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venerdì 27 marzo 2020

Una corona di letture #10 - Shining di Stephen King


Non preoccupatevi, la corona di oggi è ancora più breve del solito.

LEGGETE SHINING! Fine.





…va bene, d’accordo, proverò ad argomentare. È che Shining è così famoso che persino le mie piastrelle del pavimento lo conoscono. Jack Torrance va a lavorare all’Overlook Hotel come custode durante i mesi invernali di chiusura, e porta con sé la famiglia. Solo che Jack è appena reduce da un periodo da alcolista, il figlio Danny ha dei poteri paranormali e presto nell’albergo iniziano a succedere cose strane. È l’inizio di una caduta degli eventi tanto improvvisa quanto precipitevole e inesorabile.

Il protagonista Jack Torrance è stato modellato da Stephen King su di sé, e si vede decisamente. Anzi, è proprio evidente come tutto il romanzo nasca dal disagio di Stephen King nei confronti del proprio alcolismo e delle conseguenze che esso poteva avere sui suoi figli. Shining è, prima di tutto, la manifestazione delle paure di un padre divorato dalla sua dipendenza.


Non serve che io elenchi che la caratterizzazione dei personaggi è fantastica, che ci sono delle scene veramente inquietanti e che è così facile affezionarsi alla famiglia Torrance che, nel momento in cui li vedrete correre il minimo pericolo, sarete subito portati a sperare che si salvino. Non serve perché è un romanzo di Stephen King, ed è abbastanza normale che succedano queste cose. In più rispetto ad altri romanzi c’è che questo è armonizzato in una storia toccante, appassionante e tutto fuorché scontata o banale. La storia è lenta, sì, ma non inficia affatto la lettura. Anzi, la passione che svilupperete per la famiglia Torrance farà sì che le quasi 600 pagine scorrano per voi come se fossero 10.

Quindi non c’è una persona in particolare a cui consiglio Shining. Lo consiglio a tutti. Leggetelo, per favore. C’è pieno di G.L. d’Andrea in giro che scrivono porcate. Leggete un libro che merita di essere letto. Grazie.

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mercoledì 18 marzo 2020

Una corona di letture #1 - NOS4A2 di Joe Hill

Nel I secolo a.c. un poeta di nome Meleagro, originario di Gadara, volle raccogliere in una silloge un gran numero di epigrammi composti da lui e da poeti di età precedente. Paragonando metaforicamente ogni epigramma a un fiore, intitolò la silloge Corona.


Nel 2020 una persona di nome Chiunque, originario di qualunque luogo sulla faccia della Terra vi venga in mente, non volle affrontare un corona di ben altro tipo rispetto a quella di Meleagro. Tuttavia in questo caso la sua volontà non contava niente e dovette affrontarlo lo stesso. Fine.

Questa premessa per dire che ho pensato di inaugurare una serie di post a cadenza quotidiana (che per i miei standard è un po’ come se Togashi avesse deciso di pubblicare un capitolo di Hunter x Hunter a settimana) con una serie di consigli di letture di qualunque genere (narrativa, poesia, fumetto, quello che mi verrà). Ispirandomi a Meleagro e alla mia passione per i pessimi giochi di parole, l’ho chiamata anche io Corona. Spero che possa esservi gradita e che possa aiutare almeno qualcuno a trovare qualcosa da fare in questo periodo, mentre il mondo si avvia a trasformarsi in un romanzo di Stephen King. E spero anche che possa essere un preludio per me di un ritorno a una scrittura più costante su questi schermi.

Il primo appuntamento è con un figlio d’arte. Mi riferisco a Joe Hill, figlio dello zio Steve (che tra parentesi mi ha così deluso con Sleeping beauties che non ho ancora avuto voglia di leggere L’istituto. Cattivo, zio Steve). Joe Hill ha ormai diversi romanzi a suo carico, ma uno dei più noti, nonché l’unico che ho letto, è NOS4A2. Che non va letto, come ho stupidamente fatto io per anni, nosquattroadue, ma all’inglese, perché dovrebbe ricordare il nome Nosferatu.




NOS4A2 è la storia di Victoria Mcqueen, della sua strana capacità di trovare le cose attraversando un ponte in bicicletta, e della sua decennale battaglia contro Charles Manx, un uomo con l’abitudine di rapire bambini per portarli in un paro divertimenti chiamato Christmasland, dove solo lui può arrivare grazie ai poteri della sua auto. Victoria si troverà ad affrontare Manx più volte, prima per salvare sé stessa, e poi per sfuggire alla sua vendetta, che Manx ha intenzione di far ricadere sulla persona che Victoria ha più cara al mondo.
NOS4A2 un romanzo lungo sotto tanti punti di vista, e il più evidente è che copre una buona parte della vita della protagonista, dall’infanzia fino all’età adulta.Tuttavia questa lunghezza non è percepita come un problema, tutt’altro. La storia si dipana in maniera perfetta e coinvolgente dalla prima all’ultima pagina, e tiene il lettore costantemente con il fiato sospeso. E lo fa mettendo in scena una serie di personaggi comprimari ottimamente caratterizzati, e un antagonista di prim’ordine come Charles Manx. Charles Manx è davvero spaventoso, davvero angosciante, è inquietante e pericoloso. È un antagonista che a distanza di più di due anni dalla lettura mi è rimasto impresso (a parte che la mia mente lo ricordava come Charles Manson, grazie Quentin Tarantino). Altrettanto impressa mi è rimasta Victoria, la protagonista, soprattutto perché non è un personaggio perfetto, tutt’altro, ma anche perché da adolescente è la classica rebel insopportabile “pippo coca e mi giro un ragazzo diverso ogni sera” che nella penna di qualunque scrittore sarebbe risultata simpatica quanto un calcio nei denti, mentre tra le mani di Joe Hill diventa un’eroina per cui sarà facilissimo empatizzare.

