domenica 29 maggio 2016

Recensione - La Chiamata dei Tre di Stephen King (Torre Nera #2)

Il Medio-mondo ci richiama a sé. È giunto il momento di abbandonare le nostre comode poltrone per sedere sulla sabbia del Mare Occidentale che brilla ai raggi di Luna. È giunto il momento di affidarsi da Fedeli Lettori (come io sono, e spero siate o sarete anche voi) alla fantasia di Stephen King, e calpestare ancora il suolo del sentiero che porta alla Torre Nera.

La Torre Nera quando ci abitava Saruman
L’altra volta il libro non aveva fatto una gran figura. Come siamo messi a questo giro? Scopriamolo subito. Seguiamo Roland nel secondo volume della saga, La chiamata dei tre.
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Titolo: La chiamata dei tre
Autore: Stephen King
Anno: 1987
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 345


 
TRAMA

La chiamata dei tre comincia esattamente dove era terminato L’ultimo cavaliere. Roland ha tenuto il suo conciliabolo con Walter l’uomo in nero e al suo risveglio lo ha trovato morto, ridotto a un mucchio d’ossa. Roland ha ancora in mente quello che Walter gli ha predetto, ovvero l’incontro con tre bizzarre figure: il Prigioniero (rappresentato sulle carte che Walter ha usato per la sua predizione come un uomo con una scimmia avvinghiata al collo), la Signora delle Ombre (rappresentata come una donna con due volti) e infine la Morte, “ma non per te, pistolero”, come sottolinea l’uomo in nero.

Dicevo, Roland si sveglia sulle rive del Mare Occidentale e viene aggredito da un mostro simile a un astice, battezzato aramostra. La battaglia, che vede vincitore il pistolero, lo priva però di alcune dita della mano destra.

Proseguendo lungo la spiaggia, Roland trova una porta, con sopra scritto “Il prigioniero”. Questo è il primo dei tre varchi che Roland troverà nel libro, varchi che lo conducono nel nostro mondo in tempi e luoghi diversi. Ciascuna porta fa arrivare Roland presso la persona che è destinata a seguirlo nel suo cammino: prima il Prigioniero quindi, poi la Signora delle Ombre e infine la Morte. E La chiamata dei tre è proprio il racconto dei viaggi di Roland nel nostro mondo per raccogliere i suoi futuri compagni.

LA MIA OPINIONE


Se L’ultimo cavaliere è il libro che introduce la storia, La chiamata dei tre è quello invece che presenta la maggior parte dei personaggi comprimari. Qui dunque la trama più che svilupparsi si amplia. Roland si avvicina ben poco alla Torre Nera; più che altro si va a delineare il gruppo di personaggi che sarà protagonisti dei libri successivi.

E già da qui si può notare la prima grande differenza rispetto a L’ultimo cavaliere, dove Roland è da solo (oppure insieme a personaggi dello spessore di un foglio di carta) per praticamente tutto il tempo: ne La chiamata dei tre gli vengono affiancati altri personaggi. E questo significa che l’attenzione si focalizza non solo sul pistolero, ma anche su di loro. Che non può essere che qualcosa di positivo.
Un'aramostra in un cameo in Hunter x Hunter

Avevo detto l’altra volta che Roland era alla fin fine uno stereotipo antipatico. Bé, il Roland di questo volume ha una grossa crescita e cambia molto rispetto a quello de L’ultimo cavaliere. Non siamo ai livelli dei libri successivi, ma ovviamente come ogni cambiamento anche quello di Roland è graduale.

Che cosa origina questo cambiamento? Principalmente il fatto che il pistolero si trovi a dover convivere con personaggi che non sono buttati lì a caso senza un carattere come nel libro precedente ma con personaggi veri, complessi e anche molto diversi da lui.

Per cui sì, i personaggi sono il primo grande pregio de La chiamata dei tre. Sono davvero approfonditi, non sono né macchiette né stereotipi, né sono antipatici o banali. Sono personaggi con una storia e un passato che li ha influenzati, sono personaggi veri, concreti, vivi. Sono i personaggi che mi aspetto da Stephen King.

I coprotagonisti che vengono introdotti sono due:Eddie Dean e Odetta Holmes. Non voglio entrare negli spoiler, ma qualche parola su entrambi è d’obbligo.

Eddie Dean è un dipendente, dipendente tanto dall’eroina quanto da suo fratello Henry, anche lui eroinomane. È da tutta la vita che a Eddie è stato ripetuto di essere inferiore a suo fratello, e di dovergli molto, poiché si è sempre fatto in quattro per lui. Proprio per questo Eddie non ha mai tentato realmente di staccarsi da Henry, anzi, lo ha seguito in tutto, anche nei suoi vizi. Come appunto la droga. Sarà proprio l’intervento di Roland a far capitolare la sua vita fino a punti ai quali non avrebbe mai pensato. Come dicevo prima non dirò molto per evitare spoiler, basti sapere che le cose per Eddie precipiteranno a rotta di collo verso il peggio nel giro di meno di un giorno.

Eddie Dean prima di drogarsi faceva il cantante folk
Ecco, io adoro Eddie. Eddie è simpatico, diretto, un po’ scorbutico, cocciuto, e anche discretamente intelligente. Eddie ha sempre la battuta pronta, è davvero pieno di risorse, e possiede una buona dose di coraggio. Ha un linguaggio tutto suo, adora inventare nomi strani e frasi a effetto. Eddie è un personaggio che non mi  è stato simpatico fin dall’inizio, sulle prime lo trovavo un po’ asettico e fondamentalmente anche un po’ stupido. E per certi aspetti sulle prime appare così. Ma mano a mano che lo si conosce basta poco a trovarne i lati positivi. Alla fine, posso dire che tra i personaggi di tutti i libri Eddie sia in assoluto il mio preferito, quello che è sempre in grado di farmi sorridere appena apre bocca.

