mercoledì 28 settembre 2016

C'è del marcio negli shonen?

Parlare di classici di un genere è come entrare in un campo minato presieduto da cecchini mentre si è inseguiti da kamikaze inferociti e sotto un bombardamento aereo.  Il mondo è pieno di fan boy dal cervello ammaccato pronti a tutto per difendere la Loro Sacra Opera Preferita dalle grinfie degli ignoranti infedeli. E ci sono poche opere che possono vantare la popolarità e l’autorevolezza in quanto pilastro di un genere che ha Dragon Ball nel panorama dei manga in generale e degli shonen in particolare. Io, naturalmente, ho intenzione di parlare proprio di Dragon Ball, il che significa praticamente che mi voglio scavare la fossa da solo.

"NON TOCCATEMI DRAGONBALL!"
Mi è capitato recentemente di rileggere alcuni shonen, e questo mi ha fatto pensare.Tutti in un modo nell’altro si rifacevano a Dragon Ball, che lo avevano come modello, per seguirlo o per prenderne le distanze. E così ho cominciato a riflettere su come Dragon Ball abbia trasformato e canonizzato lo shonen moderno, e quanto valore ancora adesso possa avere questo canone. Del resto, quanti blogger sentite su internet berciare contro il fantasy di stampo tolkieniano perché ormai ha detto tutto quello che ha da dire e gli elfi hanno stufato? Ecco, qui mi voglio porre in un’ottica simile. Quanto di buono c’è ancora nel modello di Dragon Ball e quanto invece è diventato stantio?

 Tra l’altro, piccola nota a margine, gli shonen di cui parlavo prima sono stati tutti scritti in periodi diversi, che vanno dai primi anni ’90 al 2010, quindi mi hanno permesso di osservare bene come in momenti diversi Dragon Ball fosse utilizzato in modo diverso. Ah, naturalmente prima di mettermi a scrivere mi sono riletto anche Dragon Ball, quindi posso parlare con la mente fresca e il ricordo ancora ben chiaro.

Partiamo con il dire che Dragon Ball non è l’unico manga ad aver avuto una grande influenza su una fetta non indifferente delle storie che lo hanno seguito. Può fregiarsi di questo merito anche, ad esempio, Le bizzarre avventure di Jojo (che a sua volta, almeno nelle prime serie, si rifà ad altri pilastri come Ken il guerriero). L’influenza di Dragon Ball è a parer mio decisamente maggiore e decisamente più evidente, perché Jojo è stato un’ispirazione per molti aspetti “tecnici”, per usare il termine più adatto che mi viene in mente. Per esempio, molti dei poteri speciali che appaiono negli shonen di oggi prendono spunto in maniera più o meno evidente e più o meno massiccia proprio da Jojo, e lo stesso discorso si può fare per il modo in cui sono strutturate le battaglie. Jojo conserva però molti elementi unici che non sono stati imitati o comunque non in maniera massiccia, come lo stile di disegno dei personaggi, le situazioni assurde o surreali, il trash che permea la trama, e quant’altro. Dragon Ball invece non può vantare un’individualità di questo tipo, perché è stato modello per molti più elementi, che vanno dalle situazioni alle scelte narrative, dalla lunghezza dei manga alla struttura stessa delle trame.

Le bizzarre avventure di Jojo: la sobrietà fatta manga.
Ad esempio, è ormai un dato di fatto che un gran numero di shonen, in particolari quelli dedicati in vario modo ai combattimenti, hanno una durata molto ampia. Quante volte gli autori vengono accusati di allungare il brodo, oppure di continuare a parlare quando non hanno nulla da dire? A me è successo spesso di pensare che l’autore poteva risolvere velocemente una determinata situazione e invece la allunga con problemi inutili per tirare avanti per più volumetti (in questo momento sto pensando a Toriko, in cui a un certo punto la trama principale viene tralasciata in favore di vari filler perché boh, evidentemente Shimabukuro voleva arrivare oltre i 30 volumi a tutti i costi). Questo fatto, io credo, è dovuto (anche se naturalmente non del tutto, ci sono fattori anche economici o relativi alla volontà degli editori) a una volontà di somiglianza con Dragon Ball, che prosegue per più di 40 volumi. Lo shonen di combattimento è automaticamente lungo, non può concludersi in poco tempo. Un po’ come per i libri fantasy (faccio di nuovo il paragone con Tolkien perché viene comodo) spopolano e hanno spopolato le trilogie, e se non scrivi almeno una trilogia non sei nessuno. Questo formato per quanto mi riguarda provoca diversi problemi, e il principale lo citavo prima, ovvero l’allungamento del brodo in modo spropositato. Così come nelle trilogie che sono trilogie non perché c’è molto da raccontare ma perché un fantasy o è una trilogia o niente spesso il secondo libro è più un raccordo tra gli eventi importanti del primo e quelli del terzo, così anche negli shonen lunghi perché se no non è uno shonen i volumi centrali di frequente sono i meno densi di eventi e i più noiosi da leggere. Se devo prendere un esempio di manga esteso a dismisura a causa dell’equazione shonen = lungherrimo posso citare Fairy Tail, anche se è un caso particolare perché fin dall’inizio aveva poco da dire, quindi a parlare del nulla ci sarebbe arrivato comunque, con o senza brodo allungato.

