lunedì 27 giugno 2016

Recensione - Terre desolate di Stephen King (Torre Nera #3)

Abbiamo conosciuto Roland ne L’ultimo cavaliere. Abbiamo conosciuto i personaggi comprimari suoi ne La chiamata dei tre. Ora è finalmente il momento di metterci davvero alla ricerca della Torre Nera. Cominciamo insieme a Roland, Eddie e Susannah il viaggio verso il luogo che sostiene tutti i mondi. Del resto, l’esperienza del libro precedente era stata molto positiva. Sicuramente Stephen King, il paroliere (come ama definirsi lui stesso), non deluderà la fiducia di noi Fedeli Lettori (anche qui per usare le sue parole).

Bando alle ciance, cominciamo!
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Titolo: Terre desolate
Autore Stephen King
Anno: 1991
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 438




TRAMA

Il libro riprende alcuni mesi dopo la fine de La chiamata dei tre. In questo lasso di tempo Roland ha insegnato a Susannah e a Eddie a sparare, con l’obiettivo di trasformarli in pistoleri, ruolo che non consiste semplicemente nel maneggiare delle pistole ma nell’assimilare una serie di valori che nello sparare trovano la loro completa realizzazione (ricordo a proposito ciò che devono ripetere prima di sparare, quella litania dove sbagliare comporta il “dimenticare il volto del proprio padre”, che significa aver perso quei valori guida attraverso cui orientare la vita). Sarà a questo punto che i tre decideranno di partire lungo il sentiero che congiunge due Vettori (ovvero due colonne portanti dei mondi). La Torre Nera si trova proprio nel punto di incrocio di tutti i sentieri che collegano i vettori.

Ma le cose non sono così semplici. Roland comincia ad essere in crisi, e la causa dei suoi problemi è da cercare in Jake, la sagoma di cartone il ragazzino morto alla fine del primo libro. Infatti, dopo la morte di Jack Mort (provocata da Roland nel libro precedente) l’omicidio di Jake perpetrato da quest’ultimo, omicidio che aveva permesso a Jake di finire nel mondo di Roland, è annullato (Roland ha ucciso Mort prima che ammazzasse Jake) e quindi il ragazzino è ancora vivo e soffre di crisi di identità: una parte di lui è più che convinta di aver trascorso del tempo nel deserto e ha ricordi vividi di quel periodo, l’altra parte ritiene queste idee un cumulo di idiozie. Jake seguirà segnali misteriosi mandatigli da chissà chi, troverà la rosa, e infine dovrà confrontarsi con la realtà, e capire se i ricordi del deserto sono realtà oppure finzione.
"Se non leggete i miei libri vi farò un'offerta che non potrete rifiutare"

LA MIA OPINIONE


Quando ci si mette Stephen King riesce a tirare fuori dei capolavori. Quando non ci si mette gli escono delle ciofeche. Terre desolate non è né l’uno né l’altro.

In realtà definire questo romanzo è difficile. La prima impressione che resta è di totale indifferenza. Che cosa ho appena letto? Un libro che aveva passi molto incisivi e altri da mettersi le mani nei capelli. E che quindi nel complesso vanno a bilanciarsi e ad annullarsi. E alla fine al lettore rimane ben poco.

Non posso definirlo un brutto romanzo, perché non posso dire che non mi è piaciuto, non come non mi è piaciuto L’ultimo cavaliere, non come non mi è piaciuto Le notti di Salem (sul quale scriverò qualche riga prima o poi). Ma alla fin fine i libri che mi sono piaciuti sono altri.