Eddie è anche il responsabile dell’inizio del cambiamento di Roland cui accenno poche righe sopra. Eddie è infatti profondamente diverso da Roland. Dove il pistolero è pragmatico (più volte di lui si dice che manca di immaginazione) e taciturno Eddie è sognatore e chiacchierone. Roland calcola quello che dice, Eddie parla spesso anche a vanvera. Roland ha un obiettivo che seguirà anche a costo della vita e dei forti valori, Eddie non sa bene dove dirigere la sua vita (e di conseguenza è anche ben poco incline a organizzare e a badare al futuro). Ecco, questo contrasto è un vero toccasana. Eddie bilancia Roland, il quale non solo appare meno antipatico perché limitato dal suo opposto, ma anche è costretto a mettere da parte molto spesso la sua arroganza per andare incontro al suo compagno, e per creare un legame con lui. C’è una scena nella quale è Roland stesso a dire a Eddie che si fida di lui al punto da sapere che, nonostante ne abbia l’occasione, non lo ucciderà. E lo dice a un Eddie che è appena stato trasportato in un altro mondo e il cui unico desiderio è tornare a casa a farsi una dose. Non è scontato per niente che la fiducia di Roland sia ben riposta. Di certo è un gesto che non ci si aspetta per niente dal personaggio che nel libro precedente aveva così tanto calore umano nei confronti degli altri da uccidere sessanta e passa persone senza neppure provare rimorso!

Il fratello di Eddie
Quindi non solo è un gran personaggio, ma aiuta anche Roland ad aprirsi agli altri e in questo modo lo rende un personaggio decisamente più piacevole. Lo rende quel personaggio che nei libri successivi riuscirà a guadagnarsi il rispetto non solo dei personaggi, ma anche del lettore (o almeno, il mio rispetto lo ha guadagnato). Il personaggio che ha reso anche un po’ mia la sua ricerca. Il personaggio con cui sono stato fin proprio alla fine.

L'altra new entry del libro è Odetta Holmes. Odetta viene dalla New York del  1964, ed è una ragazza nera e senza gambe. E si può facilmente capire che nell'America di quegli anni non se la passi  proprio benissimo.

Odetta è una persona  dolce, decisa e coraggiosa. Ha grande iniziativa e mette tutta sé stessa  in quello che fa, ha forti valori personali e ci crede intensamente. Ha anche una doppia seconda personalità, Detta Walker, che è una pazza furiosa  acida, astuta e cattiva con un forte odio verso i bianchi (che con inimitabile  grazia chiama “stinti cazzuti”) e che, oltre all'abitudine di compiere piccoli furti in gioiellerie e adescare  ragazzi bianchi per poi lasciarli nudi e con un palmo di naso nel momento clou dell'appuntamento, vorrebbe ammazzare più o meno tutte le persone che le si oppongono  o che la costringono a fare qualcosa (infatti nutre un odio profondo verso Roland, che l'ha trascinata  nel suo mondo contro la sua volontà). E quando si mette in testa che vuole ammazzarti è parecchio difficile farle cambiare idea. Così, tanto per gradire.

Odetta a prima vista pare essere caratterizzata in modo più abbozzato che Eddie. Ha una personalità, certo, ma è molto meno sfaccettata degli altri. Questo all'apparenza. E in realtà è un'impressione che ho avuto per i tre libri successivi. A tutto questo c'è un ma. Mi sono accorto dopo che fino al sesto libro le scene che sono narrate dal punto di suo punto di  vista sono in realtà pochissime.  È appunto da La canzone di Susannah che il point of view di Odetta comincia a essere utilizzato in modo costante. E infatti da La canzone di Susannah quell'impressione mi è sparita.

Perciò, l'unico motivo per cui Odetta appare meno sfaccettata di Eddie e Roland è soltanto perché ha in effetti molto meno spazio di loro  all'interno della narrazione.

Ah, Detta Walker è anche l'antagonista della seconda parte del romanzo. Scelta più che azzeccata, perché è un avversario davvero ostico da gestire per Roland ed Eddie. Se le ultime centocinquanta pagine del romanzo si sfogliano da sole è anche perché è davvero interessante scoprire che cosa farà e come i protagonisti potranno sconfiggerla.

Le aramostre nella vita privata
spaventano gente in mutande
Quindi sì, seguire le vicende di Roland, Eddie e Odetta è davvero interessante, anche perché, e questo è un grande pregio, i personaggi compiono scelte che non sono necessariamente le più intelligenti e sensate ma sono loro personali e proprie. Per esempio, a tre quarti della storia Eddie fa una cosa stupidissima che Roland aveva passato metà del tempo a dirgli di non fare. Eppure quando succede non ho pensato che Eddie fosse stupido o che. Ho pensato che visto il carattere di Eddie e visti gli eventi quella che prende è sicuramente la  decisione più naturale e coerente con la sua personalità. E questo non può che essere  indice di realismo e profondità del personaggio. E della solita ottima caratterizzazione.