C’è magia, ma Sanderson (che sono sicuro mi stia leggendo) ne rimarrà deluso: è la magia alla Stephen King, senza troppe regole e fantasia in libertà. Tuttavia è interessante e nel complesso il sistema dei poteri dei vari personaggi mi è piaciuto molto.

Insomma, NOS4A2 è un ottimo romanzo, con dei personaggi ben caratterizzati, una trama interessante e diversi momenti tanto toccanti quanto amari nella loro ineluttabilità. Un romanzo che consiglio di sicuro agli amanti di Stephen King, ma anche a chi voglia approcciare il genere horror da un lato più fantasy/urban fantasy.

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mercoledì 8 marzo 2017

Recensione - La Torre Nera di Stephen King (Torre Nera #7)

Siamo giunti al gran finale. Chi se lo aspettava, eh? Io no di sicuro, a un certo punto mi ero convinto che le recensioni della Torre Nera sarebbero rimaste ferme a metà. Fortunatamente non è così, e quindi potete avere anche voi lo stesso onore di Eddie, Susannah, Jake e Oy, lo stesso onore che ho avuto io e che hanno avuto tanti altri Fedeli Lettori in tutto il mondo. Seguire Roland fino alla fine, fino in cima alla Torre per scoprire che cosa essa ha in serbo per il pistolero.

Parlare non serve. Immergiamoci nella storia.
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Titolo: La Torre Nera
Autore Stephen King
Anno: 2004                                                         
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 803




TRAMA 

Siamo alle battute finali della storia. Padre Callahan, Jake e Oy si infiltrano nel Dixie Pig per salvare Susannah e impedire la nascita di Mordred, figlio di due padri (Roland e il Re Rosso) e di due madri (Mia e Susannah). Ancora separato da Roland ed Eddie, e presto diviso anche da padre Callahan, che si ferma a combattere i vampiri per coprirgli le spalle, Jake si trova a introdursi solo con Oy nella tana del nemico, dovendo affrontare il ka-tet dei suoi scagnozzi.

Nel frattempo Roland ed Eddie si trovano ancora nel Maine, nel quando in cui hanno incontrato Stephen King. e devono ritornare al più presto a dare man forte al resto del ka-tet. Non prima, naturalmente, di essersi assicurati che il terreno con la rosa, il terreno che ospita uno degli ultimi Vettori ancora in piedi, possa ricevere protezione e difesa dagli uomini del Re Rosso e dall’associazione che questi controlla e attraverso la quale agisce nel mondo che noi tutti conosciamo. 


LA MIA OPINIONE


Leggete La Torre Nera. Qualunque giudizio io possa esprimere qui in questa recensione sarà sempre e comunque riduttivo rispetto a quello che è il libro. Leggetelo perché è un’esperienza che non vi capiterà più nella vita. Questo è il vero Stephen King, lo stesso di It, lo stesso di Misery, quello che sconvolge, che fa amare i personaggi come amici di vecchia data, che si fa odiare per quello che succede nella storia, quello che conquista e non lascia andare, che apre mondi dai quali non vorresti andare mai via, che fa compiere viaggi verso confini che mai nessuno avrebbe immaginato, che ti porta in cima alla Torre Nera solo per farti scoprire che c’è ancora una porta da attraversare.

Ho adorato questo libro. L’ho adorato pur detestando quello che succedeva in certi punti, pur avanzando a stento in certi altri che proprio non volevo leggere, pur trovandomi avvolto da cappe di malinconica solitudine mano a mano che proseguivo con la storia.

Qui non c’è un racconto, c’è la vita gente, i personaggi sono così vivi che ti sembra di averli vicino. Ti sembra di essere davvero a Fine-Mondo, a Fedic, nel Maine, davanti alla Torre Nera. Non c’è nulla di più vero di quello che prende prepotentemente vita dalle pagine di questo romanzo.

La lettura è qualcosa di strano, che ha fatto nascere in me emozioni contrastanti e che non ho molto cercato di conciliare. Da un lato avevo una voglia pazzesca di continuare, di non staccarmi mai dalla pagina per non spezzare l’incantesimo, di interrompere all’improvviso quell’assurdo viaggio a Contezza accanto a Roland che stavo conducendo attraverso le parole di Stephen King. Dall’altro però leggere diventava sempre più difficile mano a mano che la trama proseguiva, ogni evento era come un pugno in faccia. Non aspettatevi lieti fine gratuiti o risoluzioni facili, tutto ciò che può andare male va male e quel senso di vuoto che ti rimane nello stomaco quando dici addio agli amici più cari non vi lascerà mai dall’inizio alla fine.