Che cosa posso dire di positivo? La scrittura sale decisamente di livello. Ricordate quello che dicevo a proposito de La chiamata dei tre, che la scrittura tutto sommato nella media era in realtà l’anello un po’ più debole di tutta la per gli altri aspetti eccellente architettura del romanzo? Ecco, sicuramente questo non si può dire riguardo a Terre desolate. Qui troviamo uno Stephen King davvero in forma sotto questo punto di vista, in grado di regalare momenti di vera tensione (come nell’avventura di Jake nella casa stregata) e altri di pace e serenità (come la scena a Crocefiume). La penna di King si destreggia con maestria tra le situazioni che vuole creare e le emozioni che vuole suscitare. Mi è capitato spesso di fermarmi a riflettere su quanto fosse scritta bene la scena che stavo leggendo, con i dettagli giusti segnalati al punto giusto in modo da caratterizzare la situazione e renderla di impatto sul lettore. Dal punto di vista puramente tecnico, quindi, trovo ben poco da contestare. Anzi, se La chiamata dei tre fosse stato scritto con questo stile sarebbe stato un romanzo ancora migliore!
La casa stregata menzionata sopra
Ma lo stile è forse l’unica caratteristica che promuovo in toto. Lo stile e la caratterizzazione di Jake. Se vi ricordate (e se non lo ricordavate dovrebbe magari ve lo ha fatto tornare in mente il mio commento di poche righe fa), nella recensione de L’ultimo cavaliere lamentavo l’inconsistenza del personaggio di Jake. Ecco, in Terre desolate King sopperisce con abilità a questa mancanza, dando a Jake quella caratterizzazione che durante la sua precedente apparizione mancava. Il Jake che va a scuola, che vede il deserto dietro ogni porta che apre, che ha amnesie, che ha paura di essere pazzo, che legge con sgomento un tema che era certo di non aver scritto e che contiene frasi incomprensibili (e qui tra l’altro c’è una gustosa frecciatina abbastanza scoperta al modo intellettualoide di ragionare di certe persone), che gira disorientato per la città, senza capire neppure lui che cosa sta facendo, è una persona reale. È un ragazzino con emozioni, sentimenti, con un modo di pensare. Non quella figurina spessa come un foglio di carta del primo libro. Tra l’altro Jake è pure simpatico. Non quanto Eddie, ma le sue avventure si seguono volentieri anche grazie alla sua personalità.

E fin qui ho elencato cose buone. Ma, come accennavo prima, sono le uniche. Il resto aleggia in un’atmosfera di mediocrità che a volte riesce a elevarsi sopra il livello medio altre volte ne va molto sotto.
Susannah resta ancora il personaggio un po’ anonimo de La chiamata dei tre. Come avevo detto in quella recensione, bisognerà aspettare il sesto libro per avere una buona e precisa caratterizzazione di Susannah. Giova invece al team dei protagonisti l’aggiunta del bimbolo Oy, che con la sua simpatia rende davvero piacevole la lettura in certi punti. Poi io sono sensibilissimo a cuccioli e quant’altro (lo so, è una cosa estremamente maschia, ma che ci volete fare, su certi punti proprio casco come una pera cotta) e quindi la sua presenza già di per sé era un bel tocco che corona ben bene la squadra dei viaggiatori della Torre Nera. È un po’ la ciliegina sulla torta.

Siamo invece messi peggio dal punto di vista degli antagonisti. In questo romanzo ne troviamo principalmente due, ovvero Gasher e il suo capo Tick-Tock (la banda conta anche altri membri, ma non vengono particolarmente approfonditi). Gasher non è un personaggio brillantissimo, ma alla fine della fiera risulta accettabile è un pazzo assassino, ma è un pazzo assassino tutto sommato con un po’ di personalità, ed è cattivo senza risultare ridicolo. Ripeto, non è il massimo, ma va bene, specialmente per un personaggio che nella trama ha un ruolo relativamente importante.

Tick-Tock invece  è il principale antagonista del libro, e ha un ruolo più ampio, tant’è vero che farà anche una piccola apparizione nel romanzo successivo. Ecco, Tick-Tock è in poche parole imbarazzante. È pure lui un pazzo, ma va bene, in città sono più o meno tutti i pazzi. Il fatto è che Tick-Tock è cattivo e ridicolo. Basti sapere che…ma che ve lo dico a fare? Leggete qui e fatevi la vostra idea.

La donna bruna mandò un altro grido stridulo. Tick-Tock si girò per metà verso di lei con un sorriso pigro negli angoli della bocca e prima che Jake potesse rendersi conto di che cosa stava succedendo, di che cosa in realtà era già successo, la donna indietreggiava barcollando, con gli occhi strabuzzati per la sorpresa e il dolore, mentre con le mani annaspava su uno strano tumore che le era apparso al centro del petto. [Jake capisce che Tick-Tock le ha tirato un pugnale, la donna muore dopo mezz’ora di movimenti inconsulti] <<Gliel’avevo detto che mi dava fastidio quella risata>> commentò Tick-Tock.
La mia reazione quando leggo certe cose
Ma Stephen King, seriamente? Ci mancava solo che Tick-Tock si esibisse in un latrato gutturale con le braccia allargate e gli occhi rossi, dicendo:<<Ma quanto sono cattivo!>>

Capite bene che è un po’ tanto chiedere al lettore di prendere sul serio un antagonista del genere. In una parodia o comunque in un romanzo che non voglia essere preso sul serio andrebbe bene, ma qui proprio no.

