Visualizzazione post con etichetta cultura antica. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cultura antica. Mostra tutti i post

lunedì 22 ottobre 2018

Il distico elegiaco nella tarda antichità - Ausonio

Con lo scorso post mi sono occupato di un autore sostanzialmente sconosciuto. Se ricordate infatti il De ave Phoenice è attribuito a Lattanzio solo in via ipotetica, e comunque non è possibile collocarlo con certezza in un certo periodo della sua vita e quindi ricostruire il suo scopo e le ragioni della sua composizione. Questa volta invece voglio prendere in esame una situazione radicalmente opposta. Ausonio è infatti un autore di cui conosciamo moltissimo, e sulla cui biografia siamo informati dettagliatamente.

Forse non ho mai avuto modo di dirlo, comunque non amo le biografie degli scrittori. Tuttavia, non posso che riconoscere la loro indubbia utilità, e di certo può giovare osservare a grandi linee la vita di Ausonio. Innanzitutto, nasce all’inizio del quarto secolo d.c. e muore sulla fine dello stesso secolo. Sua città natale è Burdigala, in Francia, l’odierna Bordeaux, e suo padre è medico. Tuttavia, egli intraprende gli studi di retorica, prima a Burdigala e poi a Tolosa, nella scuola di suo zio. Terminati gli studi, esercita l’avvocatura per un periodo e poi fonda una propria scuola di retorica. Si colloca in questo periodo il suo momento di massimo splendore. Ausonio diventa talmente famoso da essere chiamato a ricoprire il ruolo di precettore di Graziano, figlio dell’imperatore Valentiniano I.

Durante il periodo alla corte imperiale la fama di Ausonio gli consente di non svolgere solo incarichi di tipo professionale. Egli ricopre anche diverse cariche pubbliche, come per esempio il consolato nel 379. Questo lasso di tempo di grandi trionfi per lui corrisponde al momento in cui Graziano è al potere. Alla sua morte Ausonio è costretto ad allontanarsi dalla corte, e a tornare nel suo paese di nascita, dove muore intorno al 395.

Che cosa è importante di questa biografia? Essenzialmente la parte centrale. Ciò che influenza in maniera decisiva la sua attività poetica è il suo ruolo di maestro e di retore. L’opera di Ausonio non si configura come caratterizzata da una particolare ideologica alla sua base, ma come un esercizio di stile di una persona che possiede e maneggia in maniera egregia gli strumenti della retorica. Ausonio è stato tacciato di essere uno sterile erudito, e sotto certi aspetti questa definizione non gli sta nemmeno troppo stretta. Personalmente, non è di certo uno degli autori che apprezzo di più. Tuttavia, non c’è dubbio che incarni in maniera efficace le tendenze retoriche e stilistiche dell’epoca in cui è vissuto, e quindi, almeno inserito nel contesto del quarto secolo, non risulta fuori luogo, anzi, così diventa persino chiaro perché era così apprezzato da diventare precettore di Graziano, figlio dell’imperatore.

Graziano
La componente retorica dell’opera di Ausonio è necessaria per spiegare l’uso che egli fa del distico elegiaco. Per capirlo vorrei esaminare parti di alcune opere, le Epistulae, i Parentalia e i Caesares. Mentre le prime sono una serie di lettere in versi e in prosa composte nel periodo dopo la morte di Graziano, i Parentalia sono costituiti da trenta componimenti dedicati ad altrettanti parenti di Ausonio, e i Caesares da una serie di brevi poesie ciascuna deputata alla descrizione di un imperatore. Vedete cosa intendevo? Se osservate i contenuti delle opere come li ho appena elencati, notate che in quasi nessuna (con la parziale esclusione forse delle Epistulae) è sottesa una qualche ideologia. Servono o per mostrare erudizione oppure per mettere in gioco l’abilità dell’autore nella composizione, o al massimo per mettere in scena quelli che sono alcuni topoi della poesia contemporanea o precedente, come l’invito di amici. Tuttavia, avremo modo di osservare, e questa è la caratteristica più importante di Ausonio, come l’impostazione retorica conduca Ausonio a esiti diversi rispetto allo pseudo Lattanzio.