Molto spesso emergono nella storia all’improvviso momenti malinconici che danno un sapore dolce alla lettura. Come quando tornano alla mente ricordi di tanti anni fa, e ci si culla nella loro serenità, così succede in certi punti del libro. L’esempio più lampante e più genuino, più evocativo e intenso, è proprio all’inizio, quando la tartarughina d’avorio di Padre Callahan viene paragonata alla barchetta di George Denbrough, che esce per sempre dalla storia alla fine del primo capitolo di It.

La trama è davvero ben realizzata. All’inizio pensavo che King avesse deciso di concentrare troppe cose nel volume finale, mentre avrebbe fatto meglio a dilazionare anche all’interno del sesto la risoluzione di qualche nodo principale. In realtà mi sbagliavo, le vicende si seguono in modo magnifico in un crescendo di tensione sempre maggiore e a ciascun evento è dedicato lo spazio necessario. Nonostante siamo al volume finale viene introdotta ulteriore carne al fuoco, e questo è bene, perché rende ancora più palpabile la tensione. Smettere di leggere diventa impossibile, le pagine sono un vortice di eventi che intrappola e trascina fino alla fine. I dolori di Roland e del ka-tet sono i dolori del lettore, e lo stesso vale per le gioie.

Viene introdotto un discreto numero di nuovi personaggi. Poi visto che stiamo leggendo un libro di Stephen King e non Bleach tutti questi personaggi sono ben caratterizzati. Una menzione va a parer mio a Pimli, il capataz di Algul Siento (il luogo dove sono tenuti prigionieri i Frangitori), che non è semplicemente un cattivone versione 2.0 ma ha una personalità precisa e anche con le sue particolarità. È un umano in mezzo ai mostri e a persone con poteri paranormali e si vede, si vede eccome!

Volete sapere di un personaggio che invece è particolarmente insignificante? Il Re Rosso. Appare venti pagine scarse e non fa niente se non attaccare Roland. Di solito l’antagonista finale si suppone che abbia una personalità un po’ più sfaccettata, ma bisogna anche considerare un fatto di importanza non trascurabile. Il Re Rosso è sì l’antagonista principale, ma diciamoci la verità: a chi fregava, mentre leggeva, sapere se sarebbe stato sconfitto, e a chi invece fregava arrivare finalmente in cima alla Torre Nera? La Torre batte decisamente il Re per quanto riguarda interesse e importanza, e questo lo riconosceva anche Stephen King. Per questo motivo a mio avviso non ha speso troppo tempo per caratterizzarlo in qualche modo particolare, perché alla fine della fiera quello che importava era ben altro.


Questa è senza ombra di dubbio la degna conclusione che la serie meritava. Un romanzo in cui vengono risolte tutte le questioni aperte (compresa quella con Randall Flagg, ancora in ballo da L’ultimo cavaliere) ma che contemporaneamente offre nuovi dubbi e nuove domande, che aggiunge molti elementi nuovi al mondo di Roland e che allo stesso tempo riesce a creare forti collegamenti con romanzi di Stephen King che lo hanno preceduto. È il punto di incontro di tutto l’universo che King ha creato nel corso del suo lavoro di scrittore, il centro attorno al quale vortica la sua fantasia.

Un senso di smarrimento vi accompagnerà per la lettura aumentando sempre di più mano a mano che proseguite, e quando arriverete al finale sentirete sulle spalle anche voi il peso del lungo viaggio, rimarrete desolati davanti a ciò che sta succedendo e alla fine non potrete che convenire che, come dice Stephen King stesso, che sia bello o brutto, originale o banale, quello non poteva che essere l’unico finale della serie.

A dirla tutta esistono due finali, uno dedicato ad alcuni personaggi, un altro ad altri. Entrambi sono intensi, inaspettati (specialmente il secondo!) e coerenti con tutto il resto. Non credo che qualcuno al mondo abbia ascoltato l’invito di Stephen King scritto tra il primo e il secondo finale, per quanto fosse molto sentito. Insomma, dopo sette volumi non si può non volere arrivare in fondo!

Volevo infine approfittare di questo spazio per dire due parole sulla serie in generale, ora che siamo giunti all’ultima recensione. La saga della Torre Nera ha alti e bassi, questo lo sapete. Il primo libro detiene la medaglia d’argento come peggior libro recensito finora su questo blog, l’ultimo al contrario è tra i migliori. Ma questo non importa, perché gli alti non soltanto controbilanciano i bassi ma anzi, ne avanza per i beati. La Torre Nera non è una saga epica nel senso che segue vicende che hanno luogo per centinaia di migliaia di anni in una terra fantastica, né perché ha come protagonisti un gruppo di eroi votati al bene per principio. È assai distante, almeno sotto questo punto di vista, dal fantasy in stile Tolkien, nonostante questo resti un modello dichiarato e imprescindibile. Tuttavia è epico perché racconta la storia di cinque figure grandiose, cinque persone che si imprimeranno nel cuore del lettore come se questi li conoscesse da una vita, che sono molto più vive di tanti che si credono vivi e che invece si limitano ad occupare spazio. Il più grande punto di forza della serie è proprio il ka-tet, l’amicizia (anche se parlare di amicizia è riduttivo, il ka-tet è molto di più!) tra Roland, Jake, Oy, Susannah ed Eddie. Dopo viene tutto il resto.