Inoltre, e secondo me è questo il problema principale, la trama spesso non conquista. Le prime duecento pagine più o meno raccontano di Jake e del suo tentativo di entrare nel mondo di Roland e di Roland, Dean e Susannah che tentano di aiutare Jake dalla loro parte. Ecco, la parte nel mondo di Jake, ovvero nel nostro mondo, si legge bene ed è interessante, mentre la parte nel mondo di Roland è più noiosa, perché succedono meno cose e offre meno spunti. Anche quando il gruppo si unisce, la narrazione procede in maniera piana e poco coinvolgente. Per esempio, la parte del viaggio a Crocefiume trasferisce sì perfettamente il senso di serenità e pace che provano i personaggi, ma poi risulta anche decisamente poco coinvolgente. Quando invece il gruppo arriva alla città di Lud ed è costretto a dividersi, la parte di Jake e Roland è interessante, quella di Susannah ed Eddie molto meno. La trama si riprende poi nel finale.

Come si può notare, ci sono sì i punti interessanti ma sono intervallati da altri molto più piatti, che rallentano la narrazione e spengono la voglia di proseguire. E questo è male, sia perché il libro precedente era una sorpresa a ogni pagina sfogliata sia perché questo ha dei passi che davvero ti impediscono di staccarti dalla lettura (nomino di nuovo l’avventura di Jake nella casa stregata perché sul serio mi è rimasto impresso). Se fosse scritto tutto a quei livelli sarebbe davvero un gran libro, anche superiore a La chiamata dei tre.

Ci sono poi alcuni pezzi che non risultano senza arte né parte e neppure risultano coinvolgenti, e altri che sono semplicemente trash, tipo la lotta tra Susannah (per l’occasione tramutata di nuovo in Detta Stinti-cazzuti-vi-mangerò-le-palle Walker) e il demone. Che di per sé è ben scritto, se non fosse che più che un romanzo di Stephen King sembra la sceneggiatura di un film porno di bassa lega. Ora, nessuno vieta a Stephen King di far sì che il sesso sia l’unico modo per combattere i demoni, ma sinceramente io i dialoghi di Odetta li ho trovati ridicoli. Non fosse per i dialoghi trash, come dicevo prima, non avrei nulla da dire, perché la scrittura per il resto è davvero efficace. Ma proprio per questo mi lamento: perché questa differenza crea uno stridore che dà fastidio.

E se non vi vanno gli indovinelli,
una partita a carte!
Un’ultima nota sul il finale, con l’apparizione di Blaine il Mono, che sarebbe un po’ un tentativo di rinnovare (senza perdere tensione, del resto parliamo di Stephen King) il cliché del fantasy da Gollum in poi della gara di indovinelli. Che dire, ho apprezzato, come ho apprezzato il fatto che Blaine abbia una caratterizzazione. E forse questo è l’unico punto che davvero suona inaspettato in una trama che fino ad ora è proseguita senza particolari colpi di scena.

E ora permettetemi un’altra breve considerazione sul finale, questa volta sotto spoiler.

[SPOILER]Ho sentito spesso persone lamentarsi del finale del libro troncato a metà di netto. Non è un’interruzione da poco: si decide di cominciare una gara di indovinelli contro Blaine e toh, il libro finisce, ci vediamo alla prossima. In realtà questo aspetto a me non ha dato fastidio per niente, anzi, ho apprezzato una scelta così coraggiosa. Forse è stato perché avevo già il seguito, La sfera del buio, pronto sulla scrivania. Ma ho apprezzato. Mi distacco quindi decisamente da quanti critichino il brusco taglio alla narrazione provocato da questo finale improvviso. [SPOILER]

Ah, quasi dimenticavo: in questo libro viene per la prima volta introdotto il concetto di Ka-tet come unione di ka, di destini. Roland, Jake, Eddie, Susannah e Oy sono Ka-tet, sono uno di tanti. Sono persone che condividono il proprio futuro a un livello più profondo di una semplice comunanza di obiettivi. Sono cinque che proseguono con un cuore solo, una mente sola, una volontà sola. Potrebbe sembrare una fonte di scelte narrative facili. In realtà non è così, e lo si vedrà bene anche e specialmente nei libri successivi.

IN CONCLUSIONE


Terre desolate è un libro che non fa né caldo né freddo. Che offre esempi di ottima narrativa ma anche cadute di stile considerevoli. Che presenta personaggi ben caratterizzati ma anche Tick-Tock. Che alla fine lascia un senso di insoddisfazione, nonostante abbia pure degli aspetti positivi. In breve, non pessimo, ma neppure buono. Passabile, se vogliamo, ma nel senso di passarlo velocemente per leggere il successivo. Se letto in poco tempo forse rende meglio, io ho impiegato due settimane. Forse se letto in cinque o sei giorni si sente meno lo scarso coinvolgimento della trama. Probabilmente non lo saprò mai.