Cominciamo con l’esaminare i Caesares.L’opera è divisa in due parti, una composta da monostici e l’altra da tetrastici. Ciò che ci interessa sono i tetrastici, ovvero poesie di quattro versi ciascuna, perché sono tutte in distici elegiaci, mentre i monostici sono in esametri. Vediamo il tetrastico numero 7, quello dedicato a Nerone.

Aeneadum generis qui sextus et ultimus heres,
polluit et clausit Iulia sacra Nero.
Nomina quot pietas, tot habet quoque crimina vitae.
Disce ex Tranquillo: set meminisse piget.

Della stirpe degli eneadi sesto e ultimo erede,
che infangò e concluse la sacra famiglia di Iulo, è Nerone.
Quanti i nomi che doveva rispettare, tanti i crimini della sua vita.
Imparalo da Tranquillo: ricordarlo mi addolora.

In questo caso nella traduzione ho preferito rimanere un po’ più sul difficile e sul meno bello a leggersi, mantenendo però il più possibile i costrutti e soprattutto la posizione delle parole del testo latino. La ragione è semplice, vorrei che si comprendesse facilmente l’alto livello di elaborazione della poesia. Come vedete il soggetto della prima frase, che occupa i primi due versi, si trova alla fine del secondo verso, e questa, anche per una lingua come il latino, non è di sicuro una posizione usuale. Lo stesso si può dire per il terzo verso, che, pur rifiutando una struttura interna che collochi le parole in un qualche ordine, costituisce comunque un’espressione molto brachilogica e sintetica. Insomma, già da questo si può capire come Ausonio, pur non presentando difficoltà a livello di contenuti, possa non essere agevole alla lettura per via del manierismo che caratterizza il suo stile.

Lo scopo dell’opera è come dicevo quello di mostrare l’erudizione dell’autore e la sua capacità di comporre versi. Ausonio vuole semplicemente evidenziare che è in grado di scrivere una poesia di quattro versi su ogni imperatore, e basta, non vuole andare oltre. Siamo di fronte a esibizioni di bravura e di erudizione, e questo lo vediamo sia dallo stile barocco che ho già evidenziato sia dai frequenti richiami alla tradizione letteraria. Il più evidente è quello dell’ultimo verso, in cui Ausonio invita il lettore a imparare la vita di Nerone non dalle sue poesie bensì dall’opera di Svetonio (chiamato nel testo con il cognomen Tranquillo), noto per uno scritto dedicato alla vita dei primi imperatori da Cesare fino a Domiziano. C’è un altro riferimento, molto evidente anche questo, nell’incipit della poesia. Le prime parole riprendono modificato il celeberrimo inizio del De rerum natura. Da “aeneadum genetrix” Ausonio deriva il suo “aeneadum generis”. Anche altri luoghi del componimento possono essere associati a passi di altri poeti, tuttavia questo è il più evidente e anche il più sicuro, visto che si tratta della evidente ripresa di un punto importante e quindi facilmente impresso nella memoria del poema di Lucrezio.

Svetonio Tranquillo
Tocca ora cercare di capire quale sia il ruolo del distico elegiaco in questo sfoggio di cultura e di stile. Potrebbe venire da pensare che ci troviamo in una situazione simile a quella di Lattanzio, in cui il metro non aveva una vera e propria relazione con il contenuto. In realtà io credo che qui Ausonio voglia rifarsi alla grande tradizione dell’elegia erudita che inizia con Callimaco e con Properzio arriva a Roma. Certo, della profondità di questa tradizione in Ausonio resta poco o niente: quello che in Properzio era una scusa per fare della grande poesia qui diventa lo scopo stesso della poesia, riducendone così lo statuto a puro mezzo per esibire questa conoscenza. Insomma, il vecchio ruolo del distico elegiaco è sì ripreso ma ridotto all’osso al punto da essere scarno e svilito.

Non credo serva soffermarsi ulteriormente sui Caesares. Voglio invece passare a leggere una delle Epistulae. Si tratta della prima lettera della raccolta, destinata ad Assio Paolo.

Tandem eluctati retinacula blanda morarum
Burdigalae molles linquimus illecebras
Santonicamque urbem vicino acessimus agro.
Quod tibi si gratum est, optime Paule, proba.
Cornipedes rapiant imposta pertorrita mulae,
vel cisio triiugi, si placet, insilias,
vel celerem mannum vel ruptum terga veredum
conscendas, propere dummodo iam venias,
inastantis revocant quia nos sollemnia paschae
libera nec nobis est mora desidiae.
Perfer in excursu vel teriuga milia epodon
vel falsas lites, quas schola vestra serit;
nobiscum invenies, multas quia linquimus istic
nugarum veteres cum sale reliquias.

Dopo avere finalmente superato I blandi vincoli dell’attesa
lascio i languidi piaceri di Burdigala
e giungo a Santonica, nel territorio vicino.
Valuta se questo ti è gradito, ottimo Paolo.
Le mule dagli zoccoli unghiati tirino le carrozze a loro imposte,
o, se preferisci, salta sul carro a tre cavalli,
o sali sul rapido manno, o sul veredo dalla schiena
ferita, purché tu mi raggiunga di fretta,
poiché ci chiamano le solennità della Pasqua
incombente, e non c’è spazio per il tempo libero.
Porta nella tua visita tre epodi
o le false liti che costruisce la vostra scuola;
troverai con me molti resti di vecchi
divertimenti che ho lasciato qui.

Il tema della poesia è un classico, ovvero l’invito rivolto dal poeta a un amico. Se lo confrontate con i carmi di Catullo che trattano lo stesso argomento, però, vi rendete conto di moltissime differenze. Non è mia intenzione soffermarmi su tutte, anche perché riguardano i fatti più svariati (dalla lingua ai singoli luoghi del testo), e sarei costretto ad andare fuori da quello che è il mio intento. Mi limiterò quindi soltanto a evidenziare la stranezza del metro elegiaco. I carmi di Catullo che costituiscono inviti agli amici sono infatti scritti in endecasillabi faleci. La scelta di Ausonio appare quindi non convenzionale. Si potrebbe provare anche ad accostare quest’epistola a un altro tipo di poesia, quella delle Silvae di Stazio. Ora, ammetto la mia ignoranza. Io non conosco questa raccolta così bene da stabilire se effettivamente contenga degli antecedenti significativi di questa epistola, tuttavia sono abbastanza sicuro che non ne abbia, e per un semplice motivo. Le Silvae di Stazio sono poesia d’occasione, mentre quella di Ausonio no. Non dico che Ausonio non potrebbe avere avuto presente una silva di Stazio, dico che vista la natura molto diversa delle due raccolte è difficile che la scelta del metro possa avere una motivazione comune.

Come spieghiamo quindi il distico elegiaco? A parer mio, qui ci troviamo in una situazione di uso del metro svuotato del suo significato. Non esiste una vera ragione per scegliere il distico elegiaco al posto dell’esametro, semplicemente il suo uso si può ricondurre alla volontà del poeta di ricorrere a vari metri della tradizione. Nell’Epistulae infatti troviamo anche esametri o anche abbinamenti originali, come nel caso dell’epistola 2. In buona sostanza, qui Ausonio si muove in modo diverso che con i Caesares, scegliendo di utilizzare il distico elegiaco senza una ragione precisa, e non per rifarsi a una tradizione.

Ausonio
Veniamo ora ai Parentalia. L’opera si configura, come dicevo, come una raccolta di poesia dedicata a una serie di parenti defunti di Ausonio. Ho deciso di riportare qui la prefazione, che ha com’è ovvio carattere programmatico.

nomina carorum, iam condita funere iusto
fleta prius lacrimis, nunc memorabo modis,
nuda, sine ornatu fandique carentia cultu:
sufficit inferiis exequialis honos.
Nenia, funereis satis officiosa querellis,
annua ne tacitus munera praetereas,
quae Numa cognatis sollemnia dedicat umbris,
ut gradus aut mortis postulat aut generis.
Hoc satis est tumulis, satist est telluris egenis:
voce ciere animas funeris instar habet.
Gaudent compositi cineres sua nomina dici:
frontibus hoc scriptis et monumenta iubent.
Ille etiam, maesti cui defuit urna sepulcri,
nomine ter dicto, paene sepultus erit.
At tu, quicumque es, lector, qui fata meorum
dignaris maestis commemorare elegis,
inconcussa tuae percurras tempora vitae
et praeter iustum funera nulla fleas.

I nomi dei miei cari, già sepolti secondo i riti.
che prima ho pianto in lacrime, ora ricorderò in versi,
nudi, senza ornamenti, che mancano di cura stilistica:
basta ai morti l’onore dei riti funebri.
Nenia, che si dà da fare per le lamentazioni mortuarie,
non trascurare in silenzio la festa annuale
che Numa ha dedicato alle ombre dei parenti,
come richiedere il tipo di morte e la parentela.
Questo basta alle tombe, basta anche a chi è non ha terra:
chiamare le anime ha l’aspetto di un funerale.
Gioiscono le cenere che sia pronunciato il loro nome:
lo ordinano anche le scritte sui sepolcri.
Anche a chi mancò l’urna della triste tomba,
chiamato tre volte sarà quasi sepolto.
E tu, lettore, chiunque tu sia, che il destino dei miei
ti degni di ricordare con queste infelici elegie,
percorri sicuro il tempo della tua vita
e non piangere nessuna morte più del giusto.

Qui la situazione è ben diversa dalle precedenti. Qui l’uso del distico elegiaco è motivato, e da più di una ragione. Innanzitutto, bisogna invocare il genere letterario dei Parentalia, riconducibile all’epigramma funebre, per quanto senza dubbio presenti tratti di grande originalità. Come ricorderete dall’articolo sulla storia dell’elegia, la funzione primaria e originale del distico elegiaco era proprio quella associata alla poesia dedicata ai morti. Quindi qui Ausonio si rivela assai tradizionale, riproponendo una elegia, potremmo dire, alla maniera antica. Tuttavia, questo richiamo non va inteso come una grande influenza sull’opera: la precedente poesia elegiaca è di certo richiamata dalla scelta del metro ma non costituisce in alcun modo un ipotesto. Il suo utilizzo è quindi da associare, ancora una volta, con la volontà di Ausonio di mostrare la sua erudizione.

Vediamo quindi di tirare le conclusioni. Con Ausonio ci troviamo di fronte a un autore colto e ben consapevole della tradizione letteraria che lo precede, al punto da rendere la sua ripresa e allusione un punto fondamentale della sua poesia. Alla volontà di mostrare cultura può essere in tutti i casi, in fondo in fondo, ricondotto l’uso del distico elegiaco, con il fatto che a volte la sua funzione originale appare svilita o ridotta del suo valore. Se quindi può apparire un utilizzo sterile e superficiale, è tuttavia da sottolineare che la poesia di Ausonio si mantiene su livelli alti, se non emotivamente almeno formalmente, e questo restituisce un minimo di dignità a un metro che, per esempio, lo pseudo Lattanzio uso solo a scopo di esercizio.

La carrellata su Ausonio può concludersi qui. Nel prossimo articolo voglio esaminare il poema di Rutilio Namaziano, il De reditu suo, che riserva sorprese ancora diverse da quelle che abbiamo trovato in Ausonio. Saremo di fronte a un distico elegiaco usato davvero in modo originale, in un poema che spesso è stato considerato solo un collage di versi di poeti precedenti.

lunedì 11 giugno 2018

Il distico elegiaco nella tarda antichità - Lattanzio e il "De ave phoenice"


La tarda antichità è un periodo particolare e interessante per moltissime ragioni, non ultimo il fatto che nella fortissima tradizione pagana si fa strada, e rapidamente prende piede al punto da soppiantarla, la nascente cultura cristiana. Non è il momento di discutere se il cristianesimo abbia portato o meno vantaggi all’impero romano, è indubbio tuttavia che nella sua formazione abbia attinto a piene mani al patrimonio culturale del paganesimo. Tutti sanno che il 25 dicembre, prima del Natale cristiano, era la festa pagana del Sol Invictus, ed è diventata festività cristiana solo in seguito all’ambigua politica dell’imperatore Costantino nei confronti della religione. Questo è un esempio molto noto, ma ce ne sono moltissimi altri. Per questo, se fino a poco tempo fa si tendeva a distinguere una letteratura latina cristiana e una pagana, ora questa divisione sta venendo meno, e sta diventando sempre più forte la consapevolezza che paganesimo e cristianesimo si intrecciano in più modi. Il primo fornisce al secondo il materiale per integrare e costruire il proprio repertorio di immagini e simboli, e per spiegare e sostenere le proprie tesi, mentre il secondo trova nel primo un modo per valorizzare le proprie idee anche di fronte a una cultura che sta subendo un cambiamento tanto veloce da essere percepibile all’interno di una sola vita.

Questa premessa è fondamentale per non stupirci di fronte alla disinvoltura con cui certi autori cristiani utilizzano le immagini o il linguaggio pagano (sto pensando ad Arnobio, nella cui opera Cristo viene connotato quasi come un nuovo Epicuro). Questa disinvoltura è anche ciò che impedisce a noi moderni di trarre giudizi troppo unilaterali o affrettati su certe opere, tra cui, per esempio, il De ave phoenice, di cui parliamo adesso.

Il De ave phoenice è un’opera curiosa su più fronti. Consiste in un poemetto di nemmeno 200 versi, in cui viene descritta la fenice, uccello mitico e particolare (si narrava che fosse unico e che risorgesse dalle proprie ceneri), la cui figura entra nella mitologia greca e latina dalla tradizione egizia. Il primo problema è l'incerta paternità dell’opera. Gregorio di Tours la attribuisce a Lattanzio, e probabilmente sulla scorta di questa attribuzione molti manoscritti che la riportano indicano Lattanzio come autore. Tuttavia Gregorio, vissuto duecento anni dopo Lattanzio, è il primo a citare il poemetto, prima nessuno scrittore afferma di esserne a conoscenza, e probabilmente per questa incertezza alcuni manoscritti lo indicano come anonimo. 

Gregorio di Tours

L’attribuzione a Lattanzio non è sicura per varie ragioni. Intanto, bisogna capire in quale momento della sua vita possa essere collocata. Sappiamo che Lattanzio era un retore africano, originariamente di fede pagana, assai noto per le sue doti di scrittore e per questo convocato a Nicomedia dall’imperatore Diocleziano. È in questo periodo, nel quale hanno luogo le più forti persecuzioni di Diocleziano nei confronti dei cristiani, che Lattanzio si converte. Trova la morte nel 325, mentre svolgeva il ruolo di precettore per il figlio del nuovo imperatore Costantino. Ora, ammettendo che Lattanzio sia effettivamente l’autore del De ave phoenice, lo ha scritto da giovane oppure da anziano? Nel periodo africano, oppure in quello presso la corte dell’imperatore? La domanda non può in realtà ricevere una risposta se prima non si cerca di cogliere qual è il vero significato dell’opera, cosa che in molti hanno provato a fare ma senza giungere mai a un’opinione condivisa. Ci sono infatti quelli che pensano che sia un’opera cristiana, e quindi vada collocata nella seconda parte della vita di Lattanzio, e quelli che pensano sia pagana, e quindi appartenga invece alla prima parte. A complicare le cose c’è anche un’altra questione, ovvero la metrica. È scritto, come potrete immaginare, in distici elegiaci, nonostante in realtà non appartenga a nessuno dei generi letterari che di solito usavano questo metro. Anzi, vista la sua natura potrebbe al massimo essere considerato un epillio, genere che di solito richiedeva l’uso dell’esametro.

Cercare di capire se l’opera sia cristiana o pagana può gettare luce anche sul contesto in cui è stata composta, e quindi aiutarci anche a capire perché il distico elegiaco venga utilizzato all’apparenza così impropriamente.

Come dicevo prima, una grande parte della simbologia e del linguaggio pagano viene ripreso senza problemi dai cristiani. Perciò, l’opera presenta due significati diversi a seconda che il suo contenuto sia interpretato come cristiano o pagano. L’ambiguità riguardo la confessione dell’autore è dovuta al fatto che nell’opera ci sono rimandi che possono portare a entrambe le culture. Può essere utile osservare qualche esempio.

