanto decantata tensione generata dai colpi di scena. Inoltre, a differenza di Fondazione e Impero, la prima parte non è mediocre, anzi, tutto il contrario, e questo va a influenzare ancora di più la già ottima godibilità della lettura. In sostanza, questa recensione è più breve perché cerca di non ripetere quello che è già stato detto a proposito di Fondazione e Impero.

Vediamo di tirare le conclusioni. Di certo non ho esitazione nel consigliare Seconda Fondazione. E per quel che riguarda la Trilogia in generale?

Le mie considerazioni non possono che essere positive anche al riguardo. A parte la lettura un po’ così del primo libro gli altri due sono splendidi, e valgono ogni secondo che spenderete a leggerli. Recuperateli se potete, comprateli, fateveli prestare, come volete, ma affidate ad Asimov e alla Fondazione qualche ora del vostro tempo. Non sarete delusi, tutto l’opposto, vi piacerà talmente tanto che sfogliare l’ultima pagina e abbandonare il mondo della nostra Terra nel futuro sarà quasi come abbandonare un vecchio amico. Non perdete quest’occasione.

VOTO:

sabato 24 dicembre 2016

Commento integrale al Liber di Catullo. Introduzione.

Che ne dite di un progetto che mi tenga impegnato da oggi per i prossimi dieci anni? Una grande idea, mi sembra, no? Se poi consideriamo che questa è soltanto la prima parte di qualcosa di molto più ampio significa che sono impegnato anche per le prossime quattro vite. Wow.

Una cosa che a me è sempre piaciuta sono i commenti integrali. Leggere Platone od Omero o chi per loro con un bell’apparato di note, una ricca introduzione e appendici alla fine è qualcosa che dà un’immensa soddisfazione, perché riesci davvero a capire il testo nella sua interezza. Senza questi strumenti molte cose ci sfuggono, visto che, essendo passati più di duemila anni, molti riferimenti semplicemente non siamo in grado di coglierli. Il web tuttavia se ne mostra abbastanza avaro: da quel che mi risulta l’unica opera a essere dotata di testo e commento integrale online è la Divina Commedia. Per aumentare quindi questo numero esiguo ho deciso che pubblicherò i testi in originale e in traduzione e i commenti puntuali di varie opere del mondo antico, in modo tale che chiunque volesse approfondire la conoscenza di questa o quell’opera (o anche chi dovesse prepararsi per l’interrogazione di domani e mannaggia alla prof io quando ha spiegato non seguivo) in modo non solo generale ma anche più specifico e preciso possa trovare qui ciò di cui ha bisogno.

Anche Pitagora è reincarnato quattro volte per finire un progetto sul suo blog.
Ho deciso di cominciare con il Liber di Catullo, per un motivo molto semplice: le sue poesie sono di solito corte, e io in questo periodo non ho il tempo di stare dietro a tradurre cose troppo lunghe. Prima di cominciare però penso sia utile dire due parole generali su Catullo, il movimento di cui fa parte e il Liber.

Sulla vita di Catullo non dirò nulla, si sa poco e quel poco è poco rilevante (Gorgia sarebbe fiero di me, Platone un po’ meno) ai fini del mio discorso e si può trovare tranquillamente su Wikipedia. Quello su cui invece è più importante soffermarsi è il movimento poetico di cui Catullo rappresenta il massimo esponente, ovvero i neoteroi, o poetae novi.

Il neoterismo costituisce un punto di svolta per la poesia latina, una tappa che influenzerà tutta la produzione successiva e quindi una linea di demarcazione piuttosto stretta tra quello che verrà scritto dopo e quello che era stato scritto prima. Tutta la letteratura latina, questo si sa, deriva dalla letteratura greca, in particolare da quella di età ellenistica. Per fare un esempio, l’Odusia di Livio Andronico è un poema fortemente alessandrino, nonostante sia la traduzione di un’opera composta secoli e secoli prima dell’ellenismo. L’età ellenistica rappresenta per Roma l’esempio di un modo di fare poesia che viene poi integrato in quelle che sono le esigenze e il sentire dei poeti latini. Per questa ragione la letteratura latina arcaica è una letteratura collettiva, che respinge le istanze del singolo e dell’io e si fa voce dello stato ed educatrice del lettore. Questo vale con la sola esclusione di Lucilio, che invece si dimostra già proiettato verso una dimensione soggettiva della poesia (ma è anche vero che Lucilio scrive quando ormai a Roma hanno cominciato a diffondersi le idee di cura del singolo e di disinteresse per la collettività che vengono proposte da una certa fetta della cultura greca).

Una fetta di cultura greca al cioccolato.
La principale novità del neoterismo è l’inserimento della soggettività nella poesia. Sia una soggettività fittizia, come negli epigrammi di Valerio Edituo e Lutazio Catulo, sia una soggettività reale, come nei carmi di Catullo, comunque emerge in maniera prepotente e trasforma la poesia non più in uno strumento di educazione ma in un esercizio di stile ed erudizione attraverso il quale il poeta esprime sé stesso.