Eddie e Odetta sono vivi. Non sono stereotipi, non sono perfetti. Sono persone con una storia, con i loro problemi, con le loro imperfezioni, le cose che amano e le cose che odiano. Sono personaggi con un passato e un presente difficile, che riescono a far sì che il lettore faccia anche un po' propria la loro storia. Sono persone che uno desidererebbe incontrare per strada. Io vorrei conoscere Eddie. Sono personaggi come Stephen King sa creare.

A questi personaggi così ben delineati si affianca una trama di livello altrettanto alto. E questo va positivamente contro le mie aspettative. Infatti, quando ho capito come si sarebbe svolto il romanzo (ovvero che sarebbe stato tutto incentrato su Roland che trova le tre porte e raccoglie i suoi compagni, la prima cosa che ho pensato è stata che il tutto sarebbe stato molto ripetitivo, con lo schema trovo una porta - entro - trovo il mio futuro compagno - questo ha un problema  - lo risolvo – mi segue. Ecco, sono stato piacevolmente sorpreso perché la principale caratteristica della trama è l'imprevedibilità. Non c'è nessun viaggio nel nostro mondo che sia uguale agli altri, non c'è nessun incontro con un futuro compagno che sia uguale agli altri, non c'è in sostanza nessuna situazione potenzialmente ripetitiva che di fatto lo diventi. A ogni pagina non si sa mai che cosa possa succedere la pagina successiva. La trama prende svolte imprevedibili spesso anche una dietro l'altra. Leggere diventa sinceramente un piacere. Voglio dire, in certi momenti leggevo e non riuscivo a staccarmene tanto non vedevo l'ora di sapere che cosa sarebbe successo. 

La chiamata dei tre (come suppongo ormai si sarà capito) è un romanzo di tutt'altro livello rispetto al suo predecessore. Dove L'ultimo cavaliere aveva una trama piatta La chiamata dei tre diventa imprevedibile e sorprendente. Dove il primo aveva personaggi piatti o mal caratterizzati il secondo trova in personaggi sfaccettati, realistici e coinvolgenti il suo punto di forza. Dove il primo non riusciva a coinvolgere il secondo presenta delle storie che non possono che coinvolgere il lettore fino a fargli credere di farne un po' parte anche lui. Dove il primo veniva bocciato, il secondo trionfa.

La scrittura è decente. Dal volume successivo crescerà decisamente, ma si mantiene  qui comunque su livelli più che discreti. È accettabile , anzi, forse, visti gli altri pregi, è l'elemento di livello un pochettino più basso. Ma resta comunque dignitosa e per nulla brutta. 

Qualcosa che non mi è piaciuto comunque c'è. Poca roba, ma comunque la segnalo.


[SPOILER] La storia d'amore tra Eddie e Odetta non è tirata. Di più. Dai, si conoscono da qualche giorno e tre quarti del tempo Odetta dormiva per lasciare spazio alla sua altra personalità, come cavolo fanno già ad amarsi in eterno forever and ever? Poteva decisamente essere resa meglio questa parte, si poteva aumentare lo spazio di risveglio di Odetta senza che la trama e la tensione ne perdessero troppo. Che poi se uno va a vedere loro due insieme non sono né eccessivamente melensi (a parte quando Odetta lo chiama zuccherino, che non so se sia una scelta del signor Dobner, traduttore anche di questo secondo volume, o sia King stesso che in inglese usa l'esatto corrispettivo di zuccherino, ma fatto sta che comunque è orrendo e inascoltabile come vezzeggiativo) né tirati per i capelli: si completano a vicenda e i loro caratteri stanno bene insieme. Quello che suona male non è la storia d'amore in sé, quanto il fatto che si parlino due ore e poi scoppi tra di loro l'Amore Imperituro che-non-ci-lasceremo-mai. [SPOILER] 

Poi c'è un piccolo momento che mi ha lasciato perplesso. È una frasetta, non va a influire nelll'economia del libro. Ma la dico lo stesso.

È notte. Roland sa che Detta tenterà di rubare le pistole  che ha Eddie. Vuole far sì che lei le rubi, ma sa che non lo farà mai finché lui dorme e se farà fintà non riuscirà mai a ingannarla. Perciò che fa? Questo:

Quando lo sguardo di lei si spostò su di lui, il pistolero non finse di dormire perché si sarebbe accorta dell'inganno: perciò si addormentò davvero. Quando sentì che guardava altrove si svegliò

Cioè, io non so come dorma Stephen King, ma davvero pensa che ci si possa addormentare e svegliare a comando?

Comunque, come dicevo, queste ultime cose che ho segnalato non mi hanno dato particolarmente fastidio. Sono note stonate in una sinfonia che per il resto funziona benissimo, quindi ha poco senso dar loro troppo peso.

"Finalmente una recensione positiva! Che bello!"

IN CONCLUSIONE


Ho già parlato a sufficienza, direi. Che altro resta da aggiungere? Che La chiamata dei tre è davvero un ottimo romanzo in sé, non solo se rapportato al suo predecessore. È un romanzo che conquista, che mette sulla scena situazioni dai risvolti imprevedibili e personaggi davvero ben caratterizzati. È il romanzo che mi aspettavo dallo stesso autore che ha scritto It, per esempio.  È davvero un'ottima lettura, non è neanche molto lungo e scivola via come se nulla fosse. Io l'ho letto in tre giorni, leggendo anche mentre aspettavo di essere interrogato per un esame (quando magari ci si aspetta che uno legga altre cose, tipo gli appunti che aveva studiato per la prima volta un'ora prima perché aveva dimenticato di farseli passare). Provatelo, anche se siete stati delusi dal volume precedente, ed entrerete con piacere nel mondo della Torre Nera.