VOTO:




giovedì 16 giugno 2016

Recensione - Chrno Crusade di Daisuke Moriyama

Come promesso nella recensione di Monster, è giunto il momento di parlare un po’ di Crhno Crusade.
Il mio primo approccio è stato guardare l’anime diversi anni fa, quando ero ancora alle medie ed ero nel periodo della mia vita in cui la mia capacità di giudizio era pari a zero. Perciò ricordo di averlo apprezzato tantissimo. Ora, a distanza di anni, ho deciso di leggere il manga, sperando di restare soddisfatto come lo era stato diverse estati fa guardando l’anime. Del resto, se l’anime era così bello il manga non poteva che essere un altro capolavoro, no?
Ehm, non proprio.
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Titolo: Chrno Crusade
Autore: Daisuke Moriyama
Anno: 1999                                                      
Volumi: 8
Editore: Magic Press




TRAMA

Rosette è una suora che appartiene all’Ordine di Maddalena, un gruppo di esorcisti che combatte i demoni in America negli anni ’30 del secolo scorso. Ad accompagnarla però c’è proprio un demone, Chrno, che in passato ha stretto un misterioso patto con la ragazza. I due hanno lo scopo di trovare il fratello di Rosette, Joshua, e nel frattempo porre fine alle macchinazioni del suo rapitore, Aion, demone ribelle che era stato anni prima alleato di Chrno, prima che quest’ultimo lo tradisse. La battaglia personale di Rosette (alla quale si uniscono anche altri personaggi, come la timida e insicura Azmaria e la strega dei gioielli Satella) contro Aion per il salvataggio di Joshua diventa perciò anche la battaglia per il mondo, perché non diventi vittima dei piani crudeli del demone. Tuttavia, non tutto è così semplice. Ci sono molti punti oscuri e segreti non svelati, che potrebbero rendere qualunque finale, sia che Aion vinca sia che perda, una sconfitta.
Aion prende il nome dalla tipica esclamazione del mignolo contro la gamba del tavolo

LA MIA OPINIONE


Cioè, le premesse meritano. Voglio dire, a me la trama attirava. L’ambientazione è originale per essere un manga, la lotta tra demoni e forze del bene un po’ meno ma insomma, questo, a me perlomeno, non ha tolto la voglia di leggere. Tra l’altro è anche abbastanza breve, sono solo otto volumi. Tra l’altro basta sfogliare il primo capitolo per rendersi conto che è difficile annoiarsi, si legge molto bene. In effetti, pure troppo.

Ebbene sì, Chrno Crusade è troppo scorrevole. Non fai in tempo a capire quello che sta succedendo che nel frattempo sono già accadute altre ventisei cose. Non fai in tempo a realizzare che il duello tra Chrno e il nemico è cominciato che toh, sono già passate venti pagine, è finito, passiamo subito al prossimo evento, non sia mai che la trama risulti statica!
Rosette, la pacatezza fatta suora
Il primo volume è il peggiore sotto questo punto di vista. Gli eventi scorrono sotto gli occhi del lettore senza che questo possa empatizzare con i personaggi o con quello che succede. Complice di questo è anche una sceneggiatura a mio avviso pessima, che molto spesso concentra in una vignetta veramente un sacco di cose.  Allungare un po’ il brodo, in questo caso, sarebbe stato un balsamo! L’autore ha fretta di concludere per non annoiare, incalza il lettore e il risultato è che di quello che succede non resta niente, soltanto una grossa domanda:”già finito?”.

Esistono dei tempi nella narrazione. E stringere troppo è a volte più deleterio che allungare. Così neppure i momenti comici, che rivestono un ruolo discretamente importante visto che c’è un numero non esiguo, riescono a fare ridere. Viene dedicato loro un secondo e poi via a parlare d’altro, come faccio a divertirmi? Far ridere in un fumetto è così difficile anche perché richiede che il lettore simpatizzi non poco con i personaggi e le situazioni, se ne faccia coinvolgere. Una storia distaccata non è divertente, a meno che non si faccia ironia come per esempio Manzoni (che più che sulle situazioni punta sul commento sarcastico del narratore), ma non è questo il caso. E se tutto scorre troppo rapido e alle situazioni viene dedicato troppo poco tempo queste scivolano via, e chi legge non simpatizza.