La trama prosegue in modo discontinuo e affatto calcolato, ma non è importante. La scrittura è straordinaria. Leggetela, fidatevi, leggetela, e non ne resterete delusi. Viaggerete nei mondi più disparati, vivrete vite che mai avete immaginato al fianco dei vostri compagni più fedeli, che non vi lasceranno mai. Siete ka-tet, siete uno di molti. Questa è la vostra forza.

Zio Steve dopo aver visto il voto in fondo all'articolo.

IN CONCLUSIONE


Dico la verità, mi dispiace concludere questo gruppo di recensioni, mi ha permesso di trascorrere ancora un po’ di tempo insieme al mio Dihn Roland e agli altri. Mi ha anche permesso di riscoprire che cosa ho amato di questa serie e di cercare di trasmetterne un po’ anche a chi mi legge. So di non esserci riuscito, ma perché l’unico modo per capire davvero che cosa sia la saga della Torre Nera è leggerla.

Voglio infine ringraziare Stephen King per aver scritto questi libri. Non lo faccio perché spero che mi legga, è ovvio che non mi leggerà mai, ma lo ringrazio lo stesso, perché se ho potuto sognare per un po’ è tutto merito suo.

A Stephen King io dico grazie.

Lunghi giorni e piacevoli notti.

VOTO:

domenica 5 marzo 2017

Recensione - La canzone di Susannah di Stephen King (Torre Nera #6)

Alla fine de I lupi del Calla la situazione era precipitata in modo rapidissimo. Susannah è fuggita attraverso la porta e ha viaggiato tra i mondi controllata da Mia, un demone nato dentro di lei che ha il compito di partorire. Soltanto due vettori ormai reggono i mondi, e nel covo dei lupi i Frangitori sono in continuazione al lavoro per distruggerli. Il Re Rosso ha quasi completato il suo progetto di gettare i mondi nel caos. Roland e il suo ka-tet, affiancati da padre Callahan, hanno poco tempo per tentare di risolvere la situazione. Seguiamoli dunque in questa penultimo volume delle loro avventure, che riserva per i lettori davvero delle sorprese inaspettate.
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Titolo: La canzone di Susannah
Autore Stephen King
Anno: 2004                                                        
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 400




TRAMA

Il ka-tet di Roland si divide in due gruppi. Entrambi viaggiano attraverso i mondi per giungere a New York in momenti differenti. Oy, Jake e Padre Callahan arrivano nel 1999 all’inseguimento di Susannah e Mia, per impedirle di recarsi dai servi del Re Rosso che sono stati incaricati di farla partorire. Mia ha stipulato un patto con l’uomo in nero, Walter O’Dim, o Randall Flagg, come gli piace farsi chiamare, che prevede che una volta partorito il bambino sarà consegnato a lei insieme al difficile e onorevole compito di crescerlo.

Roland ed Eddie sono nel Maine nel 1977, con lo scopo di verificare l’acquisto da parte di Calvin Torre del pezzo di terra che contiene la rosa, probabilmente manifestazione di uno dei vettori ancora in piedi. Qui, in seguito a una serie di eventi, trovano rifugio presso un uomo, John Cullum, e dopo essere stati con lui decidono di fare visita a una persona che hanno sentito nominare spesso e che sono certi abbia un ruolo molto importante nella loro vicenda. Una persona che, casualmente, abita proprio nel Maine...

Il peggior nemico dell'uomo in nero.

LA MIA OPINIONE


La canzone di Susannah è diverso dai romanzi che lo precedono. Avevo accennato a questo cambiamento già nella recensione de I lupi del Calla, e ora è il momento di parlarne con precisione. Se I lupi del Calla aveva una sua vicenda autoconclusiva ma poi lasciava aperte alcune vicende molto importanti perché fossero svolte e risolte nei libri successivi, La canzone di Susannah abbandona completamente lo stile autoconclusivo per diventare il tassello centrale di un puzzle composto dagli ultimi tre libri. Le vicende narrate in questi tre romanzi sono uniche, La canzone di Susannah non ha senso se non dopo I lupi del Calla e prima de La Torre Nera. Infatti non abbiamo qui un inizio uno svolgimento e una fine, abbiamo soltanto lo svolgimento, che riprende e sviluppa quanto era stato lasciato in sospeso ne I lupi del Calla e lo proietta poi verso la sua conclusione nel volume successivo.

Questa trasformazione, almeno su di me, ha avuto un effetto positivo. Ha innanzitutto rinnovato lo spirito della saga e le sue modalità di sviluppo. Non che ce ne fosse bisogno, ma è stata comunque benvenuta. Inoltre ha reso ancora più grande la tensione verso gli sviluppi dell’ultimo volume. Se anche questo fosse stato autoconclusivo come potevano esserlo il primo o il secondo sono certo che lo stacco con La Torre Nera sarebbe stato meno incisivo e meno efficace. Così invece ha funzionato alla perfezione.