Costantino.

Il poemetto è abbastanza povero di contenuti, si configura, come dicevo prima, come una descrizione della fenice e del suo modo di vivere. Non ritengo utile riportarlo tutto, mi limiterò alle parti che possono risultare per noi interessanti. In particolare, può essere utile osservare la sezione riservata a quello che è l’aspetto più particolare della fenice, ovvero il rito con cui si dà fuoco e rinasce dalle proprie ceneri. Il testo recita in questo modo.

Tum ventos claudit pendentibus Aeolus antris,
ne violent fabris aera purpureum
75                                         neu concreta noto pubes per inania caeli
submoveat radios soli set obsit avi.
Construit inde sibi seu nidum sive sepulchrum:
nam perit, ut vivat, se tamen ipse creat.
[…]
Tunc inter varios animam commendat odores,
depositi tanti nec timet illa fidem.
95                                          Interea corpus genitali morte peremptum
aestuat et flammam parturit ispe calor,
aetherioque procul de lumine concipit ignem:
flagrat et ambustum solvitur in cineres.

Allora Eolo chiude i venti negli antri scoscesi,
 perché non disturbino con il loro soffio l’aria purpurea,
75                            e le nuvole, addensate dal vento attraverso il vuoto del cielo
non cancellino i raggi del sole e ostacolino l’uccello.
Lì si costruisce un nido o un sepolcro,
infatti muore per vivere, e tuttavia si ricrea da sé.
[…]
Allora affida via l’anima tra i vari profumi,
e non dubita della sicurezza di un tale abbandono.
95                             Nel frattempo il corpo strappato dalla morte che porta vita
arde e lo stesso calore genera fiamma,
e prende fuoco dalla lontana luce nell’aria:
brucia, e consumato si dissolve in cenere.


La traduzione come sempre vuole essere di servizio e niente più. In questo caso mi sono preso qualche liberta per rendere più chiaro un testo che tradotto alla lettera non sarebbe risultato così immediato, ma comunque la traduzione continua a non avere pretese. Se si osserva il testo latino saltano subito agli occhi alcuni fatti. Intanto l’espressione “per inania caeli“ è una reminiscenza dal De rerum natura di Lucrezio. Suona strano che un’opera di stampo cristiano citi un poema pagano, e per di più contenente una dottrina che sosteneva la totale indifferenza degli dèi nei confronti dell’uomo e la materialità dell’anima. È vero, più in generale, che tutta l’opera è densa di citazioni dai classici. Né è un esempio il primo verso, che recita in questo modo.

Est locus in primo felix oriente remotus

Cominciare la descrizione di un luogo con “est locus” è un modulo tipico della poesia epica, lo troviamo in Virgilio e Ovidio, per nominarne solo alcuni. Un altro caso di reminiscenza classica è il peremptum usato al verso 95, molto comune in Virgilio per indicare la morte in modo forte ed espressivo. La citazione da Lucrezio quindi non va intesa in senso ideologico. Il De rerum natura viene ripreso nel suo essere un classico della letteratura, piuttosto che per le idee che espone. Questa soluzione comunque non soddisfa del tutto, almeno a parer mio, visto che non spiega comunque perché, nonostante la scarsa attenzione ai contenuti, un cristiano dovrebbe scegliere di citare Lucrezio. Questo forse apparirà più chiaro proseguendo con l’analisi del poema.

Lucrezio.