È difficile rapportarsi con i personaggi anche perché molto spesso sono delle macchiette. Dei quattro protagonisti si salva davvero soltanto Rosette, che presenta una personalità complessa, elaborata e coerente: è una ragazza energica, allegra, che quando si trova di fronte a una difficoltà cerca di trovarci il buono più che farsi abbattere dagli aspetti negativi. Non dico che sia un personaggio che mi sta davvero simpatico, anzi, i suoi atteggiamenti spesso sono un po’eccessivi, per quanto mi riguarda; ma non posso certo dire che non sia ben costruito.
Questo post è per i miei venticinque lettori...
Il problema sono gli altri. Azmaria ha qualche abbozzo di personalità, è timida e insicura, ma oltre questo non va. Chrno e Satella invece sono vuoti. Non hanno personalità, non hanno carattere, non hanno nulla. Non mi vengono in mente aggettivi per descriverli, perché non mi vengono in mente momenti in cui hanno fatto qualcosa che non rientrasse nel loro “ruolo” all’interno della trama. E se il personaggio che dà il titolo al manga e che si suppone quindi essere protagonista non è ben caratterizzato bé, qualche problema è evidente che ci sia.

A parte forse bisognerebbe parlare di Joshua, il quale una personalità la possiede, solo che appare talmente poco che non riesce ad avere un grosso impatto nella mente del lettore. Alla fine di tutto, si ha la sensazione di un’occasione sprecata, di un personaggio che poteva diventare discreto e invece non lo è diventato perché è stato tenuto troppo da parte.

I restanti comprimari più che essere personaggi ricoprono un ruolo. C’è il reverendo che fa andare avanti la trama quando serve, c’è la madre superiora che fa andare avanti la trama quando serve, ci sono gli antagonisti che frenano un po’ la trama quando serve, c’è il vecchio pervertito che non serve a niente ma spia le suore sotto la doccia, eccetera eccetera. Roba assolutamente dimenticabile.
Il maestro del vecchio pervertito
In ultimo, gli antagonisti. Senza arte né parte, direi. Non sono pessimi (per fare un paragone con un libro, non sono quell’orribile parodia di un cattivo che è Tick Tock in Terre desolate, tra l’altro prossimamente su questi schermi), ma questo non significa che possano essere considerati personaggi di spessore. Si collocano in quella zona grigia tra il buono e il brutto. Sono in piena mediocrità.

La trama non appassiona, non conquista, scorre e di lei non resta nulla. All’inizio è troppo episodica perché realmente possa entusiasmare (non che sia sbagliato o negativo di per sé che la trama sia episodica, ma in questo è proprio questo fatto che mi ha impedito davvero di apprezzare), poi diventa effettivamente  più unitaria, ma sempre per quel famoso problema di gestione dei tempi narrativi scivola via lasciando al lettore poco o niente. Rosette e Chrno sono sul treno delle marionette, Rosette e Chrno incontrano Satella che prima è buona e poi cattiva, Rosette e Chrno incappano in una nuova avventura, tutto che fila rapido senza neppure che il lettore se ne renda conto. A ripensarci mi sembra quando mi tornano in mente vecchi ricordi senza importanza, di cui magari resta vivo qualche dettaglio singolo e curioso ma tutto il resto è stato del tutto dimenticato.

È uno di quei momenti in cui direi che 8 volumi sono pochi: se la trama avesse avuto il tempo di essere narrata in modo più accurato e che lasciasse un po’ più un segno sul lettore l’effetto sarebbe stato decisamente migliore. Perciò, qualche volume in più non avrebbe certo fatto male. Ovviamente, se già nella trama principale i tempi sono accorciati nei flashback (che sono una sezione decisamente importante della storia) lo sono ancora di più: il primo flashback di Chrno e Rosette si dimentica nel giro di cinque minuti, quello di Aion e Chrno invece lascia un po’ più il segno, ma siamo ancora sotto il minimo sindacale.
Satella in tutto il suo spessore
Ci sono soltanto due punti che a parer mio restano impressi. Uno è nel quarto volume, ed è quando il gruppo dei quattro protagonisti si scatta la prima e ultima foto insieme; l’intervento del narratore contribuisce a caricare l’evento di pathos e, soprattutto, la narrazione si ferma decisamente, dando tempo al lettore di gustarsi l’episodio e farsi pervadere dal senso di nostalgia che stringe il cuore dei personaggi. L’altra cosa che resta impressa è, invece, l’intero ottavo e ultimo volume, che è su un livello nettamente superiore rispetto agli altri sette. Abbiamo (come prima) un rallentamento della trama, che si sofferma sui punti importanti e su quelli che vogliono lasciare il segno sul lettore, abbiamo nuovi interventi positivi del narratore, insomma, sembra che Moryiama abbia battuto la fiacca per tutto il tempo per poi ricordarsi di saper scrivere soltanto per gli ultimi dieci e passa capitoli. Il finale è forte carico di emozioni, forse un po’ tanto tarallucci e vino visto quello che lo precede, ma non posso lamentarmi. Verrebbe da dire che se tutto il manga fosse come l’ultimo volume sarebbe sì un po’ più lungo, ma anche molto molto migliore.