La carne messa al fuoco in questo libro è davvero molta. Cominciamo con l’imminente nascita del figlio di Susannah/Mia, che si chiamerà Mordred, e del quale si scopre l’identità del padre. Siamo di fronte al primo grande colpo di scena del romanzo, e anche a uno dei momenti meglio arrangiati di tutta la saga. Stephen King, quando ancora scriveva senza sapere che cosa sarebbe successo la pagina dopo, aveva fatto succedere determinate cose, e ora che invece ha dei piani più precisi si esibisce in un esempio di continuità retroattiva che fa quadrare le sue nuove idee con quello che era già accaduto. Inutile dire che le cose funzionano a meraviglia, non dico che sembra che lo zio Steve avesse tutto in mente fin dall’inizio ma quasi. Volete un indizio su chi sia il padre di Mordred? Non è lui.

Mordred, io sono tuo...ah, no.

Entrano poi in scena i cosiddetti uomini bassi, che erano stati nominati nel romanzo precedente da Callahan, e viene portato avanti il progetto di acquisto del terreno con la rosa-vettore. Ed è in mezzo a questi sviluppi, di per sé molto interessanti, che avviene il secondo grande colpo di scena del libro, quello che si poteva già subodorare dal volume precedente ma che nessuno avrebbe mai creduto si sarebbe realizzato fino a quando non lo ha letto con i propri occhi. Lo metto sotto spoiler perché è bello grosso.

[SPOILER]In sostanza, a un certo punto della storia Eddie e Roland si trovano a parlare con Stephen King stesso, lo Stephen King del 1977, quello alcolista tanto per capirci. King si rappresenta in modo divertito, autoironico e sincero, mostrando quali fossero i suoi punti deboli all’epoca, i suoi lati fragili, e si rimprovera attraverso i suoi personaggi. Non che sia quello lo scopo della sua apparizione, ma quando Eddie osservandolo commenta con un po’ di distacco e un po’ di apprensione che beve un po’ troppo bé, non si può non notare uno sguardo rassegnato e quasi di scusa dell’autore verso il proprio passato. Oltre a essere geniale di suo, l’inserimento dell’autore stesso come personaggio (non è originale, va detto, ma sicuramente fa il suo effetto e risulta senz’altro inaspettato) costituisce anche uno svolgimento non banale di un nodo della trama che risulterà fondamentale negli eventi del libro successivo. Stephen King è la voce di Gan, il mezzo attraverso il quale viene narrata la storia di Roland, tant’è vero che alla fine della sua visita il pistolero lo esorta a continuare a scrivere, a non lasciare la serie in sospeso, altrimenti la sua ricerca della Torre Nera non avrà mai una fine. La cosa interessante è che questo prende spunto da una storia vera: c’è stato un momento in cui Stephen King ha sognato che i suoi personaggi venissero a fargli visita e lo esortassero a continuare! [SPOILER]

In questo volume non vengono introdotti molti personaggi nuovi, non importanti almeno, a parte Mia, che viene approfondita e dotata di una personalità interessante e sfaccettata. Quello che fa King a questo giro è concentrarsi (come del resto aveva già fatto ne I lupi del Calla con Jake) sullo sviluppo dei personaggi che ha già, e qui siamo al turno di Susannah. Susannah, come dicevo nelle recensioni precedenti, era il membro del ka-tet che si faceva sentire di meno, quello che non è che attirasse meno le simpatie del lettore ma che sicuramente era non era presente quanto gli altri, non restava altrettanto impresso. Quel genere di personaggio che resta sullo sfondo della storia e dopo due giorni che hai chiuso il libro già lo hai dimenticato. Ecco, non so se Stephen King si sia accorto di questo in corso d’opera, se fosse tutto già programmato, se sono io che penso troppo o se è colpa del Chupacabra, comunque in questo romanzo il punto di vista di Susannah viene assunto in modo stabile (per ovvie ragioni, visto che rimane separata dagli altri quattro dall’inizio alla fine), e questo permette al lettore di conoscerla bene, di imparare ad apprezzarla non solo come soprammobile di contorno tanto bello e simpatico ma di avere con lei un rapporto profondo e diretto come quello che ha con gli altri personaggi. Insomma, se siamo arrivati a leggere al sesto libro non è soltanto perché vogliamo sapere se Roland troverà la Torre Nera. Certo, quello è importante, ma quello che conta sul serio non come finirà la storia, ma come finiranno i personaggi. Perlomeno, questo vale per me, non so per gli altri. Io sono arrivato al punto che quello che mi importava era trascorrere del tempo con i protagonisti, più che la trama in sé. Ed è bello finalmente avere occasione di legare anche con Susannah, oltre che con gli altri quattro.

Padre Donald Callahan contro Barlow il vampiro.