Stile ed erudizione, in latino ars e doctrina sono tra i concetti principali della poetica di Callimaco e di tutta quanta la poesia ellenistica. Questa poetica viene dai neoterici assimilata e applicata a seconda delle proprie esigenze in modo più puntuale e rigoroso dei poeti arcaici, che, nonostante come dicevo ne fossero stati influenzati, comunque non l’avevano seguita in modo così assiduo ma ne avevano fatti propri elementi diversi, chi alcuni e chi altri.

Questa nuova corrente poetica non è affatto ben vista da una grossa parte degli intellettuali romani, ancorati alle tradizioni e incapaci di scorgere la grandezza della poesia netoterica. Ciò che ci vedevano era invece una rottura con il passato che portava a una produzione di qualità molto inferiore sia a livello letterario che a livello morale e politico. Cicerone, che si trovava su posizioni opposte ai poetae novi, non esita a definirli “cantores Euphorionii”, ovvero imitatori di Euforione. Euforione era un poeta ellenistico noto per la sua oscurità e per l’elaborazione dei suoi versi, e paragonando i neoteroi a suoi imitatori Cicerone vuole sottolineare che questi cercano di replicare la sua ricercatezza formale e la sua altezza di stile ma riescono a produrre soltanto qualcosa di sciatto e poco poetico. Dietro questa accusa di carattere letterario ci sono, come accennavo prima, anche ragioni di tipo diverso. Si è lungo dibattuto se i neoteroi appartenessero a un circolo epicureo oppure no, sta di fatto che comunque nelle loro poesie, perlomeno in quelle di Catullo, si professa una forma di disinteresse e di astensione per la politica in virtù di una maggiore concentrazione verso il proprio io. Cicerone, che vedeva ancora nella letteratura un prodigioso strumento di educazione e, come nella latinità arcaica, la considerava uno strumento per la collettività, non poteva accettare un così radicale cambio di prospettiva del fare poetico. 

Catullo é probabilmente il maggior esponente di questo movimento, ed é anche l’unico la cui produzione non ci sia giunta frammentaria. Ci è pervenuta sotto il suo nome una raccolta di un centinaio di poesie, quello che viene chiamato, riprendendo una definizione di Catullo stesso, Liber.

Il Liber é suddiviso in tre parti, anche se questa divisione rappresenta più una convenzione di noi moderni che qualcosa di progettato da Catullo. La prima parte, che comprende i carmi dal primo al 60, é soprammominata nugae, che significa stupidaggini, ed é un termine che Catullo stesso usa per definire la sua opera. Questa parte contiene poesie brevi dal tema quotidiano, in cui la ricerca dell'erudizione va a unirsi e a contaminarsi con la descrizione delle emozioni e delle situazioni semplici di tutti i giorni. Questo non significa che le poesie delle nugae siano scritte di getto o che manchino o rifiutino l'elaborazione formale, anzi, l'esatto opposto. Questa era una visione tipica della critica ottocentesca (Giovanni Pascoli tra tutti), la critica moderna si batte invece per dimostrare come in realtà abbiano una  grandissima elaborazione di stile, paragonabile solo alla migliore poesia alessandrina.

Pascoli.
La seconda parte, che comprende i carmi dal 61 al 68, è denominata carmina docta, e contiene poesie di assai diverso carattere. Sono componimenti molto più lunghi, il 64 supera addirittura i 400 versi, e hanno di solito come argomento il mito, o in generale temi di levatura più alta (il 66 ad esempio è la traduzione artistica di un originale greco di Callimaco). Quando si riferiscono ai temi del quotidiano lo fanno in modo aulico ed elevato, come per esempio nel carme 68, dove l’amore per Lesbia e la morte del fratello vengono accostati, in modi che approfondirò quando arriverò a commentarlo, alle vicende mitiche della guerra di Troia. Potrebbero sembrare del tutto slegati dalle nugae, ma in realtà non è così, sono invece unite da un sottile filo tematico, che per altro lega tutta la produzione catulliana. I carmina docta non sono altro dal resto, sono l’innalzamento dei sentimenti personali espressi nelle altre poesie a emozioni divine, chiave di lettura universale delle vicende degli dèi.

La terza e ultima parte  viene indicata come 'epigrammi', poiché contiene solo componimenti di questo tipo. Vi troviamo quindi poesie brevi come quelle della prima parte, ma a differenza di queste, che sono composte in metri diversi, gli epigrammi sono tutti in distici elegiaci. Le nugae hanno inoltre argomenti più romani, più calati nella realtà di Roma dell'epoca, mentre gli epigrammi sono di carattere più astratto e meno collegato alla situazione presente al momento della composizione.

Come si vede il Liber si presenta non come un'opera unitaria ma dalla natura composita. La  ragione principale di questo é che  molto probabilmente le tre parti del Liber erano state concepite da Catullo come opere a sé stanti, e sono state poi unite dalla tradizione manoscritta. Non serve comunque approfondire oltre l'argomento, visto che sulla divisione del Liber molto é  stato detto ma per il mio obiettivo è per questa  sede bastano queste poche righe.