VOTO:

domenica 15 maggio 2016

Recensione - Monster di Naoki Urasawa

All’inizio la mia idea era quella che il primo manga recensito sarebbe stato Chrno crusade (e sarebbe stata una bella strigliata a Daisuke Moriyama e al suo fumetto), poi mi sono detto che visto che già la sezione dedicata ai libri si era beccata come inizio una recensione negativa, almeno con i manga potevo cominciare con qualcosa di positivo. Anche perché recensire qualcosa che mi è piaciuto mi fa molto più piacere che parlare invece di qualcosa che non mi è piaciuto (e che come Chrno Crusade è riuscito a distruggere tutte le belle immagini dei miei ricordi). Perciò Chrno Crusade viene rimandato a data da destinarsi e parliamo invece di Monster, di Naoki Urasawa.
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Titolo: Monster
Autore: Naoki Urasawa
Anno: 1995
Volumi: 18
Editore: Planet Manga




TRAMA

La trama di Monster non è complicata. Di più. S’intreccia su di se, poi si attorciglia, poi si intreccia di nuovo, come il tronco di un olivo. Avete presente un quadro di Escher? Ecco. Mille volte peggio. Perciò, quella che spiegherò adesso è una versione molto semplificata e a grandi linee di quella che è la trama. Per la maggior parte attingerò dal primo volume, perché lì ancora il tutto si riesce a seguire bene e quindi può essere sintetizzato facilmente. 

Kenzo Tenma è un giovane e promettente chirurgo giapponese. Una persona seria, abile nel lavoro, soddisfatto della sua vita e innamorato della sua ragazza (che non solo è un’oca da far paura ma è anche la figlia del direttore della clinica dove Tenma lavora). Tenma tira avanti senza farsi troppe domande esistenziali, contentandosi di quello che riceve dalla vita, poco o tanto che sia, e mettendo una grandissima dose di costanza e dedizione nel suo lavoro di medico. 

È proprio il suo stesso mestiere, però, a rompere la serenità della sua vita, mettendolo di fronte a problemi nei quali non esiste una risposta giusta e una sbagliata. Nel momento della scelta, dunque, Tenma decide di restare ligio a quei principi che lo caratterizzano come medico e che lo hanno spinto a intraprendere quella professione (“tutte le vite hanno lo stesso valore”), e quando si trova a scegliere se operare un bambino in punto di morte oppure operare il sindaco, anch’egli in punto di morte, ma giunto alla clinica più tardi rispetto al bambino, sceglie, contro le speranze e la volontà di tutti i suoi superiori, di salvare il bambino.

Questo bambino, di nome Johan, è reduce da una brutta esperienza: la sera precedente i suoi genitori sono stati uccisi a colpi di pistola. La polizia brancola nel buio, e come se non bastasse la situazione si complica in seguito ad altri omicidi: vengono trovati avvelenati il primario di neurochirurgia, il vice dirigente e il dirigente della clinica dove lavora Tenma, che è stato severamente punito a causa della sua scelta di lasciar morire il sindaco e la cui carriera è perciò destinata a non decollare mai. Contemporaneamente, il bambino e la sorellina, ricoverata con lui, spariscono misteriosamente.

In seguito alla morte dei tre, Tenma ottiene una promozione. L’ispettore Lunge, incaricato di indagare sui tre omicidi, ha forti sospetti su Tenma, ma non riesce a trovare sufficienti prove per accusarlo.

Passano nove anni, nei quali Tenma continua il proprio mestiere e in tutta la Germania si verificano omicidi di coppie di anziani. Sarà nel tentare di risolvere questo caso che Tenma incontrerà di nuovo Johan, autore di questi delitti e di molti altri, e, sentendosi responsabile per averlo tenuto in vita, deciderà di partire in una lunga ricerca per porre rimedio al proprio “errore”. Una ricerca attraverso il passato di Johan e i suoi piani futuri, nel tentativo di scoprire chi realmente sia questo “mostro” che Tenma involontariamente ha tenuto in vita.
 
"Ti andrebbe un po' di Schweppes, solo io e te?"

LA MIA OPINIONE


Monster è un manga pieno di potenzialità. Un manga coinvolgente, che va letto tutto d’un fiato (come per la cronaca non ho fatto io, naturalmente), ma che vuole fare anche riflettere, che sa coniugare momenti più riflessivi e tranquilli con momenti incalzanti che non lasciano al lettore un attimo di respiro. 
Urasawa ha talento. Può piacere o non piacere perché un mangaka molto particolare, ma trovo che il suo talento sia innegabile.

Urasawa è un innanzitutto un ottimo disegnatore. Le sue tavole sono ricche e precise, e i suoi personaggi sono davvero ben caratterizzati fisicamente. Avete presente quei mangaka che utilizzano due o tre modelli per disegnare i protagonisti? Quelli i cui fumetti hanno poi personaggi tutti uguali salvo che per la pettinatura diversa? Ecco, dimenticateli completamente. Urasawa disegna ogni personaggio in modo diverso dagli altri, ciascuno con il proprio fisico e il proprio modo di vestire. Inoltre non ha il vizio di dimenticare un po’ troppo spesso gli sfondi (qualcuno ha detto Tite Kubo?). C’è poco da dire per quanto mi riguarda, i disegni sono promossi a pieni voti.
Tite Kubo al Lucca Comics 2015
L’effetto visivo in Monster è molto importante poiché, credo, è uno dei maggiori fattori che a volte proprio impedisce di staccarsi dalla lettura. Io come accennavo all’inizio ho impiegato diversi mesi a leggerlo, ma soltanto perché io sono pigro come non so che cosa ed era un periodo che con la lettura di manga non andavo molto d’accordo. Ma nel momento della lettura mi era impossibile fare come faccio spesso, ovvero leggere qualche pagina, fare dell’altro, leggere, fare dell’altro, eccetera. Dovevo leggere, perché ogni pagina tirava dietro l’altra. Quando finalmente mi è passata l’inerzia e mi è tornata la voglia di manga ho letto qualcosa come dodici volumi in quattro giorni. Che non sono molti, ma considerando che era il periodo che passavo le mie giornate a lezione (mica come ora, che ho più tempo libero che ho un pensionato), bé, credo che questo numero significhi molto. E, come dicevo, credo che il fattore visivo, ovvero sceneggiatura e disegni, sia ciò che rende la lettura così coinvolgente.