IN CONCLUSIONE


Cosa rimane da dire di Chrno Crusade? È stata una delusione. Ok, come accennavo all’inizio quando ho visto l’anime non capivo neanche da che parte fossi girato, ma non riesco a credere di aver toppato così alla grande. Spero che l’anime sia migliore, spero che i miei buoni ricordi siano in qualche modo giustificati. Non ho troppa voglia di guardarlo per verificare, ma lo spero.

Lo consiglio, quindi? Naturalmente no. Anche se l’ultimo volume è bello, non vale la lettura disastrosa degli altri sette.

Appuntamento prossimamente su questi schermi con il ritorno di Naoki Urasawa e la recensione di 20th Century Boys!

IL GIUDIZIO DI HISOKA:

sabato 4 giugno 2016

Perché leggere i classici?

Ok, in realtà il titolo non è del tutto esatto. Non voglio parlare delle ragioni oggettive e assolute per le quali bisogna leggere le opere della letteratura antica, anche perché non credo ci siano. Quindi il titolo ideale sarebbe “perché leggo i classici”. L’obiettivo è evidenziare le motivazioni che spingono me a farlo, e sperare così di trovare qualcuno che la pensi allo stesso modo. E magari, che c’è di male a sperare?, dare a qualcuno delle ragioni per cominciare.
Calvino ha preso ispirazione dal mio post
Per amor di precisione, specifico che quando parlo di classici mi riferisco principalmente alla letteratura greca e latina, perché è da quell’ambito che attingo la maggior parte delle mie letture. Questo naturalmente non esclude, anzi presuppone, che il mio discorso possa essere applicato anche a tutte le altre letterature. Perciò, quello che voglio dire pone le sue basi in una riflessione sui classici greci e latini, ma può essere esteso tranquillamente anche, che ne so, a Leopardi, o a qualunque altro autore italiano. Lo dico perché nel caso ipotetico e insperato in cui qualcuno si convincesse a dare una chance ai classici leggendo quello che scrivo non si limiti a porre la sua attenzione a quello che è stato composto tra Omero e Apuleio ma anzi, allarghi i propri orizzonti più che può.

Il mio primo contatto con i classici é stato quando avevo quindici anni. Avevo scoperto l'esistenza delle edizioni con il testo a fronte, e questo mi aveva gasato da morire. Perciò, ero corso in libreria a comprare un'edizione dell'Odissea che avesse sia testo italiano che testo greco e l'avevo letta avidamente. Ci avevo impiegato qualcosa come due mesi e mezzo, ma soltanto perché leggevo prima in greco e poi in italiano. E le parti in greco mi mettevano in enorme difficoltà. Ma la mia voglia di proseguire fino a portare a termine la lettura era enorme.

Il mio interesse all'epoca era prevalentemente linguistico: era un anno e mezzo che studiavo greco ma non avevo mai visto un testo scritto e concepito in quella lingua da una persona che la parlava quotidianamente. Fino a quel momento greco era stata soltanto una materia scolastica. Invece, trovarmi di fronte l'Odissea interamente in greco mi ha posto di fronte l'intera situazione in modo assai diverso. Mi ha fatto comprendere che greco non é soltanto qualcosa che resta chiuso nell'ambito della scuola, ma una cultura. Non un mero strumento per esercitare la mia mente, ma qualcosa che era stato vivo, concreto, reale.
Omero e Apuleio
Questo dunque è stato il primo approccio, quello che rappresenta in un certo senso la mia scoperta dei classici. Per il Natale successivo mi sono fatto regalare altri libri con il testo a fronte (mi ricordo di aver chiesto il De bello gallico e l’Iliade, ma non sono gli unici) e li ho letti avidamente. In parallelo, sono passato dalla quinta ginnasio al primo anno di liceo, e il modo in cui venivano svolte le materie di greco e latino è cambiato: se prima ci si concentrava sulla grammatica, ora si passava a studiare la letteratura. Mi sono trovato di fronte a delle idee, non più regole grammaticali, non più sistemi meccanici da conoscere per interpretare ciò che avevo scritto di fronte. C’era un salto di qualità. A quel punto mi si chiedeva di ragionare non su come era scritto il testo, ma su cosa c’era scritto.

Inoltre, fatto non da trascurare, ho cominciato anche a studiare la filosofia, che consiste proprio in questo, nel confrontarsi con le opinioni di persone del passato. Persone che avevano studiato e ragionato, persone di una certa levatura. In sostanza, la vera novità del primo anno di liceo è che sono stato messo di fronte ai pensieri di altri riguardo alle domande che tutti ci poniamo più o meno in quel periodo di età, ovvero che senso ho, dove vado, e quant’altro.