Non ritengo nemmeno che sia importante che io mi soffermi in modo puntuale sulle tematiche della poesia di Catullo, in quanto avrò modo di parlarne con precisione durante la trattazione dei singoli componimenti. Per fare giusto un brevissimo sommario, oltre al tema dell'amore per Lesbia, che é sicuramente il più noto, hanno grande importanza l'amicizia, la politica (vista però attraverso il personale occhio neoterico di Catullo, che quindi si sofferma sugli aspetti più personali dei personaggi che attacca o sulla sua percezione di loro, piuttosto che sul loro programma politico), la nuova poetica neoterica, il mito e soprattutto la nuova visione dei valori tradizionali, che costituisce poi la cifra  più originale e a mio parere interessante.

Pascoli è rimasto sconvolto dalla mia battuta di prima su di lui.
Sulla storia d'amore é secondo me inveve utile fare una precisazione, e la faccio qui per potermene liberare subito. É opinione diffusa della critica dell'ottocento, con il solito Pascoli in prima linea, che  la poesia di Catullo sia una specie di diario della sua storia con Lesbia. É anche la prima idea che può venire a una lettura ingenua del Liber, e viene anche proposta talvolta ancora adesso al liceo da qualche insegnante, per dirla con un eufemismo, poco informato. In realtà non é così: il Liber, come dicevo prima, non contiene poesie scritte di getto per delle occasioni, ma ha una precisa finalità letteraria di erudizione ed elaborazione stilistica. Per questa ragione riprende spesso moduli della tradizione poetica romana e alessandrina (i poeti più importanti come modelli sono Asclepiade, Meleagro e Callimaco), per misurarsi con essa a volte imitandola a volte innovandola. Quindi sarebbe ingenuo dire, sulla scorta dei carmi 2 e 3, che Lesbia aveva un passero che poi é morto. La conclusione corretta é che Catullo inventa il passero per riprendere determinai topoi della poesia ellenistica e reinterpretarli alla luce della propria esperienza di vita, in questo caso l'amore per Lesbia. Poesia che parte dalla vita quindi sì, ma non poesia sulla vita.


Questo é in sintesi quello che occorre sapere. Con il prossimo articolo cominceremo l’analisi del testo catulliano partendo dal primo componimento, che è anche molto famoso, e costituisce la dedica dell’opera (o di parte di essa) a Cornelio Nepote.

lunedì 19 dicembre 2016

Rencesione - Tokyo Ghoul di Sui Ishida

La divisione tra shonen e seinen è una cosa che conoscono tutti. Siccome poi lo shonen si è specializzato in un genere particolare (che non significa che non esistano shonen che se ne distaccano, significa che nell’immaginario collettivo lo shonen ha determinate caratteristiche), quelli che trattano tematiche un po’ più serie o che non possiedono i luoghi comuni del genere trovano sempre qualcuno pronto a definirli seinen. Perciò c'è pieno di gente pronta a sostenere che Death Note sia un seinen perché insomma, non ha i tizi che si menano e ha una storia dark dove bene e male si mischiano cioè, mica come Dragon Ball e altre schifezze varie. Ehm. Il genere di un manga è determinato dalla rivista che lo pubblica, e basta. Quindi se Shonen Jump si mettesse a pubblicare hentai, bene, quegli hentai sarebbero shonen.

Questo perché il manga di cui voglio parlare oggi ha ricevuto un trattamento simile ma opposto, ovvero è un seinen ingiustamente identificato come shonen, tant’è vero che questa classificazione è presente in bella vista sulla sovraccoperta dell’edizione italiana. Si tratta di Tokyo Ghoul, che è pubblicato in Giappone da Weekly Young Jump, che tra gli altri contiene, per fare un esempio, anche Zetman. Che non è propriamente uno shonen.

Un altro bel manga pubblicato su Weekly Young Jump.
Fatta questa distinzione, vediamo che cosa c’è da dire su Tokyo Ghoul e se valga la pena leggerlo. SPOILER: sì, vale la pena, LEGGETELO!
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Titolo: Tokyo Ghoul
Autore: Sui Ishida
Anno: 2011
Volumi: 14
Editore: J-Pop



TRAMA

Siamo nella nostra epoca, a Tokyo, ma una Tokyo molto diversa da come potremmo immaginarla. Circolano infatti delle creature pericolose, i ghoul, esseri in tutto e per tutto all’apparenza simili agli umani, ma dotati di una grande capacità di rigenerazione, una forza sovrumana e un apparato digerente molto particolare, che provoca loro una fame insaziabile e grandi crisi quando questa non viene soddisfatta ingerendo l’unico cibo che il loro organismo sia in grado di assimilare: gli uomini.