La trama di Fairy Tail.
Come dicevo prima però l’influenza di Dragon Ball ha riguardato molti elementi. Ci sono alcune scene che compaiono in Dragon Ball e che sono state riproposte in maniera massiccia negli shonen successivi, magari con cambiamenti anche ampi, ma conservando una struttura di base simile. Ho deciso di esaminarne qualcuna.

C’è sempre un momento in cui i protagonisti arrivano allo scontro finale con il cattivo. Qui accade non dico ogni volta ma molto spesso che il combattimento sia uno contro uno. Che è una cosa idiota. La posta in palio è altissima e basta una scusa qualsiasi come “è il suo combattimento” che tutti i protagonisti si fanno da parte per lasciare che a combattere sia una persona sola. Della serie, se combattessimo tutti insieme vincere sarebbe decisamente più semplice, ma ne va soltanto della salvezza della Terra, che sarà mai, lasciamolo fare tranquillamente. Verrebbe quasi da rimpiangere che il nostro pianeta sia protetto da gente così! Bleach è l’esempio più palese di questo, non c’è una volta in cui tutti si alleino contro il nemico, bisogna sempre lasciare che sia Ichigo da solo a salvare la giornata. Del resto è il protagonista, deve avere qualche privilegio!

Ora, in Dragon Ball questo succede a ogni combattimento. Non riesco a ricordare una battaglia in cui si combatta due o più contro uno, a parte forse due o tre. Lì però ha un senso: i personaggi hanno tutti un orgoglio e un’etica molto forti. Per un sayan combattere con un alleato contro un avversario solo è un disonore perché porta a una vittoria semplice. Preferirebbe perdere piuttosto che vincere senza che il suo avversario abbia potuto mostrare le proprie capacità. Non posso dire che sia una cosa intelligente ma è coerente quindi la rispetto e sono disposto a simpatizzare con personaggi del genere e a seguire le loro vicende. Ma negli altri manga è difficile trovare delle motivazioni così valide per questa scelta, molto spesso si fa semplicemente perché appunto è uno shonen e da che mondo è mondo negli shonen si combatte uno contro uno. Va bé, contenti gli autori e chi li legge contenti tutti, verrebbe da dire.

L’altra scena ormai canonica è l’incontro con il maestro. Ci sarà sempre un momento in cui i protagonisti andranno ad allenarsi e diventeranno allievi di un maestro, oppure conosceranno un vecchio molto più forte di loro che ha una missione per loro o roba simile, e il più delle volte costui ama le forme delle ragazze molto più giovani di lui. A fare scuola qui è il maestro Muten, seguito a ruota da Kaioshin il Sommo, che è la più grande autorità della galassia ma capitola di fronte alla promessa della foto di una donna nuda.

Il mondo è sotto la custodia di costui.
A proposito di questo gli esempi si sprecano, mi limiterò a citare Jiraya di Naruto e, per fare un esempio di qualcuno meno conosciuto, Kagetora Hyodo di Psyren. Ora, questo è un cliché che io trovo particolarmente fastidioso (è un modo idiota di caratterizzare un personaggio) e in effetti pare che anche i mangaka se ne stiano stufando. Infatti, ci sono molti esempi di maestro che però presenta una caratteristica che lo identifica subito che non sia l’essere un pervertito. È una variazione del tema che fa piacere. Potrei citare Kakashi, che ha sempre dietro il suo libro, oppure Biscuit di Hunter x Hunter, che invece è avida e capricciosa. Insomma, la figura del maestro resta sempre caratterizzata con una qualità strana o non piacevole ma sempre diversa e che non riguarda le sue pulsioni sessuali. Invece, se volete l’esempio di una ripresa dell’incontro con il maestro talmente pedissequa da essere fastidiosa potete leggere 666 satan, in cui la scena dell’arrivo a casa di Kirin è identica all’arrivo sul pianeta di Re Kaio (con tanto di scena in cui l’animaletto di Kirin viene scambiato per lui stesso, come succede a Goku, che scambia Bubbles per Re Kaioh).