Il ritmo del romanzo procede in modo incalzante e imprevedibile. Un po’ grazie ai colpi di scena, un po’ grazie alla sequela di eventi che si verificano uno dietro l’altro, ho trovato difficile staccarmi dalla lettura. Lo stile coinvolgente di King unito alla sua capacità di interessare e generare tensione trascina il lettore in una spirale dalla quale è impossibile uscire finché non ha concluso il libro. Parlo per me, ma io avevo una curiosità pazzesca di sapere che cosa sarebbe successo, che altra idea inaspettata Stephen King avrebbe tirato fuori dal suo cappello a cilindro. A tutto questo va aggiunto l’effetto che fa il finale, un brano tratto dal diario di un personaggio che non svelo per non fare spoiler, che visto quello che è stato detto nel libro pare annunciare che gli eventi precipiteranno in modo incontrollabile se non verrà fatto qualcosa. C’è un altro fattore che sconvolge il lettore nella lettura del finale, ma non posso rivelarlo per questioni di spoiler.

Non che vada proprio tutto bene, qualche critica da muovere la ho. Per esempio, l’inizio è più lento del resto del romanzo, e a volte si perde un po’. Esempio. Chiunque abbia letto un libro di Stephen King sa che questi conosce tutti i suoi personaggi, dal primo all’ultimo, come le sue tasche. Ed è un’ottima cosa, è il motivo per il quale sono così ben caratterizzati. Ecco, però non è necessario che anche il lettore li conosca uno per uno come se li conoscesse da quando andavano all’asilo insieme. Con i personaggi importanti è buono e giusto e importante che sia così, con quelli che appaiono per tre pagine no. Anzi, è da evitare. Ne La canzone di Susannah ci sono qualcosa come una quindicina di pagine dedicate a un personaggio che nella vicenda ha un ruolo marginale, sparisce subito dopo e non apparirà mai più. Ma a che sono servite? Dai, è un errore da dilettanti, lo fa Regazzoni per dirne una, non posso trovarlo in un romanzo di Stephen King, romanzo che per quanto riguarda tutti gli altri aspetti si mantiene su ottimi livelli. Mi rendo conto che sia un peccato veniale, ma mi ha comunque lasciato l’amaro in bocca. Non doveva esserci, bastava così poco per evitarlo!

IN CONCLUSIONE


A parte quello che ho appena scritto ciò di cui posso lamentarmi è davvero poco e insignificante. La canzone di Susannah è un ottimo romanzo, coinvolgente ed efficace, che, pur essendo in modo scoperto un ponte tra il quinto e il settimo volume, raggiunge livelli eccellenti di caratterizzazione personaggi, colpi di scena e tensione. È un tipico esempio in cui il libro-ponte verso il volume finale non funziona da semplice connettivo in cui il brodo viene allungato. La canzone di Susannah ha molto da dire, davvero davvero molto, e questo si sente.

Siamo quasi alla fine ormai. La Torre Nera è sempre più vicina. Stringiamoci al nostro Din e prepariamoci all’ultima parte viaggio.


VOTO:

venerdì 24 febbraio 2017

Recensione - I lupi del Calla di Stephen King (Torre Nera #5)

Accennavo sulla pagina fb che sto avendo miliardi di cose da fare in questo periodo e poco tempo per dedicarmi ad altro. Voglio però riprendere a postare con regolarità. Questo è quindi l’inizio di una nuova serie di post che (si spera) non avranno più un mese tra uno e l’altro.

Tengo fede alla promessa che facevo tempo fa. Dopo mesi che siamo lontani torniamo perciò nel Medio Mondo, a trovare Roland e i suoi compagni dove li avevamo lasciati, oltre la città degli smeraldi in stile Mago di Oz, dopo la morte di Tick Tock (con somma gioia di tutti i lettori che come me lo avevano odiato), di nuovo in cammino lungo il sentiero del Vettore. Sono certo che anche a voi è mancata la compagnia di Jake, Susannah, Eddie, Oy e Roland, sono certo che anche voi come me non vedete l’ora di incontrarli di nuovo.
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Titolo: I lupi del Calla
Autore: Stephen King
Anno: 2003                                                     
Editore: Sperling &Kupfer
Pagine: 643




TRAMA

Dopo il mega flashback di La sfera del buio torniamo alla carica con una bella carrellata di eventi. Eddie e Jake viaggiano a Contezza e tornano da Calvin Torre, l’uomo che in Terre desolate aveva venduto a Jake il libro di Charlie Ciù-Ciù, qualcosa di pericoloso e sconosciuto comincia ad albergare dentro Susannah, qualcosa di cui Roland ha ben presto consapevolezza, e il gruppo giunge a Calla Bryn Sturgis, un paese che da tempo ormai è vessato da una dannosissima piaga. Ogni 23 anni dei banditi chiamati lupi giungono a Calla e rapiscono un bambino dalle coppie di gemelli. I piccoli vengono restituiti tempo dopo danneggiati nella mente in modo irrimediabile, ridotti a uno stadio di stupidità, destinati a crescere molto e in modo rapido e a morire molto giovani. Il ka-tet di Roland decide di aiutare il paese a difendersi dall’arrivo dei Lupi, che ormai è solo questione di settimane. Sembra solo un momento di stacco dal viaggio, ma in realtà a Calla Bryn Sturgis c’è molto che a Roland e compagni potrebbe interessare conoscere e che potrebbe diventare di fondamentale importanza per la loro missione.

LA MIA OPINIONE


Stiamo parlando di Stpehen King. Quando Stephen King scrive qualcosa che non mi piace lo si capisce da come ne parlo anche dalla prima parola. Lo stesso per quando scrive qualcosa che mi piace. Quindi immagino che ci siano pochi dubbi a proposito, penso che nessuno di voi sia stato anche solo sfiorato dall’idea che io non abbia apprezzato I Lupi del Calla.

