mercoledì 26 ottobre 2016

Recensione - Yu degli spettri di Yoshihiro Togashi


L’altra volta ho parlato di Dragon Ball e di quelle sue caratteristiche che gli shonen moderni hanno deciso di riprendere. Sempre per restare nell’ottica di osservare cosa hanno da dire i figli di Dragon Ball, oggi voglio spendere qualche parola su Yu degli spettri, manga abbastanza vecchio ma che se non è un pilastro del suo genere almeno è una colonnina. Di sicuro ha contribuito a influenzare in modo sostanziale una gran fetta dei manga che hanno i morti e chi li governa come protagonisti, in primis Bleach. Merita perciò un minimo di attenzione, anche perché per essere uno shonen del suo calibro è abbastanza breve, e questo va contro la legge che dice che il tuo manga è uno shonen solo se è lungo quanto la Bibbia, l’Iliade, l’Odissea e la Divina Commedia messe assieme. Vediamo dunque che cosa riserva per noi la storia di Yusuke e dei suoi compagni, e quali sono state le mie impressioni a lettura conclusa.

La lunghezza minima di un manga shonen. E questo è solo il primo volume.
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Titolo: Yu degli spettri
Autore: Yoshihiro Togashi
Anno: 1990                                                 
Volumi: 19
Editore: Star Comics




TRAMA

Yusuke è un giovane teppista. Non segue mai le lezioni e anzi spesso marina la scuola, fuma, gioca d’azzardo, ha la simpatica abitudine di sollevare le gonne delle ragazze, è irriverente verso i professori e verso le autorità. I suoi compagni di scuola lo temono perché è anche molto abile nelle scazzottate, i professori lo detestano e lo considerano un cattivo esempio per gli altri studenti, la madre, rimasta senza marito, lo ignora. L’unica persona che cerca di riportarlo sulla retta via senza il disprezzo che gli dimostrano i professori è la sua amica d’infanzia Keiko, che invece è una ragazza seria e responsabile.

Un giorno il teppista Yusuke, mentre sta immancabilmente marinando la scuola, vede un bambino che sta per essere investito da un auto, e fa una cosa che nemmeno lui si sarebbe aspettato da sé stesso: lo salva, e viene investito al suo posto. Muore nell’incidente, e viene accolto da Botan, colei che guida le anime dei defunti nell’oltre tomba, che lo informa che la sua morte è stata inutile (il bambino non si sarebbe fatto nulla) e anzi non era prevista. Inizia così un lungo percorso di riabilitazione per Yusuke per riavere la propria vita, percorso che lo porterà ad approfondire sempre di più il mondo degli spiriti e il suo rapporto con il mondo degli spettri. Comincerà a lavorare per il mondo spirituale, trovando in Hiei e Kurama dei fedeli compagni, nel tentativo di salvare i mondi dai continui pericoli che li minacciano.

LA MIA OPINIONE


Yu degli spettri è il primo manga realizzato da Yoshihiro Togashi, l’autore di Hunter x Hunter, che è, come immagino si possa facilmente intuire, il mio manga preferito. Non lo è razionalmente, lo è a livello emotivo oltre che ovviamente per meriti oggettivi del fumetto stesso. Quindi, quando ho letto Yu degli spettri la prima volta cinque anni fa e quando l’ho riletto appena un mesetto fa fare il confronto con Hunter x Hunter e osservare come Togashi sia migliorato sotto molti aspetti è stato per me qualcosa di automatico.

Togashi è famoso per l'ordine con cui lavora.
L’autore prende ispirazione da Dragon Ball, e, se questo si nota meno nei primissimi volumi, basta proseguire un po’ con la storia perché diventi evidente. Come dicevo nell’articolo l’altra volta, Hiei è sia fisicamente che nel carattere la copia sputata di Vegeta. Oppure, la saga del torneo delle tenebre, la più lunga di tutto il manga, si rifà ai numerosi tornei che si svolgono in Dragon Ball. Questi due punti valgano a titolo d’esempio, perché se ne potrebbero elencare anche degli altri. Non è che questa influenza dia sempre fastidio, nel caso del torneo non mi ha fatto né caldo né freddo, mentre in quello di Hiei risulta un po’ antipatica perché suona molto come un atto di pigrizia dell’autore, che sembra che dica “toh, perché inventare una caratterizzazione quando c’è quella di Vegeta già bell’e pronta?”.

D’altra parte, e questo è più interessante, sono già presenti quegli elementi che caratterizzeranno l’opera più matura di Togashi, Hunter x Hunter, che poi sono anche le sue qualità migliori e lo alzano dalla media degli shonen comuni, Dragon Ball compreso. Qui sono meno evidenti, un po’ perché probabilmente Togashi doveva ancora lavorarci su, un po’ perché sono coperte da tutti quegli elementi tipicamente shonen che poi saranno abbandonati in HxH ma che ora sono parte integrante della trama forse in modo anche più imponente rispetto alle qualità stesse che tanto decanto. Abbiamo perciò un tentativo di caratterizzare in modo non banale gli antagonisti, tentativo che con Toguro riesce ma fino a un certo punto (a parte alla fine della saga a lui dedicata prima sembra soltanto un Cattivo da ShonenTM) , e invece funziona bene con Sensui e con i suoi sei compagni (chi più chi meno comunque tutti hanno una personalità). Abbiamo dei combattimenti che non si basano solo su chi fa la mossa più forte ma su chi fa la mossa più intelligente (anche se le mazzate hanno ancora un ruolo importante, molto più che in HxH). Insomma, la volontà di staccarsi dal paradigma classico dello shonen c’è, non riesce sempre e non riesce sempre bene.