L’influenza di Dragon Ball è stata grande anche nell’’ambito della creazione dei personaggi, in primo luogo per quanto riguarda i protagonisti. Goku è estroverso, scatenato, simpatico, ha una grossa fiducia nelle altre persone, è abbastanza testardo e mangia per venti persone. Ecco, in quasi tutti gli shonen più famosi sono state riprese queste caratteristiche per l’ideazione del protagonista. In molti casi gli autori hanno fatto un discreto lavoro sul modello proponendo delle variazioni di rilevante efficacia, ma comunque la partenza è la stessa per quasi tutti. Si possono fare moltissimi nomi famosi, Toriko e Rufy, per esempio, e anche qualche nome un po’ meno famoso, come Ageha di Psyren. Perfino Hunter x Hunter, che tende di solito a distaccarsi dagli stereotipi più comuni, ha un protagonista che rispecchia in maniera molto fedele questo modello.

Anche Vegeta costituisce un paradigma di personaggio, anche se in modo più velato e meno evidente di Goku. Rappresenta il personaggio freddo, scontroso e affatto incline a qualunque manifestazione di affetto, orgoglioso e solitario. È innegabile che l’ispirazione di Kishimoto per Sauke derivi proprio da qui. In Yu degli spettri il modello di Vegeta è seguito in modo fin troppo preciso nella creazione del personaggio di Hiei, che gli somiglia non solo nel carattere ma anche nell’aspetto fisico, e questo rende particolarmente difficile prenderlo sul serio, visto che il primo pensiero che viene è di stare leggendo della brutta copia di Vegeta.

A destra Vegeta, a sinistra di nuovo Vegeta Hiei.
La stessa idea di onda energetica, da intendere come nel manga e non come nell’anime, quindi come “raggio di luce che viene emesso dal corpo”, che è centrale in moltissimi shonen, viene da Dragon Ball. Senza questo concetto la maggior parte delle serie che conosciamo sarebbero diverse in maniera radicale. Certo, poi nel corso degli anni sono stati trovati altri modi più complicati per creare i poteri dei personaggi (basti pensare agli o-part di 666 satan, per esempio), e ci si è distaccati dalla semplice onda energetica. Tuttavia il modello rimane presente e riappare con costanza: Hunter x Hunter, che ha un sistema di poteri elaborato e complesso, fonda tutto su dell’energia emessa dal corpo sotto forma di luce. In sostanza, il paradigma dell’onda energetica è stato ormai modificato e migliorato fino a diventare qualcosa di molto diverso e più versatile e fantasioso di quello che era all’inizio.

Da quello che ho elencato finora emerge che il modello di Dragon Ball, dove è stato seguito in modo pedissequo, risulta stantio e già visto, e anzi, ha peggiorato molto spesso certi aspetti che potevano non essere malvagi. La logica conseguenza è che quindi di per sé Dragon Ball abbia ben poco ormai da offrire che possa risultare piacevole o originale. La realtà è a parer mio un po’ diversa, e una rilettura completa di Dragon Ball me lo ha confermato.

È vero che ormai l’originalità non la fa da padrona, e che la trama molto spesso tira avanti in virtù di coincidenze o deus ex machina, è vero che i combattimenti sono semplici (la strategia quasi è assente) ed è vero che i personaggi pervertiti stufano presto. Ma è vero anche che Dragon Ball presenta una sua freschezza. È una lettura agile, che scorre senza neanche accorgersene e tiene lontana la noia. La sceneggiatura è molto spesso buona (nella saga di Majin Bu cambia radicalmente e perde molto a mio avviso) e quindi riesce a dare la giusta dose di coinvolgimento, specie nei combattimenti, che, pur non essendo nulla di che molto spesso da un punto di vista oggettivo, conquistano facilmente e sono dei page-turner pazzeschi. Inoltre mi sono convinto che il vero talento di Toriyama sia scrivere manga comici, perché i momenti di questo genere in Dragon Ball sono quasi sempre molto divertenti. Insomma, se Dragon Ball ha molti aspetti che rientrano a pieno titolo nel già visto, ha una propria linfa vitale, alimentata da una ventata di fresca genuinità, un forte coinvolgimento, un umorismo da spanciarsi anche nelle situazioni più serie e una trama che caccia i personaggi sempre nella situazione peggiore possibile (ok, molto spesso intervengono deus ex machina e cose simili a tirarli fuori dai guai, ma va bé). Insomma, Dragon Ball è la prova che è il talento del mangaka che rende ottimo un fumetto, e non le qualità intrinseche che questo possiede: ci sono storie con molti più pregi e molta più originalità che però non riescono a conquistare allo stesso modo.