"Cameriere! Due aramostre, subito!"

Siamo al quinto volume della serie, potrebbe essere legittimo aspettarsi che la narrazione cali un po’, che comincino a essere date delle risposte agli interrogativi posti nei libri precedenti e che queste non soddisfino le aspettative, potrebbe essere legittimo aspettarsi di tutto di negativo. Voglio dire, il numero 5 porta male. Il quinto volume di Tokyo Ghoul è quello che mi è piaciuto di meno. Il quinto libro di Harry Potter è un mattonazzo gigantesco. Il quinto volume di Hunter x Hunter è una deviazione dalla trama, bella quanto volete ma pur sempre una deviazione. Più in generale, capita che i libri centrali di una serie siano più deboli rispetto a quelli iniziali e a quelli finali, perché la trama risulta allungata un po’ troppo e molti eventi suonano solo come dei riempitivi in attesa del gran finale. Bé, a onor del vero sulle prime I Lupi del Calla sembra davvero tanto un filler in stile episodi di Garlick Jr. in Dragon Ball tra la saga di Freezer e la saga di Cell. Mentre leggevo il primo capitolo nella testa avevo un solo pensiero, che può sintetizzarsi in “tutto bello, ma che c’entra?”. Non è nemmeno da dire che mi sbagliavo, e basta arrivare al punto del viaggio a Contezza per rendersi conto che di carne al fuoco ne viene messa parecchia. Altro che filler. Una delle cose più interessanti è sicuramente la faccenda del numero diciannove, che è davvero la cosa che più attira chi legge, forse anche grazie alle battute che Eddie ci costruisce sopra, come «andare a diciannove» per dire andare in fumo. In breve, comunque, la cosa è questa: capita che in quasi ogni cosa sia possibile trovare questo numero. Il robot Andy usa la Direttiva Diciannove, i personaggi hanno nomi di diciannove lettere, eccetera. Davvero davvero coinvolgente, io non vedevo l’ora di sapere dove avrebbero portato tutte queste coincidenze!

L’apparizione nella storia di alcuni libri scritti dall’autore stesso è un altro fatto che mi è piaciuto molto, aggiunge sale alla trama, ed è un’altra caratteristica che invita molto la lettura. Direi che una delle qualità principali del libro è questa, offrire tutta una serie di fatti curiosi che verranno spiegati successivamente e che lì per lì mettono moltissima voglia di continuare. E rendono il romanzo particolare, avvincente e stimolante.

Il diciannove avrà a che fare con i templari?

Da questo libro comincia a vedersi un filo conduttore preciso e lineare, molto più che nei romanzi precedenti. Diciamoci la verità, i primi quattro libri possono essere considerati degli stand-alone. Almeno nella misura in cui possono esserlo considerati anche i libri di Harry Potter, non so se mi spiego. Le vicende della storia principale si sviluppano in tutta la serie, ma in ogni libro c’è una trama che comincia e si conclude. Non che questo sia un male, anzi, né significa che l’autore si comporti così perché ancora non conosce come evolverà la storia (la carissima Rowling lo sapeva mentre zio Steve non ne aveva la minima idea, eppure nessuno si lamenta). Dicevo, dunque, che da questo libro non c’è più nulla di episodico, ma il plot va a distendersi in maniera uniforme nei vari romanzi. È vero che c’è una vicenda che ha un inizio e una fine, ma le cose lasciate a metà sono talmente tante e importanti che ha davvero poco senso pensare che possa essere considerato autoconclusivo, anche in senso lato.

Questo è sicuramente un punto di miglioramento per la storia. Non nascondo che quando Stephen King si inventava le cose più strane senza sapere come le avrebbe spiegate questa sua ignoranza di fondo non si notava per niente, anzi, dissimulava proprio bene. Era un mago a cui riesce il trucco ma neppure lui sa come fa. Devo però anche aggiungere che ora che sa quello che fa e che ha in mente tutto lo svolgersi della vicenda fino alla fine la narrazione acquista forza ed energia in più. Non so bene spiegare come né perché, sta di fatto che la penna pare scrivere in modo più sicuro, più energico. Forse è semplicemente una mia impressione, dovuta al fatto che so che ora King non improvvisa più, non lo so, sta di fatto che l’ho sentita. E mi ha fatto molto apprezzare la lettura.

La saga della Torre Nera si configura ne I lupi del Calla, anche se già indizi di ciò si potevano trovare ne La sfera del buio, come centro della produzione kinghiana, come fulcro attorno al quale ruotano tutte le storie che ha scritto. In senso letterale: è mostrata la via attraverso la quale si giunge ai vari presenti alternativi in cui sono ambientate. Non stupisce dunque che appaiano delle vecchie conoscenze per i Fedeli Lettori. Prima di dire a che cosa mi riferisco, andiamo con ordine.