I ghoul vivono come fossero persone normali e nel frattempo procacciano le loro prede, mentre un istituto governativo apposito si occupa di effettuare indagini per scovarli ed eliminarli prima che possano nuocere alla gente. Ken Kaneki è un ragazzo come tanti, timido e indipendente, con una grande passione per la lettura e istinti protettivi nei confronti delle persone che ha intorno. A causa della sua natura schiva, Ken ha un solo amico e non ha mai avuto una fidanzata. Rimane così molto sorpreso quando Rize, una ragazza molto bella che ha conosciuto in un bar, appassionata dei suoi stessi libri, lo invita a uscire con lei una sera. Rize è in realtà un ghoul, e durante il loro appuntamento rivela la propria vera identità e tenta di mangiarsi Ken. Durante l’attacco, delle travi sporgenti dal tetto di un palazzo cadono e uccidono Rize schiacciandola. Ken viene trovato ferito e portato d’urgenza in ospedale. Ha ricevuto ferite molto gravi, e l’unica soluzione che viene trovata è quella di trapiantargli gli organi di Rize, che viene scambiata per un umana. L’operazione ha successo e Ken è salvo, ma questo è solo l’inizio di quella che lui stesso definisce una tragedia. Gli organi impiantati lo rendono non più umano né ghoul, ma una creatura a metà tra i due. Sarà costretto a dover convivere con la sua nuova fame, per la quale prova orrore e raccapriccio, e a conoscere così il mondo dei ghoul nel tentativo di trovare un modo per conciliare le due anime che abitano in lui.

LA MIA OPINIONE


Ho letto Tokyo Ghoul due volte e mezzo. La prima un paio di anni fa, la mezza volta ad aprile scorso e la seconda ora, e l’ho fatto con l’intenzione di proseguire leggendo anche il seguito, Tokyo Ghoul: re, e a questo programma sono riuscito, contro ogni mi aspettativa, ad attenermi in modo perfetto. La colpa (o il merito? Il mio studio e la mia testa hanno due opinioni diverse) è di quanto Tokyo Ghoul sia in grado di conquistare il lettore. Una volta ne ho letto circa cinquanta capitoli in poco meno di due ore (per i miei standard non è tanto, di più), e posso assicurare che se non avessi avuto lezione all'università avrei proseguito ancora, non riuscivo proprio a staccarmi dalla pagina.

La simpaticissima e per nulla inquietante Rize.
La trama parte in modo non molto originale, quante volte l’abbiamo già vista? Tizio a caso non è più umano a causa di un brutto incontro e ora deve imparare a vivere e convivere con la sua nuova forma. Il fatto è che l’autore riesce a riproporre il tutto in modo davvero originale, in parte grazie alla sua abilità nel sviluppare in modo proprio queste idee già viste, in parte grazie alle sue grandi doti di sceneggiatore. Il risultato è un a lettura avvincente, che riesce a stupire a ogni capitolo e che solo in pochissimi casi sa un po’ di già visto.

Sui Ishida ha fin dall'inizio chiaro come la vicenda si svolgerà nella sua interezza. E non intendo come evolveranno le vicende di Tokyo Ghoul, molto probabilmente, almeno a partire da un certo punto della storia, sa anche come si svilupperà Tokyo Ghoul:re. Questo enorme controllo gli permette di disseminare la trama di indizi o di dettagli che verranno poi ripresi molto dopo e che costituiranno elementi importanti. Personaggi che a lungo hanno avuto un ruolo marginale si scoprono poi come fondamentali, e mai questo suona forzato o forzoso, anzi, tutto succede con grande logica e naturalezza. Molti misteri vengono proposti e mai risolti (bisognerà aspettare il :re!) o risolti molto più tardi rispetto alla loro apparizione, e questo non solo dà un senso di unitarietà che i manga di media o grande lunghezza spesso tendono a perdere, ma anche consente alla trama di fluire in modo più scorrevole e diretto. Non si ha mai l’impressione che l’autore si stia perdendo dietro vicende di poco conto, tutto il contrario.

La dicotomia tra buoni e cattivi è assente, e viste le premesse questo non stupisce. Kaneki ha vissuto la sua vita vedendo i ghoul come “cattivi”, e quando poi si trova catapultato dall’altra parte può osservare come non meno “cattivi” siano gli umani. Ciò che gli preme di più non è però dare giudizi affrettati quanto, come dice lui, “proteggere tutti”. Mezzo umano e mezzo ghoul, è l’unico che può comprendere le necessità e le istanze di entrambi gli schieramenti, e anche colui che quindi può rendersi conto di come le incomprensioni, la volontà di non capirsi e il rifiuto di oltrepassare la propria limitata visione delle cose siano la causa principale del conflitto.

La trama si apre così a diverse riflessioni che accompagnano la crescita di Kaneki, che da un lato si trova, nel tentativo di proteggere le persone, a concentrarsi sempre di più su sé stesso, dall’altro comincia piano piano a comprendere che cosa significhi aiutare e a non confondere, errore che invece viene commesso molto spesso, l’altruismo con l’egoismo, il sentimento di solidarietà con l’egocentrismo. Questa crescita non ha una fine, un punto di arrivo, ma si arresta di colpo, in modo del resto inevitabile, visto quello che accade. Sono sicuro che nel :re questi temi saranno ripresi, visto che costituiscono l’essenza stessa di Kaneki.

Ai misteri si accompagnano i frequenti cambiamenti di bandiera da parte di alcuni personaggi, e l’apparizione di fazioni spesso opposte tra loro, a volte alleate, ciascuna con scopi precisi ma diversi. La posizione che queste fazioni hanno nella guerra umani vs ghoul non è stata chiarita, e anzi, alcuni gruppi, come i Pierrot, restano ancora nell’ombra, e i loro obiettivi non sono per nulla chiari.