 E già che ci siamo, voglio dire qualcosa anche sulla sceneggiatura. Perché oltre al disegno, la sceneggiatura è ciò che in Monster salta più all’occhio. Perché è realizzata davvero molto bene.

Urasawa dimostra davvero una gestione sapiente delle immagini. Riesce a creare giochi di sguardi tra personaggi che non dicono nulla ma lasciano intendere, sa cosa mostrare e che cosa invece è meglio lasciare nell’ombra, per non rivelare troppo subito al lettore, sa quando interrompere una scena e quando poi riprenderla, per creare così la giusta dose di tensione, sa come impostare una vignetta in modo che sia bella da guardare e che contemporaneamente crei emozioni nel lettore. Inoltre, cosa che secondo me molti mangaka dovrebbero imparare, sa gestire i tempi della narrazione (a parte, come dirò poi, nel finale), cosicché non si ha mai la sensazione che le cose siano state fatte troppo di fretta. Mi è capitato spesso di rendermi conto che una storia non mi prendeva per il semplice fatto che tutto avveniva così velocemente che non riuscivo a starle al passo. Ecco, con Monster questo non mi è successo.

Ok, a volte Urasawa esagera nel senso opposto e la tira un po’ tanto per le lunghe. Ma tutto sommato succede relativamente poco, perciò possiamo tranquillamente perdonarlo.

A sinistra Kenzo Tenma. 
A destra di nuovo Kenzo Ten Naoki Urasawa.
E fin qui tutto rose e fiori. E in effetti, se si osserva Monster dal punto di vista puramente tecnico, dal punto di vista della padronanza di Urasawa degli strumenti narrativi e del disegno, direi che c’è ben poco che gli si può contestare. Dove secondo me arrivano i problemi è quando passiamo a parlare della trama. E non mi riferisco ai contenuti, anche se pure qua due parole bisognerebbe dirle, in particolare sul fatto che a volte (non spesso, a onor del vero) Urasawa decide che ha voglia di creare scene di tensione facili e allora fa fare ai personaggi cose stupide solo perché finiscano nei guai. È uno stratagemma un po’ pigro e anche inutile, visto che in tutto il resto del manga dimostra di non averne bisogno. 

Ma, dicevo, non mi riferisco in particolare ai contenuti. Il problema della trama e nel modo in cui viene presentata.

È chiaro che Urasawa voleva fare qualcosa di originale e innovativo, voleva raccontare una storia in un modo diverso, una storia che si focalizzasse sulle vicende personali di quei personaggi che poi sono più o meno protagonisti della trama principale. L’idea è sicuramente buona. Però, almeno per me, i risultati non lo sono altrettanto.

Infatti, per raccontare ogni evento Urasawa introduce un personaggio nuovo, e tramite il suo punto di vista introduce anche la nuova situazione in cui si evolve la trama. Fin qui nessun problema, è una strategia narrativa che può offrire diversi spunti, direte voi. E lo direi anche io. Se non fosse che la narrazione non comincia da quando le vicende del nuovo personaggio si intrecciano con la trama principale. Comincia molto ma molto ma molto prima. Non dico che ci venga raccontata anche l’infanzia dei personaggi, ma spesso ci voglio anche centinaia di pagine perché le vicende del singolo personaggio si ricolleghino con il plot, per avere poi magari minime conseguenze nel suo svolgersi! Mi è capitato diverse volte di domandarmi che cosa stesse succedendo, quale senso avesse quello che stavo leggendo nelle vicende di Johan e Tenma. Che poi il senso ce l’ha, è raro che Urasawa allunghi il brodo in maniera del tutto inutile, ma appunto, si impiegano magari dieci capitoli per introdurre un personaggio che alla fine della fiera ha un ruolo decisamente poco importante e suo il contributo per l’evolversi della trama non è fondamentale al punto da meritare così tanto spazio.

"I'm killing in the rain..."
Per questa ragione trovo difficile riassumere la trama dei volumi oltre il primo. Perché quello che c’è sul serio di rilevante e importante è mischiato in mezzo a moltissime altre informazioni che riguardano le sottotrame dei vari personaggi ma non quella di Tenma e Johan.

Che poi le diverse sottotrame si seguono davvero bene. A volte sono belle, altre volte meno, altre volte sono irritanti, ma il talento di Urasawa, come ripeterò fino alla nausea, le rende tutte molto coinvolgenti. Il problema vero è che il plot principale viene perso di vista un po’ troppo spesso, e questo disorienta il lettore. O almeno, ha senza dubbio disorientato me.