Non so se avrò mai l’occasione di parlarne in modo puntuale qui, comunque Le notti di Salem, il secondo romanzo di Stephen King, quello che lo ha etichettato in modo definitivo come scrittore di horror, a me non è piaciuto. Non è Abyss naturalmente, ma siamo lontani da quello che può definirsi un libro anche solo accettabile. Comunque, tra le poche cose che salvo ci sono il personaggio di padre Donald Callahan e la scena del suo confronto con il vampiro, che è un piccolo capolavoro di tensione in mezzo a eventi che la tensione non sanno fare altro che ammazzarla. Ecco, ne I lupi del Calla il prete fa la sua comparsa (e anche come un personaggio importante!), e la scena con il vampiro viene riproposta in modo praticamente identico. Tra l’altro, ne Le notti di Salem la storia di padre Callahan viene narrata fino a un certo punto e poi basta, viene abbandonato, così di punto in bianco, senza che nulla fosse concluso. Zio Steve ha poi dichiarato che all’epoca non sapeva perché aveva sentito di dover lasciare a metà le vicende del prete, e quando ha cominciato a scrivere la Torre Nera si è reso conto che doveva riprenderlo, che lo aveva abbandonato in attesa di riprendere a raccontare la sua storia insieme a Roland e compagni. Sappiamo tutti che Stephen King dice che le sue storie si costruiscono da sole e che lui si limita soltanto a raccontare quello che i personaggi fanno di propria spontanea volontà, quindi in quest’ottica il suo discorso ha senso. Comunque sia, padre Callahan è un personaggio che se non è né simpatico né piacevole è comunque ben caratterizzato e perciò è se non altro interessante sentire raccontare di lui, perciò non può che essere positiva la sua apparizione.


Padre Callahan si prepara ad affrontare i vampiri.

Il romanzo tiene il ritmo abbastanza bene, va detto. In pratica, il grosso del libro si focalizza sul periodo in cui Roland, Eddie, Jake, Susannah e Oy attendono i lupi a Calla Bryn Sturgis, preparando nel frattempo un piano per sconfiggerli insieme agli abitanti. Si intersecano a questo varie altre sottotrame, alcune che poi andranno a rivelare eventi molto importanti per quanto succederà nei volumi successivi. Il tutto non annoia, anche se bisogna dire che la parte in mezzo è più sotto tono rispetto all’inizio e alla fine. Non dico che sia inutile o che si trascini implorando il lettore di mettere fine alla sua lenta agonia, non dico che sia un palese cumulo di vuoto come le pagine tra 70 e 510 de Il richiamo del cuculo (a me la Rowling giallista non piace, dite quello che volete ma mi ha annoiato a morte), ma non è neppure un focolaio di eventi che si susseguono uno dietro l’altro senza lasciare un attimo di respiro. Del resto, questo è un fatto che ho notato in molti romanzi di Stpehen King, anche quelli più acclamati. Un solo esempio, 22/11/63. Non ditemi che la parte a metà del libro non l’avete trovata molto meno scorrevole del resto, perché allora abbiamo letto due cose diverse.

Ad ogni modo questo non significa che il libro non si legga bene, anzi. Riesce a suscitare la quantità di interesse sufficiente per permettere di continuare senza stancarsi. La trama è ben costruita e ben articolata, e per questo il colpo di scena finale, per quanto intuibile, comunque riesce a creare nel lettore quella giusta quantità di stupore. Insomma, parte un po’ sotto tono o meno, si lascia seguire in modo piacevole e a tratti appassionante.

Non serve, credo, che spenda altre parole sulla scrittura di Stephen King. King scrive da dio e lo sappiamo, e questo libro non fa eccezione. Una scena in particolare verso la fine è scritta in modo fantastico, ma non aggiungo altro per non fare spoiler, e poi, come dicevo prima, anche il confronto tra Callahan e Barlow è un fantastico picco di stile. Ma tutto il libro si mantiene su livelli invidiabili.

Un vecchio di Calla Bryn Sturgis contro uno dei lupi.

Non mi dilungherò nemmeno sui personaggi principali, ormai li conosciamo da quattro libri e sappiamo che sono caratterizzati in modo ottimo. L’unico aspetto notevole a questo proposito è la crescita di Jake, che comincia a svilupparsi durante la storia e si conclude alla fine del libro, con la sua prima sigaretta a significare il suo definitivo passaggio a un’età maggiore. È un momento abbastanza delicato e toccante, reso molto bene, e questo non può che essere buono, visto che parliamo di uno dei personaggi migliori della storia. Sarà da questo libro in poi che il legame tra Jake e Roland diverrà sempre più stretto.

I personaggi nuovi, invece, a parte padre Callahan, ovvero gli abitanti del Calla, sono caratterizzati in modo vario, chi meglio e chi peggio a seconda di quanta importanza hanno poi nella storia. Di conseguenza in certi casi si poteva fare di meglio in certi di peggio, ad ogni modo che personaggi minori siano caratterizzati peggio non costituisce certo un problema.

IN CONCLUSIONE


I lupi del Calla è un signor romanzo, che unisce bene lo stile autoconclusivo dei precedenti con quello scopertamente continuativo del successivo. Un ottimo libro, dunque, che proietta la saga della Torre Nera verso un penultimo volume che, visti gli eventi del finale, aprirà porte (in senso anche letterale!) per nuove possibilità e nuovi sviluppi imprevisti.

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