Akira Toriyama minaccia i suoi fan con una penna.
Quindi, per tirare le fila del tutto, il modello di Dragon Ball è ancora valido? Sì, se non viene riproposto pari pari, altrimenti rischia davvero di rovinare una storia. Se viene modificato, migliorato o reimpostato in base alle necessità, ai gusti e a quello che sente l’autore (e del resto è in parte già successo, come mostravo prima) allora può offrire nuovi spunti per creare qualcosa di interessante. Che poi quello che sto dicendo non è nulla di nuovo sotto il sole, visto che da che mondo e mondo qualunque modello per risultare efficace deve essere interpretato e non seguito in modo preciso. La pensavano così già gli antichi (chiedete a Quintiliano che cosa sia l’aemulatio), e direi che probabilmente avevano ragione.

lunedì 19 settembre 2016

NON Recensione - Racconti di Hogwarts di J.K. Rowling

Questa non è una recensione. E come, direte voi, lo sembra proprio, tra l’altro si parla pure di un libro singolo, quindi come fa a non essere una recensione? Bé, non lo è per un semplice motivo, perché su questo blog recensisco romanzi e racconti, e Racconti di Hogwarts non è né l’uno né l’altro.


Racconti di Hogwarts consiste in tre e-book pubblicati il 6 settembre, ed è stato presentato come un’antologia di racconti scritti dalla Rowling volti ad approfondire certi aspetti del passato di alcuni personaggi della saga di Harry Potter. Ecco, io l’ho letto tutto e posso dire con cognizione di causa che più che racconti i brani raccolti sembrano a metà tra una pagina di Wikipedia e gli appunti per la scaletta di un romanzo. Ha poco senso quindi che mi metta a scrivere una recensione con tanto di suddivisione in trama, la mia opinione e in conclusione, il tutto corredato dagli Chtulhu finali, per delle pagine di Wikipedia, no?

Perché dunque ho deciso di scrivere questo post? Perché io ho cominciato a leggere convinto di avere a che fare con dei racconti. Certo, sono bastate le prime righe del pezzo sulla Umbridge per farmi capire che non c’era trippa per gatti, ma insomma, mi pare giusto spendere due parole per dire che quello che viene pubblicizzato come qualcosa è in realtà qualcos’altro. E già che ci sono per dare un’occhiata un pochino più attenta al contenuto di questo e-book, perché qualcosa di buono io ce l’ho trovato lo stesso, nonostante non fosse ciò che mi aspettavo e ciò che è stato pubblicizzato.

J.K. Rowling quando ha scoperto di non aver scritto dei racconti.
Intanto, una precisazione: i contenuti di Racconti di Hogwarts erano stati pubblicizzati come inediti, in realtà, come sono venuto a sapere dopo, erano già stati pubblicati da tempo e gratuitamente su Pottermore. Io non li avevo mai letti, ma chi invece li conosceva già suppongo abbia avuto un’ulteriore delusione.

Il primo e-book è Guida (poco) pratica di Hogwarts. Consiste fondamentalmente in una serie di scritti che approfondiscono luoghi o personaggi o eventi di Hogwarts che non hanno ricevuto un’adeguata trattazione dei libri, oppure riferiscono su di loro curiosità o notizie particolari. C’è la descrizione della sala comune di Tassorosso (scordatevi che io usi la nuova traduzione), viene descritto come è nato l’espresso per Hogwarts e come facessero prima i giovani maghi ad andare a scuola, viene raccontata la storia della Camera dei Segreti e del perché non sia stata mai scoperta, viene mostrata la storia delle GiraTempo, viene raccontata la morte di Nick-Quasi-Senza-Testa (con annessa ballata scritta da lui stesso) e la storia di Sir Cadogan. Sono storielle di solito divertenti, aggiungono al mondo di Harry Potter tutta una serie di aneddoti gradevoli e piacevoli, la noia viene normalmente tenuta lontana. Che dire, mi ha tenuto compagnia per un’oretta, e tutto sommato mi è piaciuto: apprezzo in linea generale gli approfondimenti di questo genere, danno un forte tocco di realismo al mondo in cui sono ambientate le storie. Certo, corrono il rischio di diventare noiosi, ma il tutto è trattato con la consueta ironia della Rowling, e spesso le vicende raccontate mi hanno fatto fare delle risate di gusto. Quindi accettabile, poteva essere una noia mortale e invece si salva.