Pennywise, il capo dei Pierrot.
Come ho avuto modo di accennare poco fa la sceneggiatura merita moltissimo, è uno dei punti di forza di tutto il manga e anche fonte principale del magnetismo che ne permea le pagine. La parte dell’appuntamento di cui parlavo nella sezione dedicata alla trama è per esempio un piccolo capolavoro, e lo stesso si può dire anche del combattimento con Nishio o delle torture di Yomori (questo momento più di altri è davvero spettacolare, riesce a imprimersi nella mente del lettore come un marchio a fuoco). Le scene rappresentate nelle tavole sono dinamiche e coinvolgenti, rapide e incalzanti, e il disegno di Ishida è il tocco finale per immergere del tutto il lettore nel fiume degli eventi che lo trascina e lo conduce dove vuole. Ishida deve moltissimo a Togashi in questo e non ne fa mistero, nonostante ciò ha uno stile molto personale. Non segue in modo pedissequo il modello ma lo sfrutta per giungere a qualcosa di unico e proprio.

I personaggi sono davvero ben fatti. Il carattere di Kaneki è delineato fin dall’inizio e, come dicevo prima, cresce e si sviluppa nel corso della storia, diventando sempre più maturo e adulto. Kaneki è un personaggio che non necessariamente può piacere a chi legge, anzi, e spesso prende decisioni che possono essere opinabili (sempre con quella maledetta mania di voler salvare tutti da solo!), ma è un personaggio forte, in grado di sorreggere sulle proprie spalle il peso della storia, in grado di convincere il lettore a volerlo seguire e a voler sapere come andranno a finire le sue vicende.

Touka, compagna ghoul di Kaneki, è un altro personaggio davvero ben delineato. Seria, rigida, distaccata, severa con sé stessa e con gli altri, anche Touka a volte spesso compie scelte che non sono condivisibili, ma è il suo carattere, e quindi le sue decisioni si adeguano a quello. Il punto è proprio questo, i personaggi sono vivi e coerenti, e anche quando fanno qualcosa di stupido è coerente con come sono loro, e quindi va bene. Ho citato solo Touka e Kaneki perché appaiono più spesso degli altri, ma tutti hanno il loro carattere ben approfondito e coerente. Nishio, Yoshimura, Yomo, Juzo Suzuya, Uta e tutti gli altri sono persone reali, concrete, che sembrano potersi staccare dalla pagina. Proprio per questo è un piacere seguire le loro storie e vedere che cosa fanno, e come Kaneki interagisce con loro.

Il saluto che tutti vorremmo, by Juzo Suzuya.
L’unico personaggio meno originale e Shuu Tsukiyama, che ricalca da vicino un personaggio di Hunter x Hunter, Hisoka. Per questa ragione la parte a lui dedicata, in particolare il volume 5, è quella che mi è piaciuta di meno, quella che zoppica un po’ e che tutto sommato avrei evitato o al massimo accorciato di molto. Invece dura se non sbaglio una decina di capitoli! Ad ogni modo è una parte abbastanza irrilevante della storia, quindi alla fine ci si può passare sopra.

Caratteristica estremamente interessante è il simbolismo che permea l’opera. Ci sono vari dettagli sparsi qua e là nel fumetto che possono anche passare inosservati, ma che se ci si presta attenzione ci si rende conto che appaiono sempre insieme a determinati personaggi, andando a simboleggiare perciò le loro caratteristiche o il loro destino, oppure che semplicemente costituiscono indizi per indicare fatti successi che non sono stati spiegati ma che comunque l’autore conosce. Sono presenti anche degli impliciti accostamenti dei personaggi alle carte dei tarocchi, e anche in questo caso ha lo scopo di indicare o quello che succederà oppure la loro personalità. Tutti questi sono piccole cose, ma indicano da un lato come ogni cosa, anche il più piccolo angolo del fumetto, sia calcolato nei minimi dettagli, dall’altro offrono tante chiavi di lettura di quello che sta succedendo, rendendo davvero molto interessante cercare questi indizi nascosti.

Ogni tanto nella narrazione c’è qualche peccato veniale, come un capitolo, se non sbaglio nel sesto volume, che è una gigantesca lezione su come sono i kagune dei ghoul, quindi molto utile, ma che poteva essere più corta e impostata in modo un po’ diverso, così sembra sia una conferenza dell’autore pronunciata attraverso i personaggi. Ma appunto succede una volta e sono pure informazioni importanti, si può soprassedere, è un capitolo lento contro altri 143 che scorrono che è un piacere.

Anche lui dedicherà una puntata di Voyager ai kagune.
Mano a mano che la trama procede, i combattimenti in stile shonen diventano sempre più numerosi. Non sono i migliori combattimenti che io abbia mai letto, la strategia è quasi assente, tuttavia sono dinamici e movimentati, e molto ben studiati. Non ci sono power up né vittorie improvvise di chi un attimo prima le stava prendendo (come in Fairy Tail, tanto per capirci), quindi costituiscono una lettura avvincente e piacevole, anche se a volte sono un po’ confusi. Insomma, non sono la parte meglio riuscita del fumetto ma vanno bene, in particolare visto che tutto il resto si mantiene su livelli altissimi.