Il fatto più notevole, il primo che salta agli occhi a lettura terminata, è che Yu degli Spettri è un manga in evoluzione. Comincia in modo discreto (i primi due volumi sono interessanti), ha una brusca svolta alla Dragon Ball che rende peggiori i volumi 3,4 e 5, si tira su con il 6, poi introduce la prima grande saga, il torneo delle tenebre, che si conclude nel volume 13. Questa saga, oltre che essere vincolata sotto molti aspetti a Dragon Ball, è abbastanza altalenante. Alterna buoni momenti, come direi tutti i combattimenti di Yusuke, ad altri che funzionano molto meno, vuoi perché sono poco ispirati, vuoi perché non mostrano nulla di particolare e scivolano senza lasciare nessuna impressione forte, positiva o negativa che sia. La trama prosegue poi per altri tre volumi con la saga di Sensui e del capitolo oscuro, che invece merita. Ha tratti che suonano anche scontati (lo stupore per la malvagità degli uomini, che, come dire, non è esattamente qualcosa di nuovo) ma che vengono trattati con degli accenti un po’ morbosi che non mi sono dispiaciuti affatto. Sto pensando in questo momento in particolare al discorso di Itsuki all’inizio del volume 16, ma tratti simili si possono trovare anche in altri punti qua e là. Poi ci sono, come dicevo prima, degli antagonisti caratterizzati in modo discreto e un ritmo incalzante che invoglia a proseguire la lettura. Questa saga è l’esempio di come una trama può risultare buona nonostante non sia molto elaborata (del resto, è composta in gran parte da combattimenti). Il duello con Sensui è ben costruito e si legge tutto d’un fiato. Insomma, non mi posso lamentare.

Toguro in un quadro di Escher.
Inizia a questo punto l’ultima saga, che occupa i tre volumi finali, e riguardo alla quale voglio spendere qualche parola in più. Questa saga, per dirla da critico serio quale sono, mi ha esaltato da morire e mentre leggevo avrei abbracciato Togashi. Ok, forse non ero così tanto esaltato, ma ha delle premesse davvero interessanti, e procede in un modo che tiene col fiato sospeso. La cosa che mi è piaciuta è che ci sono tre forze, i cosiddetti tre re, ciascuna con i propri obiettivi, le proprie abilità e i punti deboli, tre forze destinate a scontarsi e con ciascuna delle quali si allea uno dei protagonisti. Questa saga segue dunque lo sviluppo dei tre re in un ampio arco di tempo, osserva il rapporto tra i protagonisti e il re con cui si sono alleati e descrive le manovre che questi tre sovrani attuano per opporsi l’uno all’altro. Sono per la maggior parte mosse di spionaggio o di diplomazia, i combattimenti sono relegati soltanto alla fine, e questo conferisce fascino alla storia. Ci si trova di fronte a trame di tradimenti interni, riunioni strategiche, insomma, tutta una serie di cose che mi hanno mandato in brodo di giuggiole. Unica pecca? È troppa corta. Avrei letto venti volumi di trame politiche e tradimenti interni e riunioni strategiche. E invece di volumi ce ne sono praticamente due e mezzo. In pratica, esalta tantissimo per le premesse che ha e per la carne che mette al fuoco, ma poi decide di tagliare corto e quindi non mostra tutto ciò che prometteva. Lascia l’amaro in bocca? In realtà direi di no, ma poteva diventare qualcosa in grado di gasarmi come ben poco altro.

I personaggi sono tutti abbastanza ben fatti. Non sono eccezionali ma rimangono impressi, non hanno grossi sviluppi psicologici (a parte Yusuke, che invece cresce e diventa più responsabile e meno menefreghista con il procedere della storia) ma restano coerenti con sé stessi. Come ho accennato prima, invece gli antagonisti sono abbastanza variabili. Quelli principali sono più o meno bene approfonditi, Toguro meno degli altri ma Sensui e i suoi uomini vanno bene. Gli avversari del torneo delle tenebre, a parte qualche caso sparuto, sono abbastanza anonimi, e destinati a essere dimenticati dopo tre pagine dalla loro sconfitta. Invece ho apprezzato molto i tre re dell’ultima saga, perché tutti e tre sono ben caratterizzati e tra le altre cose sfuggono a una vera categorizzazione morale. Quando vengono presentati potrebbe essere immediato, basandosi sui loro ideali, individuare il re con cui si allea Yusuke come quello buono, quello con cui si allea Kurama come quello un po’ neutrale che però non cadrà mai nella malvagità, e quello con cui si allea Hiei come il cattivo. In realtà non è così, nel senso che l’alleato di Kurama si rivelerà un personaggio subdolo e manipolatore (ma avrà anche momenti in cui manifesta una inaspettata dolcezza, rivolgendosi al figlio), e che l’alleato di Hiei, nonostante ripeto i suoi ideali deprecabili, mostrerà di possedere una sensibilità molto umana, e il lettore non potrà fare a meno di provare un po’ di pietà per lei. Insomma, i personaggi introdotti nella terza saga sono complessi e grigi. Certo, anche qua posso dire che se la saga fosse stata più lunga questo approfondimento psicologici sarebbe potuto essere narrato in modo più disteso e meno compresso. Ma va bé.