Talete
Ho visto tante persone (la maggioranza dei miei compagni di classe, a dirla tutta) imparare senza assimilare. Conoscevano benissimo, che ne so, quello che dice Solone nell’Elegia alle Muse, oppure quello che pensa Talete sull’arché. Ma di questo a loro non restava nulla. Era come se avessero imparato una serie di parole a caso una dietro l’altra: potevano ricordarle meglio o peggio, potevano anche trovare dei collegamenti tra di loro, ma di certo non assimilavano nulla. La loro conoscenza era nozionistica e sterile, era la conoscenza intrapresa per dovere, per ottenere un voto alto magari, ma non per passione. Era la conoscenza senza amore per                                  l’oggetto conosciuto.

Quello che ho sentito succedere in me era diverso, e la ragione è molto semplice: io di carattere sono un tremendo rompiscatole, e per me è davvero difficile, nel momento in cui mi trovo a contatto con un’opinione, non tentare di capire quanto io sia d’accordo ed eventualmente contestarla. In sostanza, sono uno che deve sempre dire la sua. Perciò, quando mi sono trovato di fronte la letteratura latina e quella greca e poi la filosofia (forte già della passione che avevo provato gli anni precedenti studiando la grammatica) non ho potuto che cercare di capire quanto io fossi d’accordo con quello che studiavo. Non riuscivo a imparare asetticamente, era qualcosa che proprio non rientrava nelle mie corde. E qui è successo il miracolo.

Mi sono reso conto che quello che leggevo non solo non doveva essere contestato, anzi. Ho trovato tanta verità, tanta profondità, tanta bellezza come mai da nessun’altra parte.Quei testi esercitavano su di me un doppio fascino: da un lato erano scritti in quelle lingue che avevo amato quando le avevo studiate i due anni precedenti, dall'altro contenevano idee che in qualche modo andavano incontro a quello che era (e per molti aspetti é ancora) il mio modo di vedere il mondo. Trovavo disprezzato il modo di vivere superficiale che ho sempre visto intorno a me e ho sempre detestato, ed esaltato invece quello che mi è sempre sembrato più congeniale e più vero, e che consiste nel non fermarsi alla scorza delle cose, al piacere del qui e ora ma cercare qualcosa di più alto, qualcosa di stabile che non sia solo piacere dei sensi ma sia soddisfazione a tutto tondo. La ricerca di emozioni intense come quelle che mi può suscitare una poesia o un quadro, e contemporaneamente la necessità di una crescita interna volta al miglioramento dell’individuo.

Ho visto fin dall’inizio i classici come una fonte inesauribile di insegnamenti, come uno specchio in cui si riflette quella parte dell’uomo che si interroga su sé stessa e sul proprio ruolo nel mondo, quella parte che non è mai cambiata (e mai cambierà!) col trascorrere dei secoli. Perciò, la prima e più importante ragione per la quale leggo i classici è che grazie a loro mi trovo in costante confronto con quello che dovrei essere e che voglio diventare, è che facendo mie quelle che sono le loro idee posso davvero crescere e migliorare sempre di più. I classici sono la scuola di vita più importante, più vera e più sentita che io abbia mai visto.
Il monumento funebre di Leonardo Bruni,
colui che più di tutti nel rinascimento ha desiderato
un'unione tra cultura classica e moderna,
volta al miglioramento dell'individuo
Questo si colloca all’opposto del sapere nozionistico cui accennavo prima, e che io disprezzo, e che invece purtroppo è un fenomeno diffuso. A che cosa serve conoscere a memoria gli argomenti dei libri di Erodoto? Leggine un passo, un passo importante, medita sul suo significato, fallo tuo, vedi come puoi inserirlo nella tua vita. Questo è un modo corretto di leggere una letteratura che nasceva con l’intento di insegnare qualcosa. Altrimenti la tua non è conoscenza, è nozionismo fine a sé stesso, è puro divertimento della mente.

Leggere i testi antichi così, senza trarne nulla, per una forma di conoscenza fine a sé stessa è un insulto ai testi stessi e a coloro che li hanno scritti.