Diciamo che la principale impressione che ho avuto è che l’autore nel pensare la storia non sia stato in grado di definire bene ciò che sia utile e ciò che non lo sia. Che abbia semplicemente avuto molte idee, per la maggior parte buone e interessanti tra l’altro, e le abbia buttate giù, senza però pensare a un modo elegante e organico per presentarle. E quindi ha reso il tutto un po’ troppo dispersivo, almeno per i miei gusti. E questa è una delle principali ragioni per cui non posso considerare Monster il capolavoro che tutti dicono. È un fumetto con potenzialità e con un autore di talento a tirarne le fila. Ma non riesce a diventare un capolavoro.

La ragione principale per la quale la trama riesce comunque a piacere nonostante tutto quello che ho scritto sopra è che tutti (o quasi) i personaggi che vengono introdotti hanno una psicologia molto approfondita e una caratterizzazione davvero ben fatta. Tutti hanno un passato che li ha influenzati e li ha resi così come ora li vediamo, tutti agiscono in modo
Grimmer è felice, e si vede!
sensato e coerente con la loro personalità. Molti, anche se magari protagonisti di sottotrame che non sono proprio emozionanti, riescono comunque a fare breccia nel cuore del lettore. In molti casi mi sono trovato quasi più interessato alle vicende dei singoli personaggi piuttosto che alla trama generale (che comunque mano a mano che si va avanti diventa più sfumata). Di alcuni personaggi ho desiderato che sopravvivessero alle vicende in cui si trovavano coinvolti. Di qualcuno sono stato felice che morisse. Di qualcun altro mi è molto dispiaciuto. Nessuno però mi ha lasciato indifferente.


Se devo scegliere i personaggi che mi hanno colpito di più, direi Grimmer e Martin. Il primo è protagonista di alcune tra le scene migliori e più coinvolgenti dell’intero manga, il secondo appare per relativamente poco tempo ma è riuscito a imprimersi nella mia immaginazione più degli altri, sarà anche forse per il fatto che gli riconosco affinità di carattere con me. 

Martin, olio su tela
Una piccola menzione meritano anche i due personaggi principali, Johan e Tenma. Entrambi sono ben caratterizzati, Tenma serio, composto, ligio, individualista e molto autoreferenziale, e Johan, angelico, affascinante, misterioso e spietato. Nei primi volumi la figura di Tenma domina la scena, mentre via via che si prosegue l'attenzione si sposta maggiormente sugli altri personaggi, relegando spesso Tenma a comprimario che svolge un ruolo minore nella vicenda. E questo non può che giovare: Tenma è sì approfondito ma comunque non è in grado di catturare l'attenzione del lettore per ben 18 volumi; del resto, non ha alcuna maturazione psicologica: il Tenma dell'ultimo volume è uguale a quello del primo (questo discorso vale anche per Johan, comunque). Perciò focalizzare l'attenzione sui personaggi secondari, decisamente più in evoluzione, tiene viva l'attenzione. Leggere di personaggi che maturano è più interessante alla lunga di leggere di personaggi che rimangono uguali, per quanto caratterizzati bene siano.

Se i personaggi fossero stati più piatti o meno variegati credo che giungere alla fine sarebbe stato tutt’altro che semplice. Invece, così si riesce ad arrivare all’ultimo volume, sperando nel gran finale. Che non arriva.

L’ultimo volume è molto sottotono. Ha diverse parti che mi hanno emozionato, ma nel complesso risulta meno convincente degli altri, considerando pure che il capitolo finale, quello in cui vengono al pettine i nodi della trama principale, risolve tutto nel giro di pochissime pagine, che è francamente un po’ riduttivo per qualcosa che si trascina dietro da 17 e 200 pagine. Non dico che sia talmente breve da lasciare spiazzati (chi ha detto 20th Century Boys?), ma si poteva decisamente fare di meglio. 

"Mettete un Pulcherrimum! Ho una famiglia da mantenere!"

IN CONCLUSIONE


Alla fine di tutto, Monster è un thriller psicologico con diverse qualità, che tenta di usare una struttura narrativa originale, fallisce nel farlo e trasforma quello che poteva essere un pregio in un difetto che ne rende più complessa la lettura. Non è sicuramente da buttare via, anzi, a livello tecnico è valido, ha un messaggio (che ovviamente non dico, lo lascio da scoprire a chi ha voglia di leggersi il manga) e una gamma di personaggi davvero ben fatti. Si distingue sicuramente dalla media, ma non riesce ad andare molto oltre.

IL GIUDIZIO DI HISOKA:

martedì 3 maggio 2016

Antimaco editore di sé stesso? - Un'analisi di un frammento della Tebaide



Un'immagine di Callimaco
Poche figure hanno cambiato la cultura dei millenni successivi quanto ha fatto Callimaco di Cirene. Per noi questo colosso è poco più di un nome, perché di lui ci sono rimaste pochissime opere complete, nello specifico soltanto sei inni agli dèi e degli epigrammi (contro circa gli 800 libri che si racconta avesse composto). E ciò è paradossale perché, come dicevo all’inizio, senza di lui tutta la produzione letteraria in latino e anche in italiano non esisterebbe, o meglio, risulterebbe completamente diversa. 