IN CONCLUSIONE


Tokyo Ghoul è splendido, tiene col fiato sospeso e impedisce di staccarsi dalla lettura, un manga dalle tinte horror che mischia azione e momenti più riflessivi e psicologici in modo spettacolare. È una lettura agile e rapida che conquista dall’inizio alla fine e che immerge il lettore in una spirale di tensione che culmina ogni volta in momenti più intensi e potenti. Davvero ne consiglio la lettura, non ve ne pentirete!


IL GIUDIZIO DI HISOKA:

domenica 11 dicembre 2016

Recensione - Abyss di Simone Regazzoni (Terza Parte)

Questa è la storia di un povero blogger, che, trovatosi a leggere un libro che non gli era piaciuto, Abyss di Simone Regazzoni, decise di recensirlo, pensando ingenuamente che le solite duemila parole scarse sarebbero state sufficienti per liquidare la brutta lettura. Si illudeva, perché i difetti del libro si moltiplicarono di fronte ai suoi occhi, costringendolo a scrivere più di cinquemila parole per elencarli tutti. Sconfitto, dovette perciò dividere la recensione in più parti per evitare che i suoi lettori si trovassero di fronte alla versione degli anni 2000 della Divina Commedia. Questa che avete sotto gli occhi è la terza e ultima parte.

[PRIMA PARTE]
[SECONDA PARTE]

La lunghezza che avrebbe raggiunto la recensione se avessi riportato
tutte le cose che non mi sono piaciute. 

DOVE ERAVAMO RIMASTI


Abyss è la storia del professore di filosofia Michael Price e della sua compagna Trix, che hanno come obiettivo la scoperta dei contenuti delle dottrine non scritte di Platone. In questo modo potranno conoscere i piani del Quarto Reich, un’associazione di neonazisti che ha fatto di queste dottrine la propria base ideologica. Il libro per ora ci ha mostrato sequenze illogiche, un uso casuale della punteggiatura, incoerenze, dialoghi brutti e personaggi veggenti, ma ha ancora molto con cui sorprenderci.

LA MIA OPINIONE


6) Ritmo narrativo pessimo

Quando si scrive è importante mantenere un buon ritmo. Senza un ritmo ben sostenuto il lettore rischia di annoiarsi, o viceversa di non avere il tempo di soffermarsi sulle situazioni, o ancora di trovarsi a momenti in cui la tensione accumulata fino a quel momento (e dico tensione ma mi riferisco a qualunque altra emozione suscitata dalla lettura) scema come polvere al vento e lascia soltanto un senso di delusione. A Regazzoni questo riesce particolarmente bene. Vediamo perché.

Io ho seguito questo percorso, ma credo che molte persone che ora sono scrittori di professione (a differenza mia, che non lo sono e non penso lo sarò mai) lo condividano con me. All’inizio scrivi quello che ti viene, perché credi di essere migliore della media degli autori pubblicati e la gente intorno a te ti incoraggia dicendo che sei bravissimo e hai una fantasia innata. Sulle prime è così, poi smetti di volare a un metro da terra e torni a contatto con la realtà, e ti rendi conto che da imparare hai moltissimo. Allora vai a cercare su internet qualche bel sito con consigli di scrittura, o ti dedichi ai manuali, che sono uno strumento altrettanto utile. E ti si apre un mondo. Scopri, per esempio, che non è una grande idea rovesciare addosso al lettore tutte le informazioni su un personaggio o su un luogo o su qualunque cosa che appare nella storia, e la cosa migliore è invece diluire l’indispensabile nella narrazione. Specialmente quando si parla di personaggi non importanti.

Manzoni mi guarda male. A lui piacciono così tanto le digressioni.
Abyss, invece, fa l’esatto opposto di quello che ho appena detto. Appena si presenta un personaggio nuovo spezza il ritmo della narrazione per raccontarci vita morte e miracoli di quest’ultimo. Inutile dire che di tutte quelle informazioni al lettore non interessa niente, l’unica cosa che gli importa è saltare a pié pari tutto ciò che è inutile e proseguire con la storia. Che poi quando questo avviene per personaggi importanti non è accettabile ma perlomeno è in qualche modo giustificato (quelle informazioni devono arrivare al lettore), ma ci sono momenti in cui la storia viene interrotta per interi paragrafi per parlare di personaggi che non appariranno mai più per il resto del libro. Ma basta ciance, facciamo subito un esempio!

|  “C’era un solo vero problema che i Guardiani dovevano fronteggiare: l’ammiraglio 
      Byrd, uno degli autori di quell’incredibile scoperta.
      Richard E. Byrd non era solo un militare pluridecorato per le sue imprese, ma anche 
      un esploratore noto al vasto pubblico, una specie di eroe internazionale. Nel 1929 
      aveva ricevuto la medaglia d’onore per aver sorvolato per la prima volta il polo Nord. 
      Il suo libro autobiografico Alone, in cui narrava la spedizione in Antartide del 1934, 
      era diventato un best seller. La sua fama di esploratore era tale che nel 1938, mentre 
      si trovava ad Amburgo, il governo nazista l’aveva invitato a partecipare alla 
      spedizione antartica Neuschwanbenland organizzata dal capitano della marina 
      tedesca Alfred Ritscher. Byrd, che aveva declinato l’invito, aveva poi preso parte alla 
      spedizione in Antartide del 1940 organizzata dagli Stati Uniti, per la quale aveva 
      ottenuto la prima United States Antartic Expedition Medal.  (pag.99)

Bla bla bla. Zzzzzzz...Eh? Come?
*si sveglia di soprassalto*

Come dicevo prima, Byrd non sarà mai più nominato nel corso del romanzo alla fine di questo capitolo, e cioè pagina 101. C’era bisogno di un bel paragrafo di infodump in stile Wikipedia per presentarlo? Il lettore doveva davvero sapere che aveva scritto un libro autobiografico che era diventato un best seller e quant’altro? Mah.

Il logo presente sotto il brano che avete appena letto.
Un personaggio che contribuisce a spezzare il ritmo della narrazione è il professor Jenkins. Viene in effetti descritto come logorroico, ma di solito i suoi discorsi sono collocati nei momenti peggiori. Eccone un esempio.

I protagonisti si trovano di fronte a quello che sembra un calamaro gigante. È una scena che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere concitata e ricca di tensione, e a questo mirano le scelte stilistiche dell’autore. Ma poi succede questo.

|  “[Jenkins disse]«Quello non è un semplice calamaro gigante. È un Mesonychoteuthis 
      hamiltoni, più noto come “calamaro colossale” o “calamaro antartico”».
      «Lei non era un astrofisico, Jenkins?»
      «Lei non coltiva nessun hobby, Blade? Vede, fin da quando ero bambino, la biologia 
      marina ha esercitato un certo fascino su di me, anche se non quanto l’astrofisica, 
      naturalmente, che resta l’amore della mia vita. Per questo mentre prendevo il 
      dottorato pensai di prendere una seconda laurea proprio in biologia marina, per 
      assecondare in modo più scientifico la mia piccola passione che in 
      quegli anni...»  (pag. 344)


Fatelo stare zitto! Come direbbero a Paperino in una vecchia storia, dai, scorcia! Eravamo in una situazione di tensione, il calamaro pareva una minaccia, c’era un po’ di curiosità per quello che sarebbe successo... e poi arriva Jenkins ad affossare tutto quanto raccontandoci di quando era bambino e gli piaceva la biologia. Proprio l’ideale per mantenere vivo l’interesse sulla situazione. Meno male che Trix lo tronca di malo modo, chissà per quanto avrebbe tirato avanti altrimenti!

Insomma, questi sono solo un paio di esempi, ma nel romanzo di situazioni analoghe se ne trovano un po’ ovunque. Giusto per citarne un altro assai notevole, il flashback sul passato di Russel costituisce un’interruzione non indifferente della narrazione. Dura infatti circa cinquanta pagine, e in una storia che ne conta meno di quattrocento la sua presenza si sente parecchio e rende poco snello il fluire della trama. Insomma, capita davvero raramente che il racconto proceda spedito senza interruzioni, ma spesso è interrotto da interventi evitabilissimi, che ne pregiudicano la godibilità e la scorrevolezza.

7) Miscellanea (per modo di dire)

Ci sono infine delle brutture che non sono riuscito a far rientrare in nessuno dei sei punti precedenti, ma che danno fastidio, alcune più alcune meno, durante la lettura. Potrei citarne molte, potrei citare le relative incastrate con la principale in modo che non si capisce più chi sia il soggetto, potrei citare Trix che “emana pericolo” e altre amenità da uso casuale del lessico, potrei citare il colpo di scena finale che è completamente a caso, ma non lo farò, aggiungerebbero ben poco a quello che ho già detto e non voglio scrivere una quarta puntata. Un fatto però lo voglio segnalare.

Siamo a Parigi, durante l’agguato ordito dagli uomini idioti del QR di cui ho parlato nella seconda parte della recensione. Trix sta usando una balestra per combatterli, ed ecco quello che succede a un certo punto.

|  “Il dardo entrò nell’occhio dell’uomo che aveva parlato poco prima, fuoriuscendo di 
      una decina di centimetri dalla nuca.
      Cadde come corpo morto cade.  (pag.175)

Non fare così, Dante... Anche a me dispiace che tu sia citato in questo libro...
Ebbene sì, lo ha fatto sul serio, ha inserito davvero una citazione da Dante. Ora, oltre che essere di una spocchia infinita, è anche una cosa inutile, per due ragioni. La prima, perché è un innalzamento di stile non richiesto e che anzi rovina la narrazione perché suona insensato: sarebbe come usare un lessico trecentesco per scrivere la lista della spesa. È inoltre poco adatto ai toni del romanzo, che si mantengono sempre colloquiali e non cercano mai di alzarsi. Insomma, è del tutto a caso e stona con tutto il resto. La seconda ragione è che è tautologico. Quando Dante lo usa si riferisce a sé stesso mentre sviene, e serve perciò a rappresentare in modo più drammatico e poetico la sua caduta, che naturalmente non è di un uomo morto. Qui invece si riferisce a una persona che è stata trafitta alla testa da un dardo, che cioè è senza ombra di dubbio morta. A che serve quindi sottolineare che cade un morto? In pratica, sarebbe come se Regazzoni avesse scritto “il cadavere cadde come un cadavere”. Viene da dire che quando ha scritto questo passo volesse tirarsela a caso, ma forse sono io che sono un mal pensante...

8) Salvare il salvabile

Sono migliaia di parole che evidenzio quello che di Abyss non mi è piaciuto. C’è tuttavia qualcosa che invece ho apprezzato. È niente in confronto a tutte le altre brutture, ma, come ho segnalato quello che non andava bene, ritengo giusto rilevare quello che invece funziona, per quanto poco sia.

Non si può negare che Regazzoni conosca la materia che insegna. L’intero romanzo è disseminato di discorsi su filosofi e scrittori di tutte le epoche e Regazzoni si destreggia in modo ineccepibile tra tutte queste conoscenze, dimostrando di possederle molto bene. I momenti in cui parla di Platone o della tradizione di papiri o dei testi esoterici rinascimentali sono tra i pochi buoni del libro, sono scorrevoli e interessanti, riescono davvero a solleticare la curiosità del lettore e a conquistarne l’attenzione. Questo perché in quei momenti Regazzoni sa di cosa parla, lo sa molto bene, e quindi riesce a esprimerlo nel miglior modo possibile per essere efficace e piacevole.

Alla fine il punto è proprio questo: Regazzoni può essere un ottimo filosofo, ma scrivere un romanzo è ben diverso da scrivere un saggio di filosofia. Lui invece ha intrapreso quest’ardua impresa senza basi e senza esperienza a sufficienza per riuscire a creare qualcosa che valesse la pena. Di conseguenza i momenti che posso definire senza dubbio molto interessanti sono soltanto quelli in cui si mette a parlare di quello che ama e conosce. Questi momenti saranno tre o quattro in tutto il romanzo, occuperanno una decina di pagine, massimo quindici, nonostante questo sono riuscite a intrattenermi e a interessarmi più delle restanti trecentosettanta. Del resto, scrivi ciò che ti piace (e quindi conosci) è un principio implicito che penso tutti dovrebbero tenere a mente.

Date queste premesse, è probabile (anche se naturalmente dovrei leggere qualcosa per saperlo con certezza) che la fama di Regazzoni come saggista non sia immeritata, e che in effetti la sua scrittura in quel caso risulti efficace. Se sono scritti come i momenti che citavo prima di certo sono, per quanto riguarda lo stile, degli ottimi libri.

Altro che critica della ragion pura.
Voglio poi spendere qualche parola per lodare un pezzo del libro che a una prima lettura vi sembrerà stupido. Ve lo sembrerà anche a una seconda e una terza, e ve lo sembrerebbe anche a quarta, se una quarta esistesse e voi non foste già stati costretti a prenotare una seduta dallo psichiatra. Prima riporto la citazione, e poi spiego perché mi è piaciuta.

Siamo alla fine del romanzo, Michael e Trix stanno affrontando i capi del QR, e uno di loro si rivela la fidanzata di Michael, Alex (ma il suo vero nome è Chloe), che sembrava essere stata rapita a inizio del libro, e di cui Michael aveva sentito tantissimo la mancanza ma proprio in modo terribile, tanto che se ne ricorda un due o tre volte nel corso della storia e poi la fa cadere nel dimenticatoio, non è mai preoccupato per lei, non la pensa, niente. Dicevamo, Chloe/Alex spiega a Michael il piano del QR e lo invita a seguirli. Ecco come si conclude il suo discorso.

|  “«Lì riposano i gerarchi del Terzo Reich fuggiti da Berlino nel 1945, tra cui Hitler. Lì tra 
      un attimo andremo anche noi, in attesa dell’altro inizio. C’è un posto anche per te 
      Michael, vieni con noi» disse Chloe.
      Trix le si avvicinò.
      «Scordatelo, biondina nazista, lui adesso sta con me».
      Michael guardò Trix, sorpreso.
      «Non fare quella faccia tu, ne parliamo dopo. Pensa a non farti infinocchiare da Miss
      Norimberga e dai suoi discorsi da nazista new age» aggiunse Trix.  (pag.379)

Lo so, se guardato con occhio critico siamo all’apice dell’assurdo, ma contestualizziamo il tutto. In un romanzo con inseguimenti sulle macchine, Grandi Antichi, buchi neri, generali dell’esercito, Lara Croft e Platone quanto avrebbe stonato una bella brodaglia romantica e melensa da romanzo rosa? Invece questo è del tutto nello stile e nello spirito del libro, che lascia poco spazio ai sentimenti e cerca invece qualcosa di movimentato e dinamico per coinvolgere il lettore. Inoltre è uno dei pochi dialoghi vivaci della storia, e merita anche solo per questo una menzione.

IN CONCLUSIONE 


In sintesi si può dire che Abyss è di un autore che non aveva capacità affinate a sufficienza per cimentarsi nella scrittura di un romanzo, e quindi non solo non riesce a piacere ma spesso ottiene l’effetto contrario. Una lettura che non consiglio, se proprio ci tenete a conoscere qualcosa sulla pop-sofia dedicatevi ai saggi, che sono abbastanza sicuro riservino, almeno a livello stilistico, sorprese più piacevoli.