La morigerata mamma di Yusuke.
E poi c’è quello per cui Yu degli spettri è famoso. La nota dolente. Il finale. Non farò spoiler, ma posso parlarne in linea generale, visto che è noto, almeno in sintesi, qual è il problema. In sostanza, a metà della terza saga Togashi interrompe la narrazione, si prende un capitolo in cui i personaggi si raccontano a voce quello che è successo dove la storia si è interrotta, seguono alcuni capitoli riempitivi e poi c’è il finale. Tra l’altro, leggendo il capitolo-riassuntone di cui dicevo mi sono mangiato le mani, perché cavolo, vengono dette un sacco di cose interessanti, che in pratica sconvolgono gran parte di quello che sapevamo sui rapporti tra il mondo spirituale e quello degli spettri, ma appunto sono raccontate. Avrebbero potuto costituire degli ottimi colpi di scena, movimentando ancora di più il finale della saga dei tre re, così invece suonano soltanto come un’occasione sprecata.

Poi va bé, la ragione di questa interruzione improvvisa è che Togashi era troppo stressato dai tempi di pubblicazione e non riusciva più a reggerli, e quindi ha deciso di piantare tutto lì dando un finale raffazzonato. In realtà il fatto che la terza saga fosse molto rapida è indice che già da tempo Togashi cominciava a soffrire la pubblicazione, quindi è probabile che questa drastica decisione sia esito di un’accumulazione di problemi che durava da un bel po’. È un peccato che sia finita così, perché, come non finirò mai di ripetere, avrei adorato leggere la saga nella sua interezza e narrata senza fretta, ma tant’è, non possiamo certo lamentarci se Togashi stava male. Certo, poi non dobbiamo stupirci se con Hunter x Hunter è diventato uno dei Quattro Re delle Pause, viste le premesse sarebbe stato stupido aspettarci altro.

L’ultimo capitolo comunque non è male, anzi, è riuscito a commuovermi a sufficienza (non tanto per la faccenda dei colori dei pulsanti che ho trovato un po’ tanto mielosa) quanto per via delle ultimissime pagine e in particolare dell’ultima, che mi ha dato un forte senso di malinconia, mi ha fatto davvero sentire che la storia stava finendo e che a me quella storia mancava. È un po’ lo stesso senso di malinconia che si respira spesso nei primi due volumi, ma qui arricchito dalla consapevolezza che si sta per girare l’ultima pagina. Per cui mi è piaciuto e, nonostante i capitoli che lo precedono non siano proprio il massimo, merita molto.

IN CONCLUSIONE


Yu degli spettri è un manga in crescita, che all’inizio (primi due volumi esclusi) non riesce a colpire ma poi piano si sviluppa sempre di più, si distacca sempre di più dal modello sempre più scomodo di Dragon Ball e riesce a creare qualcosa di meritevole. Perciò ho deciso di valutare questa evoluzione, più che l’impatto complessivo che ha avuto la lettura. Del resto, questa parabola  ascendente è talmente evidente e importante nell’economia della trama che è impossibile non tenerne conto. Perciò vi consiglio di leggerlo, in particolare se vi piacciono gli shonen non sarete delusi, anche se magari all’inizio potrebbe non sembrare.

IL GIUDIZIO DI HISOKA:

mercoledì 12 ottobre 2016

Recensione - Harry Potter e la maledizione dell'erede di J.K. Rowling, John Tiffany e Jack Thorne

Pare che esista una sorta di incompatibilità tra questo blog e J.K. Rowling. È già la seconda volta che leggo qualcosa di suo in questo periodo, ed è la seconda volta che mi trovo a chiedermi se recensirlo come un normale romanzo oppure no. Con Racconti di Hogwarts avevo deciso di rinunciare, perché in effetti con romanzi o racconti non avevano nulla a che fare. Con La maledizione dell’erede sono stato in dubbio e alla fine ho deciso che sì, sarà recensito come un romanzo, quindi dotato di articolo suddiviso in parti, Cthulhu e quant’altro. Perché questa scelta? Perché posso adattare facilmente certi criteri che uso nel valutare la prosa narrativa anche nel valutare uno spettacolo teatrale, in particolare questo spettacolo teatrale.