 Callimaco com’è ovvio non si sveglia una mattina decidendo di rinnovare il modo di fare poesia, è figlio del suo tempo ma soprattutto del suo ruolo: è un giovane poeta cui viene affidato dalla corte tolemaica l’importantissimo compito di redigere il profilo degli autori delle opere di cui gli intellettuali della corte, nelle persone di Zenodoto, Licofrone e Alessandro Etolo, componevano una κδοσις (e cioè, per dirlo in modo molto semplicistico, il corrispondente delle edizioni critiche moderne). È perciò normale che egli voglia fondere il suo lavoro di studioso della letteratura del passato con la sua passione, la poesia. Nasce probabilmente da questo la figura del poeta filologo ed erudito, colui che più che preoccuparsi della lunghezza della sua opera ne cura l’elaborazione formale e la lingua (risultando, anche se non è il caso di Callimaco, a volte barocco, ampolloso e retorico), che cerca di inserirvi riferimenti colti a versioni meno note dei miti oppure a luoghi o tradizioni poco conosciute.


Un'altra immagine di Callimaco
Questa nuova figura del poeta è destinata a cambiare tutta la letteratura successiva; e se è più moderna perché è figlia dei nuovi studi, lo è anche perché è accompagnata da un modo innovativo di concepire l’opera letteraria in sé: dopo secoli nei quali, in maniera più o meno marcata, la piena realizzazione di un’opera avveniva nella sua recitazione, il libro, che prima aveva soltanto lo scopo di conservare gli scritti e tramandarli alla memoria, diventa il principale mezzo di fruizione del prodotto artistico di un poeta o di un prosatore. Callimaco è il principale promotore anche di questa innovazione, tant’è vero che è stato definito “editore di sé stesso”, a sottolineare come per primo abbia pensato le proprie opere per essere pubblicate scritte, e non declamate a un pubblico.

Ecco, e qui si inserisce il mio discorso. Infatti, troppo spesso la cultura ellenistica viene presentata come qualcosa di assolutamente a sé stante, ovvero privo di antecedenti, come una svolta completamente nuova che non ha alcun collegamento con quanto la precede. Nulla di più falso, come già anticipato qualche paragrafo fa, anche se bisogna, per spezzare una lancia in favore di una simile interpretazione, ricordare che Callimaco stesso, piuttosto che sottolineare le proprie affinità con la tradizione, ne ha spesso preso le distanze. Tuttavia, da alcuni frammenti che ci sono giunti di Antimaco di Colofone, vissuto diversi decenni prima di Callimaco e da quest’ultimo giudicato un pessimo poeta,  possiamo capire che i punti di contatto tra i due sono molti, e su diversi aspetti, alcuni più evidenti altri meno.

Sono finalmente arrivato all’argomento del post, quello cui faccio riferimento nel titolo, dopo ben quasi 500 parole in cui parlo d’altro. Non è una digressione inutile, diversi elementi di cui ho parlato prima torneranno utili in seguito. Perciò, dichiaro ufficialmente conclusa la premessa. Possiamo procedere.

Di Antimaco sappiamo molto poco e non ci sono giunte opere intere. Possediamo però un discreto numero di frammenti.

Antimaco di Colofone
La sua opera principale è la Tebaide, un poema epico di ben 24 libri. Uno dei punti cardine nonché uno degli elementi innovativi della poetica di Callimaco è la brevità. Essere sintetico non era esattamente lo spirito con cui scriveva Antimaco, la lunghezza del suo poema ne è la dimostrazione, e infatti, come accennavo prima, sappiamo che Callimaco non apprezzava per nulla la poesia di Antimaco.

Ci sono giunte diverse notizie riguardo alla poetica di Antimaco. Sappiamo che il suo stile era concettoso e barocco, tutt’altro che semplice e immediato, sappiamo che amava inserire riferimenti eruditi e complicati, sappiamo che aveva Omero come modello linguistico, ma soprattutto ci è giunta notizia, in uno scolio, di una presunta κδοσις di Omero curata proprio da Antimaco, una κδοσις esattamente come avrebbero composto i filologi di età ellenistica qualche secolo dopo (la veridicità di quest’informazione è stata messa in dubbio perché non ne abbiamo accenni da nessuna altra fonte, ma alla luce di tutto il resto le conclusioni non cambiano). Fatto ancora più importante, ci è giunta notizia che Antimaco utilizzasse in modo critico l’ipotesto omerico. In altre parole, quando scriveva sceglieva termini presenti nei poemi di Omero il cui significato era incerto (le cosiddette “glosse”) e li utilizzava in modo tale da comunicare al lettore la propria interpretazione di quella parola. Questa  pratica sarà ripresa da figure dell’età ellenistica come Apollonio Rodio, bibliotecario di Alessandria, poeta, erudito, autore tanto di poemi quanto di scritti critici su Omero e altri autori. Antimaco può essere dunque considerato (e probabilmente tale si considerava lui stesso) un poeta erudito a tutti gli effetti, e lo era quando Callimaco e i suoi successori dovevano ancora nascere.

Definire quindi Antimaco un precursore di Callimaco in primis e dell’ellenismo in generale alla luce di queste considerazione appare assolutamente naturale. Per quanto Callimaco disprezzasse Antimaco e per quanto sicuramente non da quest’ultimo provenissero gli stimoli che lo hanno portato a creare la figura del poeta filologo, ciononostante Antimaco resta comunque un antecedente che non si può trascurare. Antimaco e Callimaco giungono dunque a risultati molto simili, ma attraverso percorsi profondamente diversi.

Ma le somiglianze non si fermano qui, agli aspetti più superficiali e a quelli tramandati dalle fonti. A parer mio, e lo sottolineo perché qui più che a dati accettati dalla critica passo a fare riferimento a interpretazioni mie personali, si può instituire un paragone anche a un livello più sottile, un livello che, mi pare, sia stato trascurato. Penso perciò che sia interessante osservarlo, perché potrebbe suggerire che la modernità di Antimaco rispetto alla sua epoca fosse ancora maggiore di quello che può apparire. Per fare ciò voglio prendere in esame uno dei frammenti della Tebaide che ci sono giunti, quello che, come spiega la fonte che ce lo tramanda, ovvero Eustazio di Tessalonica, era l’incipit del primo libro.