Guida poco pratica a Hogwarts.
Segue poi Prodezze e passatempi pericolosi, che invece vuole raccontare le storie di alcuni personaggi importanti della storia, cioè Lupin, la Cooman e la McGranitt. Il racconto sul passato della Mcgranitt, e sulla sua vita durante le vicende raccontate durante i sette libri della serie contiene tante buone idee. Le vicende raccontate sono interessanti, ma appunto, come dicevo all’inizio, sembra molto una pagina di Wikipedia alla sezione biografia (oppure la traccia per un racconto). Non lo ripeterò tutte le volte, ma sappiate che ogni storia della vita dei personaggi di cui parlerò d’ora in poi è scritta con lo stile di una pagina di Wikipedia. Comunque, questa qui si legge bene, ma lascia poco. Alla vita della McGranitt segue un breve e interessante discorso sugli animagi e sul processo, a dir la verità un po’ assurdo anche per il mondo di Harry Potter, per trasformarsi.

La storia successiva è quella di Lupin, che è francamente meno incisiva di quella della McGranitt. Questo semplicemente perché, mentre del passato della McGranitt non sapevamo nulla, di quello di Lupin sapevamo già i fatti importanti, quindi la storia della sua vita ci dà molte meno informazioni nuove e interessanti. Non permette di conoscere da zero il percorso psicologico che ha condotto il personaggio a essere quello che è, si limita a riempire qualche buco che si poteva intuire senza problemi. Forse l’unica parte un po’ più interessante è l’inizio, il resto non aggiunge nulla (o molto poco) a quello che è narrato nei sette libri della serie. Segue poi un discorso sui lupi mannari lungo e noioso, che di nuovo aggiunge ben poco a quello che già il lettore medio della serie sapeva.

Lupin con Harry, Ron ed Hermione.

La terza storia è quella della Cooman. È breve e poco significativa, in sintesi evitabile. Di nuovo, non aggiunge assolutamente niente a quello che già era stato detto. L’approfondimento sui Veggenti è più carino.

Simpatica è invece la quarta e ultima storia, dedicata al predecessore di Hagrid nell’insegnamento di Cura delle Creature Magiche. Anche questo breve ma divertente, ritorna la forte ironia della Rowling, che strappa diversi sorrisi. Una lettura carina e davvero agile, è poco più lunga della storia della Cooman.

In sintesi, Prodezze e passatempi pericolosi si difende bene con la prima e l’ultima storia mentre con quelle in mezzo dimostra di avere ben poco da dire e a volte riesce anche ad annoiare.

Il terzo e-book è Potere, politica e poltergeist, che unisce lo stile di Prodezze e passatempi pericolosi (storie della vita di alcuni personaggi) con quello di Guida (poco) pratica di Hogwarts (dettagli su elementi del mondo in cui è ambientata la storia). La storia che narrata nel primo capitolo è quella della Umbridge. La parte sulla sua infanzia è interessante, il resto è troppo generico per poter davvero lasciare un’impressione nel lettore. È breve, e per una buona metà (quello che segue l’infanzia e la prima carriera nel Ministero della Magia) ha ben poco da raccontare.

Segue il secondo capitolo, che inizia con un elenco di tutti i Ministri della Magia della storia. A volte strappa qualche risata, ma molto spesso le informazioni che vengono date sui Ministri sono molto sciatte oppure non molto interessanti. In poche parole, un lavoro che se fosse stato scritto con una maggiore ironia sarebbe stato davvero divertente e più coinvolgente! Viene poi raccontata la storia di Azkaban. Interessante e ben congegnata devo dire, non pensavo che avrei apprezzato e invece si legge molto bene.

Il prossimo Ministro della Magia.

Il terzo capitolo racconta la vita di Lumacorno. Anche questa ha poco da dire, non aggiunge praticamente nulla a quello che sapevamo su di lui ed è anche inutilmente lunga. Di nuovo un’altra storia che riempie qualche buco nell’evoluzione del personaggio che era tranquillamente intuibile anche senza che fosse spiegato. Seguono poi informazioni dimenticabili sulle pozioni (in particolare su quella Polisucco) e un capitolo inutile e insensato sui calderoni. Almeno è breve.

Il quarto capitolo è dedicato alla storia di Raptor e il quinto a Pix. Quello su Pix fa un po’ ridere e quindi si salva per il rotto della cuffia, quello su Raptor di nuovo non ha nulla da dire e si sente.