Fatta questa premessa, vediamo che cosa ha da offrirci Harry Potter e la maledizione dell’erede, e vediamo anche di rispondere alla domanda cruciale che avrà certamente attraversato le teste di tutti, ovvero “questo ottavo libro vale davvero qualcosa oppure è semplicemente un metodo per spremere ancora la grassa e succosa gallina dalle uova d’oro chiamata Harry Potter?”.

Harry Potter. Dallo sguardo si capisce che non gli piace essere spremuto.
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Titolo: Harry Potter e la maledizione dell’erede
Autore: J.K. Rowling, Jack Thorne e John Tiffany
Anno: 2016                                                                       
Editore: Salani
Pagine: 357




TRAMA

Il libro comincia poco prima della fine de I doni della morte, ovvero al momento della partenza di Albus Potter, figlio di Harry e Ginny, per il suo primo anno a Hogwarts. Il ragazzino manifesta il timore di finire nella casa di Serpevederde, e viene rassicurato da suo padre. Parte poi sull’espresso per Hogwarts, accompagnato dalla cugina Rose, figlia di Ron ed Hermione, anche lei al primo anno.

A Hogwarts, i peggiori timori di Albus vengono realizzati: il cappello parlante lo colloca nella casa di Serpeverde. Da questo momento cominceranno i guai per Albus: costretto a vivere portando sulle spalle il peso oneroso della grandezza del padre, sentendosi costantemente insoddisfatto di sé, dovrà affrontare gli anni a scuola accompagnato solo da un inaspettato amico, Scorpius Malfoy, figlio di Draco, e, nel tentativo di superare le proprie difficoltà con il padre e con sé stesso, metterà mano in faccende importanti del Ministero della Magia che non avrebbe dovuto conoscere, incontrerà la cugina di Cedric Diggory, Delphine, che lo aiuterà nella ricerca e finirà per cacciarsi in situazioni molto più grosse di lui. Tutto questo per cambiare le cose, per salvare “l’altro” dall’oblio.

J.K Rowling felice di aver pubblicato il libro.

LA MIA OPINIONE


La prima cosa che non va dimenticata quando si legge La maledizione dell’erede è che siamo di fronte al copione di uno spettacolo teatrale. Può sembrare scontato, ma vale la pena ricordarlo, perché a volte è forte la tentazione di berciare contro quello che sta succedendo dimenticando che, se in un romanzo certe cose non hanno senso, in uno spettacolo ne hanno molto di più. Tipo, è facile lamentarsi del fatto che gli scontri sono deprimenti e che anche antagonisti importanti vengono liquidati con qualche incantesimo. Appunto, non scordiamo che quello che abbiamo di fronte è pensato per essere rappresentato su un palco. Quindi è vero che è brutto leggere duelli magici che consistono solo alcune battute composte solo da incantesimi e poi puf il nemico ha perso, ma è altrettanto vero che a teatro quella scena renderebbe sicuramente molto meglio, perché avremmo una rappresentazione molto più precisa (e quindi più coinvolgente) della battaglia. Oppure, ha poco senso lamentarsi del fatto che Albus e Scorpius lancino di fronte a tutti incantesimi che non dovrebbe vedere  nessuno. Siamo a teatro, durante la rappresentazione sicuramente gli attori prenderanno una posizione distante dagli altri personaggi sul palco, come se questi non li potessero vedere. Ma ovviamente sono cose che non vengono riportare nel copione.

Detto questo, c’è anche un altro fatto che vale la pena chiarire. La maledizione dell’erede è stato presentato come l’ottavo libro della saga, e secondo me questo è stato un errore, come del resto era stato un errore presentare Racconti di Hogwarts come dei racconti. La maledizione dell’erede non è l’ottavo libro di Harry Potter, tanto per cominciare perché appunto non è un libro ma uno spettacolo, la versione cartacea è stata pubblicata, secondo me, con lo scopo di vendere sull’onda della fama di essere un sequel. Il fatto che abbia la forma di libro non lo qualifica come seguito ufficiale, perché il seguito ufficiale non potrebbe che essere un romanzo, in quanto manterrebbe la struttura e la forma della saga originale. Questo al massimo può essere un’opera derivativa che ne continua la storia in una certa direzione. Accettabile e sensato. Ma non vendetemelo come ottavo libro.

Altra cosa, il nome della Rowling appare tra gli autori, ma a lei appartiene solo l’idea originale. Non sappiamo quindi quanto nella stesura che possediamo ci sia di suo e quanto invece sia un apporto degli altri due autori. Io credo che della Rowling ci sia ben poco, non fosse altro perché diverse scene de La maledizione dell’erede scimmiottano parti degli altri sette libri. E non mi pare che la Rowling lo farebbe, non ne ha la necessità né le manca l’inventiva sufficiente per creare qualcosa di nuovo.