La cosa davvero affascinante è osservare come uomini con una cultura profondamente diversa dalla nostra si siano posti le nostre stesse domande, e abbiano trovato la propria risposta, che, seppur molto spesso ovviamente intrisa di elementi del contesto storico in cui viene formulata, risulta ancora alla nostra epoca attuale e in grado di offrire non indifferenti spunti di riflessione. Rispondendo a queste domande gli autori classici hanno parlato al cuore, hanno offerto soluzioni e idee in grado di sfidare qualunque possibile differenza generata dallo spazio e dal tempo. Hanno racchiuso l’eternità nell'attimo, il diverso nell’unico mantenendo tutte le possibili diversità. Hanno parlato non ai singoli uomini ma all’Uomo vero che è in ciascuno di noi e che palpita di stupore e meraviglia di fronte a un cielo stellato o a un campo di fiori. Per questa ragione sono universali, per questa ragione si chiamano classici: perché sono sempre attuali, non passeranno mai di moda, almeno finché esisterà l’uomo avranno ancora qualcosa da dire a chi saprà ascoltarli.


I classici sono il nostro passato, e il nostro passato siamo noi. Il mondo di adesso vorrebbe tagliare con il passato, lo trova un ostacolo scomodo all'evoluzione. Basta pensare a una cosa semplice e banale: tutto ciò che usiamo viene superato da un modello migliore nel giro di pochissimo tempo. Il nostro mondo teme la stabilità, vuole andare avanti con talmente tanta foga da dimenticare che a volte è piacevole anche fermarsi a guardare il panorama. E questo lo vediamo nel fatto che il passato diventa sempre meno importante: del resto, se ciò che conta è soltanto l’evoluzione, il crescere verso il meglio, che cosa importa di ciò che è venuto prima? Non potrà che essere peggiore.

E non è così sbagliato come principio, ma se applicato con parsimonia. Dimenticare il passato significa dimenticare gli errori commessi, significa dimenticare il percorso tracciato come se ad essere importante fosse solo la destinazione. Significa restare totalmente impotenti e incapaci di rispondere di fronte ai problemi che non sappiamo risolvere. La riflessione sul passato, invece, è in primo luogo una riflessione metodologica. La riflessione sul passato comporta un tornare sui propri passi per cogliere il buono dagli errori commessi ed evitare di commetterli di nuovo in futuro. La riflessione sul passato è fondamentale per evitare di crollare su sé stessi.
Cicerone, che con la sua frase "historia magistra vitae" ha espresso
l'idea del passato come strumento della realizzazione del futuro
Per questa ragione i classici sono importanti, perché sono il primo strumento utile a ragionare su quanto è successo prima di noi. Sono un patrimonio infinito e quasi inesauribile che ci pone di fronte a situazioni e problemi già affrontati, e permette dunque di osservare cosa nell’approccio usato in passato vada cambiato e cosa possa essere conservato e riutilizzato. Rifiutare i classici vuol dire rifiutare la memoria, equivale a dichiarare di pensare che se ci svegliassimo un giorno senza ricordare assolutamente nulla di quanto successo nella nostra vita prima di quel momento potremmo continuare la nostra vita senza particolari ostacoli. Io credo che ci troveremmo spersi e spaesati, non sapremmo che cosa fare, e non sapendo come funziona ciò che abbiamo intorno sbaglieremmo a usarlo, come si fa da bambini. Ecco, vivere come in tanti fanno ora, rifiutando completamente il confronto con il passato del mondo equivale proprio a questo.

Terenzio, il maggior sostenitore
del concetto di humanitas
Come dicevo prima, i classici siamo noi, così come siamo anche i bambini che fummo e i vecchi che saremo. I classici sono l’umanità intera e ciascuno di noi singolarmente, sono il nostro più grande patrimonio che ci dà una profondissima e radicata identità culturale, che ci unifica al di là ti tutte le differenze. Per essere una persona migliore ciascuno di noi deve avere presente il proprio passato e riutilizzarlo come strumento per creare il nuovo sé del futuro. E per essere un’umanità migliore tutti dobbiamo avere presente ciò che siamo stati per creare l’umanità che verrà. Ciascuno di noi può essere testimone della memoria, portatore di una piccola fiamma di conoscenza e humanitas che rischiarerà la via del futuro. Possiamo tutti essere le singole fiamme di un immenso fuoco che arde e devasta le radici sterili dei nostri errori, e da loro trae ancora maggior forza per continuare a bruciare. Possiamo scegliere se diventare i portatori del ricordo che rinnova, che muta e che trasforma, oppure se fermarci alle nostre piatte vite che non aspirano a null'altro che a sé stesse, che non escono dal seminato, che si esauriscono nell'attimo della loro esistenza e non si estendono né all'indietro né in avanti. Possiamo scegliere se tentare di lasciare una nostra labile impronta nell'immenso percorso dell’uomo oppure se svanire come polvere al vento.

È in mano nostra. Vediamo che succederà.

Per questo io leggo i classici. Per questo non smetterò mai di leggerli.