Quindi, vediamo di tirare le conclusioni. Racconti di Hogwarts prometteva di essere un’antologia di racconti e non lo è, delle storie che contiene molte non dicono nulla di più di ciò che già si sapeva e poche altre riescono invece a presentare delle buone idee, ma appunto per lo stile da pagina di Wikipedia con cui sono scritte non le valorizzano. Per quanto mi riguarda, la storia della McGranitt e quella della Umbridge (la prima metà) sono occasioni sprecate per rispettivamente un romanzo e un racconto lungo. Le buone idee ci sono, dovrebbero essere scritte in uno stile da narrativa e non da saggistica.

Resta solo da capire perché intitolare Racconti di Hogwarts una raccolta che non ha nulla a che vedere con i racconti né con la narrativa in generale, ma che di fatto colleziona articoli pubblicati su Pottermore tra l’altro spacciandoli per inediti. Boh. Mistero.

In buona sostanza, lo consiglio? A chi cerca come me dei racconti ambientati nel mondo di Harry Potter assolutamente no. A chi cerca in generale della buona narrativa neppure, visto che di narrativa qua non c’è niente. Potrebbe essere interessato chi ha piacere ad approfondire la cultura del mondo della Rolwing, e quindi a costui lo consiglio. Sempre con la premessa che una buona metà delle informazioni contenute non approfondisce nulla.

Recensione - Fondazione e Impero di Isaac Asimov

Ho concluso la recensione di Prima Fondazione dicendo in buona sostanza che il libro era molto meh ma valeva la pena leggerlo per capire i successivi. In realtà a pensarci bene non è neppure vero questo, perché, essendo che la Trilogia della Fondazione ricopre un arco di centinaia di anni le storie che raccontano i primi due libri sono abbastanza indipendenti. Sì, certo, c’è la figura di Hari Seldon che le attraversa tutte ed è fondamentale, ma a parte quello non c’è molto altro che le leghi, tranne ovviamente l’ambientazione. Quindi la conclusione è che secondo me Prima Fondazione va letto più che altro per completezza, perché se si chiama trilogia un motivo c’è e ha poco senso saltare un libro. Se invece della completezza e della coerenza (e anche della volontà dell’autore, visto che se lui ha deciso che quello fosse il primo libro lo ha fatto con una ragione precisa) ve ne fregate e vi interessa soltanto la bella letteratura potete cominciare dal secondo. Scelta che personalmente non consiglio. Ma insomma, a decidere siete voi, io sono qua soltanto per dirvi se secondo me il libro valga o non valga la pena essere letto.

Sul primo libro della trilogia ho espresso dei dubbi. Ora siamo qui a parlare del secondo. Immergiamoci quindi di nuovo nel nostro universo tra migliaia di anni a seguire ancora le vicende della Prima Fondazione creata da Hari Seldon.
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Titolo: Fondazione e Impero
Autore Isaac Asimov
Anno: 1952                                                       
Editore: Mondadori
Pagine: 204




TRAMA 

Lo scorso volume era suddiviso in cinque parti, nelle quali seguivamo cinque trame diverse. Questa volta le parti sono solo due, e come l’altra volta hanno due protagonisti diversi. Come dice il titolo, le vicende si concentrano sugli incontri e gli scontri tra la Fondazione e l’Impero Galattico ormai in decadenza.

La prima parte segue le mire del generale dell’Impero Bel Riose, il quale vuole estendere il potere dell’Impero. È un giovane potente che ancora coltiva il sogno di rendere l’impero forte e imponente. Dopo aver sentito parlare dell’esistenza di alcuni maghi, si reca sul pianeta Siwenna dove prende contatti con un nobile decaduto, dal quale viene a conoscenza dell’esistenza della Fondazione. Cercherà dunque di conquistarla, per allargare il potere dell’Impero, e impedire che la Fondazione acquisisca potere a sua volta.

La seconda parte si svolge ottant’anni dopo, e ha come protagonista due giovani sposi, Bayta e Toran, i quali si trovano nel mezzo di un grande sconvolgimento: una figura misteriosa dal passato sconosciuto, soprannominato il Mule, ha preso il potere per mano dell’Impero su Kalgan. Toran e Bayta cercheranno, per conto dei Mercanti, che ormai hanno assunto un ruolo indipendente dalla Fondazione, di scoprire l’identità del Mule. Questo obiettivo li porterà a viaggiare fino a Kalgan e anche oltre, fino a tentare di indagare sulla misteriosa Seconda Fondazione, nominata da Hari Seldon durante una delle sue apparizioni nella Volta del Tempo.

La Bayta del nonno di Heidi.