Ron ha paura di ciò che sto per scrivere.
E già che siamo finiti in argomento, una delle cose che più mi ha fatto storcere il naso è stato questo eccessivo rifarsi a situazioni già viste negli altri libri. Sembra quasi che gli autori avessero paura che la storia non avrebbe catturato e allora hanno cercato di infarcirla di quante autocitazioni possibili, per rassicurare i lettori, perché hanno apprezzato la prima volta quindi apprezzeranno di nuovo. E quindi abbiamo [SPOILER] Albus, Scorpius e Delphini che si infiltrano nel ministero della magia usando la pozione polisucco, come ne I doni della morte. E questo è solo un esempio. L’altro momento paradigmatico in questo senso che mi viene in mente è il duello tra Harry e Malfoy a casa Potter: da un Harry arrabbiato, preoccupato e che è appena stato provocato ci si aspetterebbe che, quando Malfoy dichiara di volergli fare del male, si difendesse con la dovuta aggressività. E invece no, lancia un tarantallegra, come a scimmiottare il duello ne La camera dei segreti. È una cosa stupida, tra l’altro sono quasi centocinquanta pagine che seguiamo Harry quando succede questa cosa, sappiamo che ormai è duro e pronto a tutto, non sarebbe incoerente vederlo Schiantare Malfoy, e soprattutto sarebbe logico. Ma smettila, vai col tarantellegra, che se copiamo un po’ gli altri libri magari alla gente piace![SPOILER]

Ci sono poi tutta una serie di momenti che semplicemente sono stupidi e insensati, che pasticciano la trama e danno parecchio fastidio. Uno su tutti può essere la scena dell’infiltramento al ministero, in cui l’antifurto dell’ufficio del Ministro della Magia è basato su un sistema che all’apparenza protegge la GiraTempo mentre come effetto collaterale conduce il potenziale ladro al suo nascondiglio. Molto utile, davvero molto utile! Ma usare uno dei tanti incantesimi di sorveglianza e individuazione dei nemici mostrati nel settimo libro era troppo intelligente? Era proprio necessario complicarsi la vita con un sistema così stupido? Tra l’altro, questa scena prende due piccioni con una fava perché presenta anche uno scimmiottamento degli altri libri, in particolare della scena dell’indovinello ne Il calice di fuoco. Anche qui ci sono degli indovinelli da risolvere, ma nulla a che vedere con quello della sfinge, e la sensazione che si prova è quella di una brutta copia degli eventi passati.
Il momento più assurdo di tutti lo metto sotto spoiler, ma merita moltissimo. [SPOILER] A un certo punto Scorpius e Albus decidono di salvare Cedric Diggory dalla morte usando la GiraTempo. Che è un’idea che io ho trovato adatta ai personaggi, un po’ esagerata ma va bene. Per realizzare il loro piano decidono di presentarsi alla prima prova e farlo uscire dal torneo. Che è una cosa stupida perché a) più che farlo uscire al massimo gli fai prendere pochi punti e b) perché Cedric incontra Voldemort alla terza prova! La cosa più logica sarebbe stata presentarsi dieci minuti dopo l’inizio della terza prova, tirare una bastonata in testa a Cedric e sparare scintille rosse per farlo venire a prendere e dichiarare fuori gara. E invece va bé, non va così e quindi Scorpius e Albus combinano un guaio inutile dietro l’altro. Almeno la loro scelta stupida ha delle conseguenze.[SPOILER]

A Malfoy non piace la mia recensione.
Ci sono poi un paio di altre cose che non mi sono piaciute. Si tratta di un giudizio abbastanza personale in questo caso, perché ci sono delle scene che ho trovato semplicemente fuori luogo, o comunque non da Harry Potter. Tipo la scena della vecchia del treno. Dai, quando mai la Rowling avrebbe pensato una cosa del genere? Se avesse mai dovuto parlare dei sistemi di prevenzione della fuga degli studenti dall’Espresso per Hogwarts si sarebbe inventata qualcosa di completamente diverso, un sistema di antifurto a metà tra il serio e il comico che sarebbe stato spiegato facendo ironia sui suoi effetti sulle persone. Tipo la linea dell’età, una cosa del genere. La soluzione mostrata ne La maledizione dell’erede è fin troppo seria e “spaventosa” per una situazione di questo tipo. E tra l’altro va bé, considerando che Albus e Scorpius, che sono due pivelli, le sfuggono senza alcun problema, suona proprio temibile questa vecchia del treno.

O anche, sempre per restare nel campo delle cose-che-non-sono-male-di-per-sé-ma-che-la-Rowling-non-avrebbe-mai-fatto-neanche-sotto-tortura, si può parlare dei mestieri che svolgono i personaggi principali della serie. Girando su internet tempo fa avevo trovato riportate le dichiarazioni della Rowling di una decina di anni fa sulle cose che avrebbero fatto i personaggi dopo il settimo libro, e una gran parte di queste cose mi era piaciuta. Ecco, La maledizione dell’erede si distacca in maniera molto marcata da tutto ciò e inventa per conto suo. E secondo me inventa male. Tipo, Harry capo dell’Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia? Ma Harry doveva diventare auror, quanto ci abbiamo sperato tutti e quanto ci ha appassionato la scena dei colloqui del quinto libro in cui la McGranitt dichiara che farà diventare Harry auror anche a costo di farlo studiare di notte? Poi abbiamo Ron direttore dei Tiri Vispi Weasley, che non ha un senso che sia uno, e Hermione Ministro della Magia, che anche lì io non ce la vedo per niente (e infatti mi pare di ricordare che la Rowling avesse dichiarato che avrebbe lavorato nell’Ufficio Regolazione e Controllo delle Creature Magiche, segno che neppure lei ce la vedeva). Insomma, sono soluzioni che non trovo per nulla adatte alla caratterizzazione dei personaggi e a quanto detto nei sette libri precedenti, e che di base non stanno bene con tutto il resto.

C’è qualcosa che può redimere La maledizione del’erede? Perché finora ne ho parlato male, parrebbe quasi che sia un libro tutto da buttare via. E invece no, ci sono delle buone cose, che poi sono quelle che mi hanno portato a dare una valutazione sufficiente. I personaggi sono pensati e realizzati molto bene, davvero molto bene. Rose è la figlia di Hermione e si vede, hanno caratteri simili ma la prima è più rigida, a causa direi io della sua giovane età. Harry, Ron ed Hermione sono diversi da com’erano negli altri libri ma è comprensibile, sono passati diciannove anni, sono anche cresciuti. Tuttavia resta in loro qualcosa di come li conoscevamo noi, e questo per me è sufficiente.

J.K. Rowling triste. Notare l'espressione completamente diversa da quella felice.
La vera rivelazione del libro sono comunque Scorpius e Albus. Sono ottimi personaggi, ben caratterizzati, credibili e interessanti. È difficile non farseli stare simpatici e non farsi coinvolgere subito dalle loro vicende. Inoltre il loro rapporto di amicizia è gestito benissimo: non è qualcosa di imposto o artificioso, è sincero e spontaneo, tant’è vero che hanno anche dei momenti di scontro, e quei momenti in realtà riescono poi a renderli ancora più affiatati dopo. Entrambi hanno problemi con i padri, entrambi sono degli esclusi, anche se per motivi diversi, e questo li porta naturalmente a fare amicizia. Sì, naturale è la parola che meglio descrive il tutto.

Anche il rapporto padre e figlio è ben gestito, sia quello tra Harry e Albus che quello tra Scorpius e Draco. Alla fine questo è il tema principale della storia, come i figli si sentano adombrati dai padri e come i padri scarichino su di loro i propri bisogni. Attraverso le vicende sia gli uni che gli altri potranno crescere e superare queste difficoltà, andando a consolidare il proprio rapporto. In breve, sotto questo aspetto non ho nulla da contestare, anzi, complimenti!

Vale la pena poi dire che ci sono un paio di momenti malinconici decisamente ben riusciti. Sono pochi, ma ben realizzati, e vale la pena nominarli.

IN CONCLUSIONE


Harry Potter e la maledizione dell’erede è stato presentato come l’ottavo capitolo della saga, ma non vuole esserlo e anche se volesse comunque non riuscirebbe. Ha difetti di trama notevoli e scimmiotta troppo i libri precedenti, e riesce a salvarsi solo grazie all’ottimo lavoro fatto sui personaggi. Quindi non mi sento di sconsigliarlo, anche perché ci vuole veramente pochissimo tempo per leggerlo, però indubbiamente non aspettatevi un capolavoro, perché non lo è.


VOTO:

Poeti elegiaci - Una nota a "Storia della Poesia Latina" di Luca Canali

La settimana scorsa ho comprato Storia della poesia latina di Luca Canali. L’ho fatto perché ricominciare l’università mi uccide dentro, mi provoca un drastico calo della voglia di vivere e quindi mi spinge a lanciarmi nel mondo in cerca di qualcosa che possa in qualche modo riempire questo vuoto interiore, conscio che non ce la farò mai. Ok, l’ho comprato perché mi andava. Circa la stessa cosa.

Dopo averlo comprato l’ho anche letto (ma guardate un po’, non lo avreste mai immaginato, vero?). La mia non è stata una lettura dalla prima all’ultima pagina, ho semplicemente selezionato volta per volta gli argomenti che mi interessavano di più e ho letto il capitolo che li riguardava. Quello che mi interessava del resto non era una mera conoscenza della letteratura latina (conoscenza che possiedo a un livello adeguato), quanto una diversa interpretazione critica di certi autori o di certe opere. Bé, per la maggior parte non l’ho avuta, ma soltanto perché, contrariamente a quello che pensavo, Storia della poesia latina ha un approccio molto scolastico e poco critico, e dunque mal si presta di per sé a soddisfare quelle che                                                     erano le mie esigenze.

È da dire che qualche elemento di critica però è presente, e proprio di questo vorrei parlare adesso. C'é stata una frase che mi ha lasciato particolarmente perplesso, e ho pensato che potesse valere la pena spendere qualche parola al riguardo. Con questo non voglio negare il valore dell'opinione di Canali: del resto c'è un motivo se lui é uno studioso di successo mentre io sono un signor nessuno. Quindi non é che voglio convincere qualcuno che io sono meglio di lui né l'ho mai pensato. É solo che io ho la mia opinione, diversa dalla sua, e penso che sia utile parlarne. Se non altro per dare un ulteriore spunto di riflessione a chi sta perdendo il suo tempo a leggermi.