Il passo sopra riportato non contiene però soltanto riferimenti alla letteratura pagana. Tanto per cominciare, l’espressione commendare animam è tipica del linguaggio cristiano. Assume anche un significato particolare il modo in cui viene indicata la morte. Si parla di morte genitali, ovvero di morte che dà vita. Quest’ossimoro si ripete più volte nel corso del poema, e ha lo scopo di indicare l’assurdità e l’unicità del processo attraverso cui nasce la fenice, talmente straordinario e incomprensibile che può essere espresso solo tramite la figura retorica dell’inconciliabilità, ovvero appunto l’ossimoro. Ora, l’ossimoro era una figura retorica molto cara agli autori cristiani. Infatti, il messaggio di Cristo è rivoluzionario, cambia il modo di osservare la vita e il mondo, è assurdo e inconciliabile rispetto all’ottica pagana del passato, e questo stridore, questa situazione in cui i valori tradizionali entrano in frizione con la modernità risulta espressa nel suo modo più efficace attraverso gli ossimori. È quindi possibile vedere la frequente ripetizione dell’ossimoro come un indizio della cristianità del nostro autore. In questo caso, il tema della fenice non può che essere allegorico. Andrebbe quindi a essere figura di Cristo, il quale è risorto dopo la propria morte.

Chi vuole sostenere la cristianità o meno dello scrittore il De ave phoenice ricorre a molti altri indizi sparsi nel testo, tuttavia sono tutti più o meno riconducibili alla tipologia di quelli che ho elencato finora. Non penso valga la pena di riportare altri passi: il testo è di valore poetico modesto. Linkerò in fondo all’articolo un sito dove leggere il poemetto per intero, per chi fosse interessato. Ora, veniamo all’argomento principale, ovvero il metro. Possiamo chiederci di nuovo, perché Lattanzio o chi per lui usano il distico elegiaco per un breve poema sulla fenice? Rispondendo a questa domanda ci rendiamo conto che il discorso fatto finora sulla confessione dell’autore non è futile, anzi, tutt’altro. È scegliendo una delle due possibilità che possiamo anche avanzare un’ipotesi sulle ragioni del metro.

Consideriamo questo. Quando un certo elemento si diffonde nella cultura diventa patrimonio comune. Se sentiamo una persona per strada dire a qualcun altro “sei un Giuda”, questo non significa che la persona in questione sia cristiana, semplicemente l’idea di Giuda come traditore è entrata a fare parte della mentalità comune. Allo stesso modo, possiamo pensare che un autore pagano che scrive in un periodo in cui il cristianesimo è diffuso utilizzi termini ed espressioni cristiane in quanto suo patrimonio culturale, piuttosto che perché creda veramente nei valori che esprimono. In questo senso, le ripresa delle espressioni cristiane non potrebbe costituire un indizio della confessione dell’autore. Diventa più plausibile quindi l’idea che egli sia pagano.

Abbiamo visto prima come l’opera presenti frequenti riferimenti alla letteratura classica. Se c’era un genere in cui questi abbondavano erano le esercitazioni scolastiche. Sappiamo che spesso gli alunni ricevevano il compito di comporre poesie su argomenti di repertorio o comunque canonici, rispettando determinate condizioni: magari citando determinati autori, o seguendo una particolare struttura, o utilizzando un certo metro. Vedete che la questione comincia a risolversi? Possiamo pensare che il De ave phoenice fosse un’esercitazione scolastica, e in questo modo riusciamo a dissipare tutti i dubbi che avevamo, in particolare quello del metro. In quest’ottica infatti il distico elegiaco non viene utilizzato con un vero e proprio significato, ma semplicemente è una delle condizioni imposte dal maestro all’allievo per la sua composizione. Lo troviamo svuotato quindi di qualunque possibile significato: è soltanto un ornamento, nulla di più. A questo punto, quindi, pur essendo impossibile stabilire se Lattanzio sia o meno l’autore, possiamo dire che se lo fosse e se davvero l’opera fosse soltanto un’esercitazione allora non potrebbe che appartenere al suo primo periodo, quello in cui non aveva ancora abbracciato la fede cristiana.

Privo di ogni valore, il distico elegiaco viene in questo caso impiegato in modo arbitrario e senza alcun legame con la letteratura classica, e rispecchia quindi quel pregiudizio che per anni ha riguardato il tardo antico, ovvero che in quest’epoca la grande cultura del passato risulta arida e impoverita. Tuttavia, non è sempre così, avremo modo di vederlo analizzando altre opere. Il discorso su Lattanzio può quindi ritenersi concluso. La prossima volta è mia intenzione dedicarmi a Ausonio, per osservare un modo veramente opposto di comporre in distici elegiaci.

Vuoi leggermi? Clicca qui!