LA MIA OPINIONE


Non avevo nascosto quello che penso su questo libro già nella recensione del precedente romanzo. Qui però serve sicuramente un approfondimento maggiore. Soffermiamoci dunque a stabilire perché Fondazione e Impero sia un romanzo migliore di Prima Fondazione e anche di per sé un ottimo libro.

Ricordate che la prima obiezione che muovevo a Prima Fondazione era che la trama era troppo episodica? Ecco, non posso certo lamentarmi in questo caso. Come dicevo prima, le sottotrame sviluppate qui sono due, ovvero meno della metà di quelle dell’altro romanzo, e questo non può che giovare alla fruizione del plot da parte del lettore. Finalmente diventa possibile simpatizzare con le vicende e con i protagonisti, e finalmente Asimov ha tempo di caratterizzarli a dovere, e quindi anche di differenziarli un po’.

Nella prima parte a dominare la scena è il generale Bel Riose. Anche se poi per una buona fetta della narrazione sparisce, è sicuramente la personalità dominante. E anche l’unica riuscita veramente bene, in realtà, visto che gli altri due protagonisti, Onum Barr e Lathan Devers, non hanno né lo stesso carisma né lo stesso approfondimento psicologico, mentre Bel Riose appare caratterizzato in modo accurato fin dall’inizio. Non solo, i punti a lui dedicati si leggono molto meglio di quelli dedicati Barr e Devers. Perché appunto, Riose è davvero in grado di attirare l’attenzione su di sé, di reggere il peso di una storia. Non è uno dei miei personaggi preferiti a dir la verità, ma non posso negare che sia meglio costruito degli altri due. E appunto per questo le parti che lo vedono protagonista sono piacevoli da leggere.

Ma la vera botta di vita in fatto di personaggi arriva nella seconda parte. Per Bayta e Toran si può fare un discorso simile a quello che riguarda Bel Riose: bei personaggi, ben strutturati, non banali né asettici, sono in grado di portare il lettore a simpatizzare con loro e di sostenere il peso di una storia. Il personaggio che però riesce a dare una svolta alla storia è il Mule.

L'ultimo ruolo del Mule al cinema.
Il Mule appare relativamente tardi (in realtà non è proprio così, ma preferisco non dire altro per non fare spoiler), eppure riesce a rimanere impresso come se lo si conoscesse dalla prima pagina. È un personaggio che non ci si aspetta, non perché sia particolarmente originale, ma perché riesce a portare la trama su binari che non avrei mai detto che avrebbe preso. È ben caratterizzato, davvero bene, ben costruito e ben approfondito. Il suo passato non è nulla di nuovo sotto il sole, ma contribuisce in modo coerente a renderlo quello che è quando appare nel romanzo. È un personaggio astuto e calcolatore, ma in grado di svelare un lato umano di sé particolarmente sensibile e toccante, e soffermarsi su questo è inusuale per Asimov, di solito impegnato a badare alle strategie e agli aspetti per così dire tattici della trama, e per questo non posso negare di averlo apprezzato davvero molto. Alla fine del romanzo provavo un moto di simpatia e tenerezza verso il Mule, desideravo sinceramente per lui una vita diversa, una vita che potesse offrirgli dolcezza e serenità, amore e comprensione. Anche ora che ho concluso la lettura diverso tempo fa il Mule resta ancora vivo nella mia mente e nel mio immaginario. E non ne uscirà tanto facilmente! Quindi sì, il Mule è stato eletto all’unanimità miglior personaggio della Trilogia.

Se il Mule è questo gran personaggio, anche i personaggi secondari si difendono davvero bene. Ebling Miss è caratterizzato a sufficienza, e ancora di più lo è Han Pritcher, e il nuovo sindaco della Fondazione Indbur. Insomma, non ci si può lamentare, anzi, Asimov merita i complimenti per il lavoro che ha fatto in questo libro nella cura dei personaggi! È sicuramente migliore di quello del libro precedente ed è ottimo anche considerato in sé stesso.

A un miglioramento della costruzione dei personaggi si accompagna una migliore costruzione della trama. Come dicevo all’inizio, è finalmente possibile simpatizzare con i personaggi perché le sottotrame che compongono il romanzo non sono brevi ed episodiche ma ampie e ben svolte. L’abilità di Asimov che ho lodato nella precedente recensione qui rimane invariata e si esprime finalmente al meglio, come non avveniva in Prima Fondazione. Seguire gli snodi del plot è un piacere, suscita davvero interesse in chi legge. Tra le altre cose, Asimov è particolarmente diretto e va dritto al punto, non si perde mai in dettagli inutili e non spende quasi mai più parole di quante ne servano, quindi la trama scorre serrata e incalzante.