Ci troviamo nel capitolo dedicato ai poeti elegiaci di età augustea. Dopo una breve introduzione, nella quale vengono presentati Tibullo, Properzio e Ovidio, Canali si sofferma su un discorso molto generale sulle coordinate in cui si sviluppa la loro poesia, e fa l’affermazione di cui parlavo prima e che dà spunto a tutto questo articolo. Dice che si nota in particolare in Ovidio (e un po’ meno in Properzio, anche se questa caratteristica riguarda tutti gli elegiaci di quest’epoca) come lo sforzo di questi poeti sia inferiore a quello fatto dai poeti dell’età precedente, e cita a questo proposito Virgilio, Orazio e Catullo. In sostanza, dice che gli elegiaci scrivono poesia con una maggiore libertà e comodità dei loro predecessori poiché questi ultimi hanno già spianato loro la strada.

Ecco, nel rispetto dell’idea di Canali, io non sono per nulla d’accordo. Che cosa significa che lo sforzo è minore per i poeti ai quali la strada è già spianata? Sembra quasi che vengano trascurate tutte le operazioni squisitamente letterarie compiute da Ovidio e Properzio (ok, Tibullo è più carente sotto questo punto di vista, ma carente non significa mancante del tutto), che la poesia degli elegiaci corra su sentieri già aperti e che quindi possono essere percorsi agevolmente. Sembra quasi che le loro opere seguano percorsi canonici e non abbiano una propria forma e un proprio carattere perché hanno già ricevuto la pappa fatta, sembra che a loro basti adagiarsi sulle conquiste dei predecessori e non andare oltre.

Un sentiero. Io non vedo poesie elegiache che ci corrono, e voi?
In realtà non è così, e Ovidio ne è un esempio lampante. Non esiste momento della produzione ovidiana nel quale il poeta non cerchi il confronto con la tradizione per prenderne le distanze, per migliorarla o per parodiarla. È famoso il verso del secondo libro dei Tristia in cui il celebre verso dell’Eneide “arma virumque cano” viene modificato in “[il soggetto è Virgilio]contulit in Tyrios arma virumque toros”. Questo è solo un esempio, ma come dicevo tutta l’opera ovidiana è un dialogo con la tradizione e, oltre a questo, è un continuo gioco di identità e confusione tra la figura dell’autore e il suo libro. Se nell’epigramma di proemio agli Amores a prendere la parola sono i libri stessi, identificati come un’entità a sé stante, nelle Metamorfosi si realizza l’esatto opposto, e infatti, unendo il verso iniziale con quello finale, si realizza la trasformazione dell’autore nella sua opera, simbolo della gloria imperitura che questa gli fornirà, e del fatto che sarà sua traccia sulla terra anche dopo la morte. Ecco, tutto questo per mostrare che in Ovidio non esiste distensione, non esiste tranquillità, non esiste il seguire la strada spianata dagli autori che lo precedevano. Esiste al contrario una costante tensione verso il cambiamento, un costante sperimentalismo nel tentativo di superare le barriere e i limiti dei generi letterari e della morale di cui questi erano impregnati.

Lo sforzo di Ovidio è grande e se non maggiore uguale a quello dei suoi predecessori, ma orientato in un’ottica completamente diversa. Dove Virgilio, per esempio nelle Bucoliche, doveva prendere un genere (la poesia bucolica) che non era mai stato frequentato nella letteratura latina (con l’esclusione di qualche tentativo in ambiente preneoterico) ed elevarlo a dignità di opera letteraria tramite la sua abilità poetica e un uso sapiente dei modelli, il lavoro che Ovidio si trova di fronte è quasi l’opposto. Virgilio non aveva antecedenti illustri nella letteratura latina, non aveva qualcuno da superare, non nella sua lingua almeno. Possiamo dire che lo sforzo di Virgilio è finalizzato ad una gara dove è l’unico partecipante, e il suo fine non è quindi tanto vincere quanto realizzare qualcosa di grande. Ovidio invece ha già un illustre avversario da superare, non è più da solo a gareggiare. Il suo scopo quindi è vincere, realizzare qualcosa di ancora più grande di ciò che ha fatto chi è venuto prima di lui.

Coi tempi che corrono Virgilio è dovuto diventare un informatico.
In questo senso vanno tutti i suoi esperimenti, tutta la letterarietà che permea l’intera sua opera, tutta l’ironia, tutte le citazioni. Sono modi per stravolgere la materia, modificarla, arricchirla, adattarla al suo gusto e al suo sentire per renderla ancora migliore di ciò che è passato. Dire quindi che in Ovidio che “l’impegno” viene meno, che si registra una sorta di tranquillità compositiva che risiede nel fatto che i generi letterari sono stati già canonizzati significa non comprendere o ignorare la diversità dello sforzo del poeta rispetto ai suoi predecessori, significa trascurare il significato ultimo dell'intera produzione ovidiana, e darne una visione semplificata o parziale.

Un discorso molto simile si può fare per Properzio. Properzio é un poeta d'amore, e l'intera sua opera (che consta di quattro libri di elegie) é dedicata alla figura di una donna amata, Cinzia. All'apparenza i caratteri della poesia properziana possono sembrare canonici, standardizzati, fondamentalmente poco originali e artificiali. In realtà, se anche é vero che i topoi della poesia elegiaca vengono rispettati e riutilizzati in modo preciso, é altrettanto vero che Properzio é il primo poeta elegiaco ad avere consapevolezza della propria grandezza letteraria. Anche Catullo aveva scritto elegie, ma l'elegia catulliana é, passatemi il termine, ingenua. Nel senso che é scritta senza che l'autore si renda conto dell'apporto che sta dando alla letteratura latina, e che utilizza momenti tipici e canonizza certe situazioni senza né la volontà né la consapevolezza di farlo. A Properzio accade invece il contrario, Properzio vuole compiere un'operazione tutta letteraria nelle sue elegie. Vuole usare apposta un linguaggio prezioso, vuole ornare la sua poesia con citazioni e riferimenti colti e di difficile riconoscimento perché vuole dare un certo tono alla sua produzione. Nella prima elegia del terzo libro non a caso si proclama il Callimaco romano, perché ha la piena consapevolezza di stare svolgendo un'operazione mai compiuta prima: coniugare la tradizione romana dell'elegia (che aveva tema essenzialmente amoroso) con quella greca (che aveva tema di solito erudito e che, pur parlando anche se non sempre d'amore, era ricca di riferimenti difficili e spesso si occupava di spiegare l'origine di luoghi, nomi o tradizioni), di cui Callimaco era senz'altro il principale e più illustre esponente.

Anche per Properzio dunque non si può parlare di strada spianata, anzi. Il compito che il poeta si propone é quanto mai arduo ed elevato, e prevede la totale rifondazione di un genere già esistente per innalzare ulteriormente la sua dignità letteraria. Altro che libertà o agevolezza compositiva! Properzio compie uno sforzo per certi versi analogo a quello che Canali attribuisce ai poeti della generazione precedente, a Virglio, Catullo e Orazio. Sicuramente la sua poesia é difficile e laboriosa, non si adagia sugli allori di ciò che è stato fatto ma vuole cambiare, canonizzare ed elevarsi. Vuole divenire lo strumento profetico attraverso cui parla la reincarnazione del primo e più grande poeta di età ellenistica, vuole assurgere a nuova punta di diamante della letteratura latina. Del resto, una reincarnazione di Omero, del più grande poeta dell’età arcaica, c’era già stata a Roma. C’era già stato chi aveva fatto rivivere Teocrito, chi Saffo, chi Alceo, chi i tragici, ma chi facesse rivivere la grande poesia erudita ancora mancava.

E poi c'è anche chi ha fatto rivivere lui...
Insomma, anche in Properzio l’impegno è notevole, è denso di letterarietà, è consapevole ed elevato. Non si può dire lo stesso forse per Tibullo, il quale in effetti non presenta all’interno della sua produzione nessuna consapevolezza di letterarietà, nessuna intenzione di originalità o volontà di cambiamento. È forse per lui più valida l’affermazione di Canali, anche se va sottolineato che tutto il mondo poetico di Tibullo nasce in seguito alla sperimentazione di contaminazione dei generi operata da Virgilio. E questo, se a prima vista potrebbe sembrare un’ulteriore conferma del fatto che Tibullo navighi su acque sicure perché già sperimentate in passato, mostra anche come ci sia stato anche da parte sua un lavoro nei generi: ha preso un elemento di originalità e lo ha spinto al massimo, declinandolo in più modi possibile, e ne ha fatto il nucleo fondante della propria produzione. Vediamo anche qui uno sforzo verso l’originalità, un movimento verso sentieri non del tutto esplorati, anche se meno definito che negli altri due poeti.

Alla luce di tutto ciò, credo che quello che dicevo per Ovidio possa essere esteso per tutti i tre poeti elegiaci. Il loro impegno è diverso da quello dei poeti passati, non è più nel creare qualcosa di grande, ma qualcosa di più grande. E mi pare che ce l’abbiano fatta, chi in un modo chi in un altro, tutti e tre sono riusciti, con il loro lavoro, il loro sforzo e la loro grandezza poetica, a lasciare un segno di sé anche in noi, che ancora li apprezziamo e li leggiamo dopo più di duemila anni.

Tibullo se ne frega di questo cartello.
Che cosa posso dire infine? A me sembra che le cose stiano così, ed è una situazione un pochino differente da quella descritta in Storia della poesia latina. È anche vero che io ho tirato avanti per poco meno di duemila parole, mentre Canali spende appena qualche frasetta scarsa, quindi forse in una trattazione più approfondita le nostre idee non sarebbero state così divergenti. Non posso saperlo. Per quanto riguarda quale opinione sia più vicina al vero, non saprei. Forse una posizione mediana tra queste? Boh. Ai posteri l’ardua sentenza.


P.S. A parte l’argomento di questo post, ho trovato molto che per tutto il resto Storia della poesia latina sia un libro davvero ben fatto. Semplice, completo e diretto. Questo riconferma il grande talento che Canali possedeva!