L’edizione cui faccio riferimento è quella dei frammenti di Antimaco curata da Heinrich Wilhelm Stoll. Il verso analizzato è il frammento numero uno secondo la numerazione di quest’edizione.

Così recita il frammento:

Ἐννέπετε Κρονίδαο Διὸς μεγάλοιο θὺγατρες,

che in italiano significa:

Cantate, o figlie del grande Zeus figlio di Crono

Intanto, è chiaro che qui Antimaco ha presenti gli incipit dell’Iliade e dell’Odissea. L’influenza del primo si nota nell’accumulo dei genitivi, l’influenza del secondo invece nell’uso del verbo  εννέπω. A fronte di queste somiglianze, sono però evidenti le differenze. Dove infatti i versi di Omero sono dotati di una semplicità fresca e schietta, che introduce l’azione in modo diretto ed efficace, il verso di Antimaco è decisamente più pomposo. Addirittura, mentre sia nell’Iliade che nell’Odissea l’argomento dell’intero poema è sintetizzato in una sola parola che viene collocata all’inizio del verso, Antimaco deve scalzarlo al verso successivo (che non ci è giunto) per lasciare posto all’altisonante aggettivazione di Zeus, che consiste in un patronimico e in un epiteto di sapore epico. Non voglio soffermarmi però sulle differenze tra Omero e Antimaco; vi accenno soltanto per permettervi di toccare con mano quel colorito retorico che, come dicevo, avvicina la Tebaide all’epica ellenistica.

 
Eteocle e Polinice, protagonisti della Tebaide

Salta subito agli occhi l’elaborazione formale che caratterizza questo verso. Ha infatti una struttura chiastica, con il verbo ἐννέπετε e il suo soggetto θὺγατρες agli estremi e gli aggettivi Κρονίδαο e μεγάλοιο come termini medi. La parola Διὸς rimane spaiata, e risulta non essere semplicemente alla metà e quindi al centro del verso (considerando il verso come un segmento), ma addirittura al centro del chiasmo. Questo verso parrebbe configurarsi quasi come una doppia invocazione: la prima, esplicita e tradizionale, alle Muse (indicate con la perifrasi “figlie di Zeus”), e la seconda, implicita, a Zeus, che trovandosi a metà chiasmo e al centro della prima invocazione, è un po’ come se ne fosse la colonna portante, il fulcro, quell’elemento senza il quale neppure l’invocazione alle Muse avrebbe senso. 

Ma l’abilità di Antimaco non si limita a questo. Esiste un altro aspetto che sottolinea la centralità di Zeus, un aspetto più nascosto del chiasmo, ma che a una lettura un po’ più attenta emerge subito. Tutte le parole del verso sono di otto lettere. Tutte tranne Διὸς, che è di sole quattro lettere. Esattamente la metà delle altre. E, vista l’analogia già presupposta sic come si parla di un segmento, anche il centro.

Quest’ultima caratteristica non è solo indice della grande perizia retorica di Antimaco, che lo allontana ulteriormente dalla semplicità omerica, ma può indurre anche ad un’altra riflessione, che poi è lo scopo per il quale ho presentato il frammento. È evidente che questa peculiarità del numero di lettere non può essere colta da un pubblico che si limita ad ascoltare il poema. Per accorgersi di questo bisogna per forza poter leggere il poema, perciò quello che mi viene da pensare è che Antimaco, ben prima di Callimaco, avesse progettato un’opera letteraria in modo che trovasse la sua fruizione migliore nella lettura. Naturalmente l’evidenza di un unico frammento non può costituire una prova né una dimostrazione. Può però come minimo sollevare il dubbio, e aprire uno spiraglio su un aspetto di modernità di Antimaco rispetto ai suoi tempo che ancora non era stata sottolineata. Per avere più certezze bisognerebbe possedere stralci più ampi del suo poema, cosa che per ora non ci è possibile.

Potremmo dunque con qualche riserva affermare che Antimaco è stato editore di sé stesso ben prima che lo fosse Callimaco.

Si potrebbe anche obiettare che questa particolarità delle lettere sia semplicemente un’altra sfaccettatura del colorito retorico e artificioso della Tebaide. In realtà io non lo credo. L’artificiosità di Antimaco e degli altri poeti a lui contemporanei è per la maggior parte stilistica, comporta perciò l’uso di metafore e similitudini oscure o elaborate, o di una sintassi o una costruzione del verso particolarmente elaborata, o di neologismi audaci. Tutte caratteristiche che rendono difficile la comprensione del testo, ma non sfuggono a un ascoltatore. Questo aspetto del numero di lettere invece è differente proprio perché non complica la comprensione ma risulta percepibile soltanto se il testo viene letto. Per questo, secondo me giustificarlo dicendo che è dovuto al’artificiosità di Antimaco non basta ed è un errore.
 
"Non nominate il nome di Zeus invano!"
Che dire, dunque? È un gran peccato che di Antimaco ci sia giunto così poco, perché, limitandosi ad analizzare questo poco, ci rendiamo conto di avere di fronte un poeta di tutto rispetto, la cui opera dà adito a interpretazioni interessanti e che rivela una modernità impressionante rispetto al periodo in cui scrive, e che rivela come molte delle novità di Callimaco per molti aspetti non erano novità.