"Compari, drago Shenron!"

Con il fatto che le due parti del libro sono sviluppate e non trascurate o scritte affrettatamente Asimov trova anche il tempo di inserire diverse sottotrame, che vanno poi a intrecciarsi con la trama principale. L’ho trovata una scelta azzeccata: oltre ad arricchire la storia raccontata con ulteriori dettagli, permette di approfondire dei personaggi che altrimenti sarebbero rimasti in secondo piano, come il generale Han Pritcher. Inoltre non annoiano per nulla, né sono utilizzate come modo becero per sospendere la narrazione della trama principale e quindi generare tensione facile.

La seconda parte inserisce, come dicevo all’inizio, il mistero della Seconda Fondazione, che risulta davvero interessante per chi legge. Le ultime pagine, che sono basate principalmente sulle indagini su questa fantomatica Fondazione, sono una sequela di eventi inaspettati che cambiano le carte in tavola. Si seguono con foga e trepidazione, in attesa che venga svelato il segreto principale del romanzo e della saga, il segreto che ha stupito i personaggi che ne sono venuti a conoscenza. Quindi il fatto che non si sappia dove si trovi la Seconda Fondazione e quale sia la sua natura è un’ottima idea e molto ben gestita, che fornisce al lettore quella dose di mistero che non viene del tutto rivelata e che quindi mantiene vivo l’interesse per il romanzo successivo e contemporaneamente mette carne al fuoco per il climax finale.

Isaac Asimov e Paolo Villaggio in un noto locale per scrittori di fantascienza. 
Nella precedente recensione dicevo che la fantascienza di Asimov si distacca dall’idea comune di fantascienza in quanto si tiene distante dagli stereotipi del genere (tipo gli alieni), che per altro all’epoca in cui è stata scritta ancora tali non erano, e quindi Asimov non avrebbe avuto motivo di allontanarsene se non per una scelta di gusti suoi personali. Fermo restando questo, in questa secondo romanzo qualche elemento fuori dalla norma comincia a comparire. Non faccio spoiler, ma comunque lo spirito generale della trilogia non viene rotto: partiva per essere qualcosa che si basasse su elementi fondamentalmente realistici stando lontano dagli aspetti più fantasiosi della fantascienza e continua così, e anche quando si mette a parlare di creature che non sono umani, o almeno non del tutto, li tratta con cautela, distacco, e comunque li inserisce solo quando è strettamente necessario. Perciò questo tocco di fantasia risulta ancora più apprezzabile, proprio perché centellinato con attenzione.

La scrittura è sempre buona, e in diversi punti diventa eccellente. Un esempio su tutti, la scena in cui il buffone del Mule, Magnifico, suona il visisonor, uno strumento particolare che in pratica genera immagini in base ai suoni che produce. In questo passo Asimov descrive in maniera precisa, efficace e anche lirica il susseguirsi delle immagini, il loro trasformarsi ciascuna in un’altra. Il lettore si trova di fronte a una parata di colori, linee e forme che brillano ai suoi occhi come fuochi d’artificio. Questo è già notevole di per sé, visto che una sequenza di questa intensità è qualcosa per cui molti scrittori venderebbero la mamma, ma diventa ancora più interessante se si pensa che lo stile di Asimov è di solito essenziale, asciutto e abbastanza asettico, riesce a conquistare con il fatto che alterna un ritmo pacato con uno più incalzante ma sicuramente si tiene lontano dal cercare di essere poetico o emotivo. Sicuramente queste caratteristiche non sono nelle corde di Asimov, e perciò stupisce che quando le inserisce non stonano ma anzi, appunto risultano molto efficaci. Tanto di cappello ad Asimov!

IN CONCLUSIONE


Le due parti di cui è composto Fondazione e Impero si compensano abbastanza tra di loro: la prima è così così, non al livello della quarta parte di Prima Fondazione ma comunque sospesa nel limbo della mediocrità, la seconda parte è straordinaria, complice una scrittura efficace e in certi punti anche molto ispirata e un cast di personaggi davvero ben costruiti, realistici e psicologicamente approfonditi. Il romanzo coinvolge chi legge grazie alla trama e ai misteri che mette in campo senza rivelare, con una sapiente gestione delle informazioni da fornire al lettore e dei ritmi narrativi. Consiglio vivamente la lettura, vi troverete catapultati in un mondo affascinante di intrighi e personaggi che diventeranno vostri compagni, un mondo che vi si dipanerà davanti agli occhi con la spettacolarità di un immenso cielo stellato.

VOTO: