martedì 30 maggio 2017

Recensione - L'età sottile di Francesco Dimitri

Io arrivo sempre in ritardo, sia in senso letterale che metaforico. Mi capita di rado di leggere un libro appena esce, a meno che non sia di un autore che già conosco e apprezzo. Tipo, mi fionderò in libreria appena Sleeping Beauties uscirà in italiano. O appena Patrick Rothfuss deciderà di smettere i panni da nano da giardino, indossare quelli di scrittore e pubblicare The doors of stone dopo sei anni che si fa attendere. Ma in generale non presto mai molta attenzione alle nuove uscite. Per questo ho ignorato per quattro anni L’età sottile di Francesco Dimitri, nonostante per tanto tempo una parte di me abbia avuto voglia di leggerlo. La stessa parte di me che, per la cronaca, crede che i giudizi di Gamberi Fantasy valgano qualcosa e si è quindi sempre stupita del buon trattamento che Gamberetta aveva riservato a Pan.

Ma tralasciamo la storia della mia vita e andiamo subito a verificare se L’età sottile sia un buon romanzo oppure no, e se Francesco Dimitri sappia scrivere come Gamberetta sosteneva con un vigore e una sicurezza che non ha mai dedicato a nessun autore italiano.

Patrick Rothfuss è felice di essere stato nominato in una recensione.
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Titolo: L’età sottile
Autore: Francesco Dimitri
Anno: 2013                                                        
Editore: Tea Editore
Pagine: 396




TRAMA 

Gregorio è un adolescente come tanti, e trascorre le sue stati con la sua famiglia nella sua casa di Portodimare. L’unica ombra nel passato di Gregorio è la morte di sua madre, ma per il resto la sua vita non è diversa da quella di molti altri ragazzi: ha una sorella di nome Sara, un padre con cui ha rapporti difficili, e una fidanzata, Chiara, la sua prima vera fidanzata. Durante l’estate dei suoi sedici anni gli succede una cosa che non si sarebbe mai aspettato. Incontra un uomo misterioso di nome Levi, che gli fa una proposta tanto assurda quanto intrigante: diventare suo allievo e imparare la Magia.

Sulle prime Gregorio è scettico, neppure crede alle parole di Levi, ma sarà destinato a cambiare idea. Accettare la proposta dell’uomo è il primo passo verso un punto di non ritorno, una svolta irreversibile che sconvolgerà del tutto la vita di Gregorio. Gli procurerà nuove conoscenze, nuove amicizie, ma porterà anche turbamento nelle situazioni che prima erano stabili, procurerà problemi e difficoltà. Dalla serenità dell’adolescenza si troverà gettato nel mondo degli adulti, dove troverà gente che vuole la sua morte, dove dovrà imparare a difendere sé stesso e i suoi cari da chi vuole loro male oppure a soccombere al proprio destino. Dovrà imparare a costruirsi da sé la propria salvezza, oppure a rinunciare a tutto quello che conta per lui.

LA MIA OPINIONE


Avevo grandi aspettative per questo romanzo, sia, come dicevo, per la buona parola che aveva messo Gamberetta sull’autore sia perché effettivamente ne avevo sentito parlare molto bene. Queste aspettative sono state del tutto soddisfatte.

Dimitri è un ottimo scrittore. La sua prosa è molto sintetica, dice molto poco e al tempo stesso quel poco riesce a essere più efficace di mille parole. Tralascia tutto l’inutile e il superfluo, si limita solo a mostrare lo stretto necessario e a raccontare tutto quello che invece può essere passato in rassegna solo rapidamente. Nonostante questa essenzialità di fondo, la trama resta impressa, quello che succede si visualizza vivido nella mente del lettore. Dimitri guida il lettore attraverso Roma, una Roma misteriosa, dove i maghi si nascondono dietro a ogni angolo, ma possono anche incontrarsi per chiacchierare in un ristorante di lusso. Una Roma magica, dove sotto il velo della quotidianità delle forze sconosciute intrecciano rapporti, e dorme una segreta minaccia di cui non viene mai rivelata l’entità in tutto il romanzo, ma non escludo che accadrà in qualcuno dei prossimi libri.

Un altro autore molto sintetico.
Il personaggio di Gregorio è tratteggiato in modo davvero fantastico. Non è plastico, affettato, finto, come sono finti certi adolescenti dei romanzi, è vivo e realistico, è un tipico sedicenne dipinto senza disillusioni ma anche senza moralismi. Ha senza dubbio i suoi problemi, i suoi piccoli vizi, le sue pulsioni, ma tutto questo non viene né enfatizzato (come fanno certi scrittori italiani, che pensano che gli adolescenti siano tutti drogati e volgari) né trattato con il distacco bacchettone di chi descrive una situazione con l’intenzione di stigmatizzarla. Gregorio è così, e deve entrare nelle simpatie del lettore. E ce la fa, ce la fa perfettamente, al punto che quando si dispera e sente il mondo crollargli addosso anche chi legge prova questa sensazione. Perlomeno, io l’ho provata.

Gregorio cresce. Il Gregorio di inizio romanzo è proprio diverso da quello della fine, è molto più bambino e meno scafato, conosce meno le proprie capacità, le sa sfruttare meno, ha meno stima di sé. Il libro alla fin fine, se proprio vogliamo ridurre tutto all’osso, è la storia di come Gregorio riesce a crescere e a superare le difficoltà in cui la vita lo getta. È la storia del suo diventare adulto, del suo passaggio da un momento in cui gli altri gestiscono i suoi problemi a uno in cui lui stesso dovrà occuparsi anche di quelli degli altri.

Il romanzo è scritto in prima persona, quindi la figura di Gregorio è naturalmente preponderante sulle altre. Tuttavia non è ingombrante come succede in altri casi (qualcuno ha detto Trilogia dei fulmini?), ma consente anche agli altri personaggi di ritagliarsi uno spazio e farsi strada così nella mente del lettore. Sara, la sorella di Gregorio, ma anche Levi e gli altri suoi amici, Simone, Diana ed Elena non sono solo macchiette, ombre che si intravedono coperte dal gigantesco Gregorio, ma hanno la loro personalità, che viene delineata in modo semplice ed efficace.

Prova a toccarmi la trilogia dei fulmini...
La trama è molto semplice, per le prime due parti del romanzo prosegue in modo lineare e tranquillo, diventa più tesa ed eccitante nell’ultima parte, quando le lezioni vengono accantonate, la caratterizzazione dei personaggi ormai è fatta, l’ambientazione c’è, e quindi si passa a un po’ di azione che non fa mai male. L’ultima parte è quindi molto più coinvolgente delle altre due, perché si comincia finalmente a sentire il fiato sul collo, i personaggi vengono messi alle strette e quindi o si decidono a combinare qualcosa di buono con le loro forze oppure è la fine per tutti. Per questo si segue molto più volentieri. Se le prime due parti si fanno leggere molto bene per la vividezza con cui i personaggi vengono delineati e per il modo naturale in cui quotidianità e soprannaturale si intrecciano, la terza aggiunge a questo anche l’elemento della tensione. Che è un po’ la ciliegina sulla torta. Per cui sì, la parte di me cui non va mai bene niente ha pensato che se le prime due parti fossero state accorciate o se la terza fosse stata un po’ allungata il romanzo ne avrebbe giovato e non poco. Resta anche così un libro eccellente, è solo che io mi devo lamentare di tutto, mi conoscete.

Certi punti vengono tirati un po’ troppo via in modo sbrigativo. Tipo la questione dello scambio di mail, fondamentale per un certo sviluppo della storia, viene proprio tirata a mezzo svogliatamente e subito accantonata come se fosse senza importanza, tra l’altro dopo che il famoso sviluppo della storia si era già realizzato, e Gregorio non aveva nessuna ragione per non averne parlato prima. Questo è un esempio, ma succede anche altre volte. Sto di nuovo spaccando il capello in quattro, sappiatelo. Decisamente questo più che un difetto di trama è una sbavatura, un qualcosa che sì, infastidisce un pochino ma di fatto non va più di tanto a intaccare il giudizio complessivo.

Il rapporto tra Chiara e Gregorio, il più importante di tutto il libro, viene delineato in modo molto preciso e coinvolgente. I due non si vogliono bene perché sì, perché l’autore ha deciso che dovevano stare insieme, ma anzi, si nota tra loro la complicità, la malizia e la semplicità, la sincerità e l’ingenuità che possono avere solo le relazioni adolescenziali. Così, quando poi la trama evolve in una certa direzione, è stato per me un pugno in faccia tanto quanto lo è per Gregorio.

Direi che in questo risiede la particolarità e la bellezza de L’età sottile, in come i rapporti umani e le personalità riescano a staccarsi dalla carta stampata e a diventare qualcosa di più, come un mondo di immagini e sentimenti vividi e potenti viene rappresentato con una naturalezza e una concretezza davvero notevoli.

Naturalmente la magia ha un ruolo molto importante. È molto poco curato l’aspetto tecnico, Dimitri non si sofferma a spiegare come funzionano i poteri, anzi, sbriga tutto molto rapidamente. Roba che farebbe venire un colpo a Brandon Sanderson. Comunque, Dimitri accenna soltanto a quelle cose che verranno poi utili nel corso della trama. Quindi sì, abbiamo un sistema poco approfondito che però non tira fuori poteri dal nulla quando comoda alla storia, ma è coerente con le poche informazioni che fornisce.

Brandon Sanderson disapprova Dimitri.
Di ben poco posso lamentarmi. Prima di L’età sottile ho letto L’ombra dello scorpione, e vi giuro che se non sono arrivato al punto di implorare gli amici di uccidermi e porre fine a quella tortura poco c’è mancato. Una delle cose più noiose degli ultimi tempi, non brutto, ma di certo tutto fuorché avvincente. Bé, L’età sottile è stata una ventata di fresco, ne ho letto un centinaio di pagine in pochissimo tempo e mi sono scivolate via, quasi non me ne sono accorto. Già di suo è una buona cosa, se in più ci aggiungiamo che ero appena uscito da 930 pagine lente come la fame, che ne leggevo una ventina al giorno e poi mi sembrava di averne avuto abbastanza per mesi, bé è stato davvero un toccasana.

IN CONCLUSIONE


L’età sottile è davvero un libro di tutto rispetto, preso di per sé ma anche come fantasy italiano. Voglio dire, la nostra punta di diamante (inserire ironia qui), la Licia nazionale, se le sogna certe cose. Le idee, l’intensità dei personaggi, la crescita che sono costretti a vivere e soprattutto la forza con cui sono rappresentate le scene di vita quotidiana, la loro effettiva vicinanza alla realtà, intrecciata all’alone misterioso della magia, crea un’unione di grande potenza. E oltre a questo i personaggi che restano impressi, la trama discreta, e in particolare la scrittura di Dimitri, sono ciò che questo romanzo ha da offrire, e che io vi consiglio in tutta sincerità di accettare. Ne avrete solo da guadagnare.


VOTO: 

domenica 21 maggio 2017

Recensione - Hunter x Hunter di Yoshihiro Togashi

Che Hunter x Hunter mi piaccia penso non sia un mistero per nessuno. Voglio dire, basta guardare il metodo che uso per dare i voti ai manga per accorgersene. Se ho deciso di parlarne è perché non può mancare su questi schermi la recensione di quello che è a tutti gli effetti il mio manga preferito, la ragione, potremmo dire, che mi ha spinto a leggere manga. Se nel lontano settembre 2007, in vacanza al mare, mia mamma non avesse comprato il volume 18 di Hunter x Hunter per farmi una sorpresa (all’epoca guardavo l’anime su Italia 1), probabilmente ora la sezione manga di questo blog non sarebbe aperta. Quindi questa recensione non vi dirà molto di più sulle mie opinioni di quanto già non sappiate, ma vuole essere un tributo a un manga straordinario. E una viva esortazione a leggerlo.
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Titolo: Hunter x Hunter
Autore: Yoshihiro Togashi
Anno: 1998                                                   
Volumi: 33 (in prosecuzione quando a Togashi viene voglia di lavorare)
Editore: Planet Manga




TRAMA

Gon è un ragazzino che vive con sua zia sull’Isola Balena. Non ha mai conosciuto suo padre Jin, che lo ha abbandonato in fasce per continuare a svolgere il suo mestiere, l’hunter/cacciatore, un lavoro assai ambito che, in parole povere, consiste nell’occuparsi delle questioni più disparate (ecologia, archeologia, cattura dei criminali, scienza, biologia, e quant’altro) ma in modo avventuroso e spesso anche pericoloso: i cacciatori non sono studiosi quanto piuttosto ricercatori sul campo, avventurieri sempre in cerca di nuove scoperte e nuove conoscenze nel loro ambito lavorativo. Il padre di Gon è uno dei più grandi cacciatori del mondo, ed  è per conoscerlo che Gon decide di sostenere l’esame per diventare cacciatore a sua volta. Lungo la strada verso il luogo dell’esame conosce Leolio, all’apparenza superficiale e orgoglioso che vuole essere hunter solo per soldi, Kurapika, freddo e calcolatore che vuole diventare hunter per vendicare lo sterminio del suo clan, e soprattutto Killua, un ragazzino della stessa età di Gon che  nasconde più di un segreto sul suo passato.

L’esame da cacciatore è solo il primo passo che conduce Gon sulle tracce di suo padre, ma è qui che il ragazzino fa la conoscenza di alcune persone che sarà destinato a incontrare di nuovo: oltre al presidente degli hunter Netero, lo spietato e sadico Hisoka.

Hisoka che corre al pc a leggere la recensione.

LA MIA OPINIONE


Sono quasi certo di poter indovinare quello che avete pensato leggendo la trama. È banale. Questo vi siete detti. Non ve ne faccio una colpa. Succede a tutti. Perché è la verità, le premesse sono quanto di più banale io riesca a pensare. È quello che viene dopo che rompe gli schemi.

Hunter x Hunter si distingue dalla maggior parte degli shonen di combattimento per tutta una serie di caratteristiche. Intanto è vero, si combatte ma relativamente poco. Quest’aspetto non è preponderante come in molti altri shonen di successo, in cui i combattimenti sono uno strumento fondamentale per permettere alla trama di proseguire, dove non costituiscono addirittura la trama stessa. In questo momento sto pensando a Le bizzarre avventure di Jojo, ma in realtà ce ne sono molti altri di questo genere. Bé, Hunter x Hunter si distacca da questo modello, e si sviluppa intorno a una trama complessa che accoglie anche delle situazioni tipiche dei thriller: abbiamo i pedinamenti, la consegna degli ostaggi, le trattative con il nemico, ma anche le prove psicologiche, gli agguati, i personaggi che si infiltrano nel covo del nemico, e quant’altro. La tensione diventa in questi momenti palpabile, fuoriesce dalla pagina e conquista il lettore. Quando ci sono combattimenti, sono più che altro l’esito della situazione, il momento culminante di una vicenda che non può che concludersi così. In Hunter x Hunter non capita quindi sempre che qualunque situazione si risolva a mazzate, ma spesso le cose prendono direzioni più complesse. Senza contare che Togashi respinge quel modulo tipico dello shonen (di cui ho parlato anche nel post di qualche tempo fa) che prevede che i combattimenti siano tutti uno contro uno, anzi, capita spesso che un personaggio solo si ritrovi ad affrontare più di un avversario contemporaneamente. Quando ci sono i combattimenti uno contro uno, questa situazione riceve una spiegazione realistica e sensata, che di solito è che separare degli alleati rende la vittoria più facile che se si combattesse in gruppo, e non “questo è il suo combattimento”, come invece succede sempre, per esempio, in Bleach.

In secondo luogo, i personaggi hanno una psicologia complessa e approfondita. Scordatevi le macchiette alla Hiro Mashima o i classi personaggetti da shonen senza infamia e senza lode. In Hunter x Hunter ognuno ha la propria personalità, e molti subiscono una crescita non indifferente nel corso della storia. Posso citare molti esempi ma quello più convincente è Killua, che, se all’inizio pare molto sicuro di sé, si rivela invece come uno dei personaggi più fragili della storia, ed è costretto a prendere tutta una serie di mazzate dalla vita prima di riuscire a tirare fuori la grinta e a smettere di fuggire di fronte alle difficoltà.

Non fidatevi di Hisoka se vi chiede una mano..

I rapporti tra i personaggi sono descritti in modo magnifico. L’amicizia tra Gon e Killua è sincera e sfaccettata, è un’amicizia vera, reale, una di quelle che potremmo vedere nella vita di tutti i giorni. Un’amicizia non priva di ombre come si scoprirà con il procedere della storia, ma che comunque riesce a mantenersi salda e alla fine diventa occasione di crescita per entrambi. Se all’inizio, come Gon stesso ammette, lui è quello impulsivo mentre Killua quello con la testa sulle spalle, presto le cose non si riveleranno così bianche e nere e sarà proprio questa un ottimo momento per tutti e due per riparare a certi propri difetti.

Mano a mano che la storia prosegue il numero di personaggi aumenta in modo esponenziale, e Togashi riesce a renderli tutti ben caratterizzati. Sono veramente pochi i personaggi privi di personalità e piatti come una sagoma di cartone, i più sono davvero ben fatti. Anche quando Togashi introduce tanti personaggi in un colpo solo poi si prende la briga di soffermarsi su ciascuno di loro e descrivere bene il suo carattere. Ne sono un esempio le formichimere, che, nonostante siano davvero molte e siano pure dei nemici, quindi un qualunque altro autore di shonen non avrebbe esitato a caratterizzarli in modo stereotipato e sbrigativo, hanno invece personalità sfaccettate e a volte anche non scontate.

Già che ci siamo dico due parole sugli antagonisti. Una delle cose ottime di Hunter x Hunter è che gli antagonisti non sono cattivi cattivoni che vogliono conquistare il mondo perché sì, né persone pronte a farsi le scarpe l’uno con l’altro, o esseri crudeli che uccidono i loro compagni come mosche e poi sghignazzano davanti ai loro cadaveri. Prendiamo ad esempio la Brigata Fantasma. I membri della Brigata sono uniti da un legame solido e sincero, sono tra di loro amici, non semplicemente compagni. Non sono cattivi in assoluto, anzi, viene spesso mostrato il loro lato umano e solidale. Con questo non intendo dire che viene mostrata la loro triste storia che li ha resi cattivi, perché questo, oltre che essere di suo qualcosa di già visto, servirebbe ad attirare la pietà dei lettori ma li dipingerebbe come cattivi. I membri della Brigata invece piangono per i propri compagni, scendono a patti con i nemici per loro, scherzano, si prendono in giro, sono leali e fedeli. Questi loro sentimenti sono descritti così, come vengono descritti quelli dei protagonisti. Un personaggio come Pakunoda è di gran lunga più umano e di animo gentile di Kurapika, che è uno dei protagonisti eppure è peggiore di lei. E questo avviene in modo naturale, non c’è un’enfatizzazione da parte di Togashi del capovolgimento dei ruoli, non c’è bisogno di sottolineare questa differenza (come invece avverrà nella saga delle formichimere, ma questo per altri motivi). Sia Kurapika che Pakunoda sono persone, e in quanto tali nessuno di loro due è perfetto, e soprattutto non è scritto da nessuna parte che Kurapika debba essere migliore solo perché è un protagonista.

Hisoka mentre lancia iper raggio.

Come logica conseguenza di quello che ho appena detto, bene e male non hanno un confine netto e definito. I protagonisti non agiscono nel giusto necessariamente, e nella saga delle formichimere, quando a venire protetto è l’interesse di un paese invece che quello del gruppetto di Gon e compagni, questo diventa chiaro. La figura del Re delle formichimere ha questo come solo scopo, capovolgere del tutto la figura del nemico malvagio che vuole conquistare tutto, trasformandola in quella di un sovrano illuminato, che si trova a scontrarsi contro i protagonisti che, volendo mantenere l’ordine costituito, di fatto rinunciano a intervenire sulle contraddizioni e le ingiustizie della società. L’uomo è malvagio e questa malvagità risiede in lui naturalmente è la banale conclusione, ma non è banale il suo raggiungimento, il modo in cui viene presentata e l’operazione che viene effettuata attraverso i personaggi. Non è banale di suo ed è ancora meno banale in uno shonen. Il Re è poi un gran personaggio, approfondito e caratterizzato, la cui crescita interiore è descritta in modo stupendo, tanto quanto il suo rapporto con Komugi, la ragazzina che gli farà capire nuove cose sugli esseri umani. Anche le tre guardie reali contribuiscono a questo capovolgimento, e sono tra l’altro tutte e tre dei personaggi molto ben riusciti, ma la figura del Re è decisamente più incisiva.

La trama, a parte all’inizio, non è affatto banale. È imprevedibilie e coinvolge il lettore con grande facilità. Molto tempo è dedicato ai ragionamenti e alle strategie, ma anche, in particolare nella saga ora in corso, alle discussioni burocratiche e ai rapporti tra paesi. Riesce a essere originale tanto che a partire da un certo punto Gon passa in secondo piano, un’intera saga ha Killua per protagonista con Gon relegato a figura che non ha alcuno svolgimento attivo nello sviluppo della storia pur essendo fondamentale, e poi nell’ultima, quella in corso, addirittura appare soltanto in un capitolo, e in maniera molto marginale. È chiaro che a Togashi un protagonista troppo shonen come Gon sta stretto (riesce a gestire molto meglio Killua, la cui psicologia evolve in modo perfetto), e per questo lo ha fatto passare in cavalleria rispetto ad altri personaggi che invece gli vanno più a genio. Di certo Gon riapparirà in qualche modo, e sono davvero curioso di sapere come.


Dicevo che i combattimenti non sono una parte fondamentale della trama. È vero, ma va aggiunto altro: sono del tutto basati sulle strategie. Infatti, manco a dirlo, i combattimenti di Hunter x Hunter mi piacciono tantissimo. Ce ne sono alcuni pazzeschi, ma sul serio, non sono brillanti come quelli di Jojo, nel senso che quelli di Jojo, sono sempre assurdi e strani, ma sono coinvolgenti, dannazione, ed estremamente geniali e ben realizzati. Sto pensando al combattimento tra Quoll e Hisoka raccontato nei capitoli che non sono ancora stati raccolti in volume, gente, quello è straordinario. I combattimenti di Hunter x Hunter sono il massimo, non ne troverete di migliori da nessun altra parte. Sul serio. Tra l’altro, anche qui, come in molti altri shonen, i personaggi hanno poteri particolari. Qui sono chiamati Nen, ovvero in poche parole una specie di forza vitale. Il Nen è però diverso dai poteri tipici shonen. Intanto, è molto più articolato e caratterizzato, ha moltissime regole e moltissimi utilizzi che vengono tutti spiegati. Non è come l’aura di Dragon Ball, per dire, con cui alla fine ci puoi fare quello che vuoi, da lanciare onde energetiche a trasformare la gente in caramelle. Il Nen ha dei confini ben precisi, ma questo lo rende paradossalmente molto più interessante, perché il lettore stesso può seguire quello che sta succedendo cercando di indovinare in quale modo i personaggi faranno per ostacolare i poteri avversari. L’autore dimostra la sua bravura proprio così, facendo delle regole un punto di forza, e delle limitazioni un mezzo per coinvolgere il lettore.

Una cosa va nominata, ed è una nota dolente. I disegni sono scostanti. A me il tratto di Togashi piace, ma obiettivamente spesso non sono il massimo. Quelli usciti su Shonen Jump in certi punti sono proprio osceni. Questo è dovuto un po’ ai problemi di Togashi, che soffre moltissimo i tempi stretti della pubblicazione. Io nella scheda iniziale facevo ironia su questo, comunque è indubbio che Togashi abbia dei problemi reali. Certo, qualcuno la chiama svogliatezza. Può essere, io non lo credo, penso solo che sia un buon modo per fare battute, ma di certo non rispecchia una situazione reale.

A volte però a rendere brutti i disegni non sono i problemi dell’autore. Per esempio, il capitolo 337 ha dei disegni pessimi, ma in questo caso io sono sicuro che sia una scelta voluta. Ragioniamo. Il capitolo 337 contiene un complicato discorso sull’anima, sulla vita, sulla redenzione e sulla possibilità o meno di cambiare la propria vita. Quindi porca miseria, e sì, mi arrabbio perché ho letto gente che criticava questo capitolo in ogni modo possibile, se Togashi lo ha disegnato male non è perché non ne aveva voglia, per una volta non è per quello, è perché voleva che il lettore si concentrasse sui contenuti. Si vede, gente, si vede palesemente, alla fine c’è perfino una tazza con i bordi storti, ci mancava solo che scrivesse all’inizio “GUARDATE CHE L’HO FATTO APPOSTA”! Perché se la saga delle formichimere ha dei significati, sono contenuti tutti nel dialogo tra il Re e Netero e in questo capitolo. E anzi, visto che il capovolgimento delle prospettive di bene e male è operato un po’ ovunque nel corso della storia, oserei dire che la redenzione e la possibilità di cambiare la propria vita è il tema principale della saga delle formichimere, un tema che emerge abbastanza tardi, è vero, ma è sufficiente. Che cosa fa il Re, se non trovare un senso alla sua vita? Che cosa fanno Yupi e Wapf, se non trovare un senso alla loro vita? Che cosa fa la formi chimera Koala, se non trovare un senso alla sua vita? Certo, ciascuno di loro lo fa in un modo diverso, chi lo trova nell’accettazione dell’altro, chi nell’amore e nella devozione, chi nella sincerità e nel lavoro faticoso di riparazione ai propri errori.

Alla fine Hunter x Hunter è proprio questo. Un fumetto che parla di avventure, di azione, di combattimenti, di misteri, che rifugge le divisioni e i giudizi facili per offrire una visione delle cose problematica e grigia, ma anche che mano a mano che prosegue vuole parlare della vita e della crescita. Io voglio essere come Jin, lo so che non è una brava persona, ma è sempre alla ricerca di qualcosa, di un obiettivo. Sa come godersi la vita, sa come seguire la propria strada e sa che in ogni cosa si può trovare uno stimolo per andare avanti. Ed è a questo che esorta Gon: a trovare la propria via, raccogliendo sempre nuovi sproni, nuove cose che vale la pena conoscere, nuova bellezza e nel frattempo crescere. La curiosità è la cosa che caratterizza la maggior parte dei personaggi di Hunter x Hunter, da Hisoka a Jin a Netero al Re e a tanti altri. Alla fine, questo è quello che può dirci. Siate curiosi, mettetevi a prova. Scoprirete sempre qualcosa di nuovo. Dietro ogni curva c’è qualcosa di ancora più interessante che potete conoscere.

      IN CONCLUSIONE

Ho già parlato troppo. Ma il fatto è che Hunter x Hunter è spettacolare, e non lo dico solo perché per me ha un enorme valore affettivo. Anche per quello, ma anche perché davvero merita molto. Perciò seguite il mio consiglio. Leggetelo. Spendete bene quel poco di tempo libero che avete e non resterete delusi, non potrete far altro che farvi conquistare da Gon e dal suo mondo, dall’amicizia sua e di Killua, dalla crudeltà di Hisoka, dall’umanità del Re delle formichimere, dal mondo così realistico e al tempo stesso magico che prende vita nelle pagine di questo fumetto.

IL GIUDIZIO DI HISOKA:

mercoledì 10 maggio 2017

Commento integrale al Liber di Catullo. Carme 3.

L’altra volta avevo pronosticato il prossimo post su Catullo nel giro di due settimane. È passato un mese. La puntualità non è il mio forte, ma non importa! Vediamo subito che cosa ha in serbo per noi il carme 3 di Catullo!

Il carme 2 e il carme 3 costituiscono il dittico del passero della donna amata. Nel carme 2 abbiamo visto la descrizione di un momento di gioco della donna con il suo animaletto, e abbiamo visto come negli ultimi versi quello che pareva solo un quadretto raffinato diventava specchio dell’insoddisfazione del poeta. Nel carme 3 troviamo raccontata la morte del passero. Vediamo come Catullo tratta questo tema, e come lo interpreta attraverso le istanze della poesia neoeterica e attraverso la sua spiccata sensibilità artistica.

Lugete o Veneres Cupidinesque
et quantum est hominum uenustiorum.
passer mortuus est meae puellae.
passer deliciae meae puellae.
quem plus illa oculis suis amabat.
nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem.
nec sese a gremio illius mouebat
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
qui tunc it per iter tenebricosum
illuc unde negant redire quemquam.
at uobis male sit malae tenebrae
Orci. quae omnia bella deuoratis.
tam bellum mihi passerem abstulistis.
o factum male. o miselle passer.
tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli.

Piangete, Veneri e Amori,
e tutti quanti gli uomini gentili.
È morto il passero della mia ragazza,
il passero, delizia della mia ragazza,
che lei amava più dei suoi stessi occhi.
Era dolce, e conosceva la sua padrona
tanto bene quanto una figlia conosce la madre.
Non si allontanava mai dal suo grembo,
ma saltando qua e là
pigolava sempre alla sua sola padrona.
Ora lui attraversa quel sentiero irto d’ombra
dal quale si dice che non torni mai nessuno.
Maledette siate voi, malvagie ombre
dell’Orco, che divorate tutto quanto è grazioso;
tanto grazioso era il passero che vi siete prese.
O triste evento! O passero infelice,
per causa tua i piccoli occhi della mia ragazza
si gonfiano e arrossiscono dal pianto.

Inutile ribadire che la traduzione non ha nessuna velleità artistica, ormai lo sapete. Quello che mi interessa è offrire un testo chiaro su cui poter lavorare.


Come dicevo prima, carme 2 e 3 sono collegati, ma questo collegamento non è soltanto tematico, ma si riflette anche nell’operazione letteraria che viene attuata attraverso la loro composizione. Nello scorso articolo spiegavo come il carme 2 fosse la parodia degli inni agli dèi. Bene, anche il carme 3 è una parodia, ma di un altro genere letterario, l’epicedio, ovvero il canto di lamento per la morte di una persona. La parodia viene attuata qui come nel carme 2, ovvero attraverso la sproporzione tra la materia e lo stile. L’epicedio è per sua natura un genere altisonante e pomposo, si tratta di una lamentazione funebre del resto, e qui viene dedicato a un ben misero defunto, ovvero un passero. Le invocazioni del primo verso, quindi, risultano eccessive ed esagerate, addirittura per un animaletto vengono tirati in ballo Venere e gli amori! Anche il verbo lugete contribuisce a rendere maestoso il tono in modo ridicolo: lugere infatti significa piangere, ma non è un pianto sommesso, quanto un pianto urlato e disperato. Più in generale, tutto il componimento suona altisonante, per via delle immagini iperboliche che vengono usate, e della maledizione finale alle ombre infernali.

In questo contesto di stile elevato Catullo non dimentica di essere un neoterico, e perciò, in un’operazione molto efficace, inserisce in stilemi alti parole del lessico comune e quotidiano, che poi, come abbiamo visto negli articoli scorsi, sono una caratteristica particolare della lingua dei poetae novi. Tra queste parole possiamo citare come esempi il verbo pipio al verso 10, l’aggettivo bellus ai versi 14 e 15(che significa carino, grazioso, e che poi è diventato il “bello” italiano, assumendo però un significato più affine a formosus), il verbo fleo all’ultimo verso, che non è popolare ma è sicuramente meno alto di lugeo, e infine tutti i diminutivi dell’ultimo verso, ocelli e turgiduli. Questa opposizione tra linguaggio e stile non fa altro che accentuare lo scarto che genera la parodia.

Non dimentichiamo inoltre che il neoterismo si rifaceva alla poesia alessandrina. L’alessandrinismo di questa poesia è duplice: da un lato nel contenuto, infatti la lamentazione per la morte di animali è frequente nella poesia ellenistica, come dimostrato dall’Antologia Palatina, dall’altro nei riferimenti dotti che emergono di tanto in tanto. L’esempio più lampante è l’invocazione a più Veneri e a più Amori. Infatti, la tradizione mitica voleva che Venere e Amore fossero unici, come del resto sono unici tutti gli altri dèi, non è che esistono due Nettuno. Tuttavia, una certa tradizione di poesia erudita ellenistica aveva moltiplicato queste figure, come per esempio ci dimostra un frammento di Callimaco. Se quindi qui Catullo parla al plurale è perché vuole mostrare di avere accolto la lezione più dotta e meno vulgata del mito.


Il verso 2 è un grande omoteleuto, visto che su cinque parole le tre più lunghe finiscono tutte con la stessa sillaba. L’omoteleuto ha qui lo scopo di cadenzare il verso, dando l’impressione di scandire il ritmo di una marcia. La parola venustus è molto importante, perché si riferisce agli uomini eleganti, raffinati. Nella traduzione ho usato la parola gentile nel senso in cui la usano i poeti del ‘300, perché mi sembrava ci stesse bene e rendesse in modo efficace il significato della parola latina. E perché per quanto sia una traduzione di servizio questo non significa che debba proprio fare essere brutta. Comunque, è importante perché dice che gli uomini che devono piangere non sono tutti, ma solo quelli raffinati, che qui assume duplice valenza: indica gli uomini in grado di provare alti sentimenti, ma anche quelli dotti abbastanza da poter cogliere i riferimenti e l’eleganza della poesia che hanno di fronte.

Il verso 3 è una diretta citazione del carme 2, e serve, in caso qualcuno, dopo aver letto la parola passer, avesse ancora qualche dubbio, a confermare il legame che collega carmi 2 e 3. È in anafora con il verso 4, e insieme costituiscono l’invocazione solenne, e naturalmente ironica, all’oggetto della poesia, il passero defunto.

Nel carme 2 il poeta sottolineava lo scarto che passava tra lui e il passero, e così implicitamente affermava di voler essere amato dalla donna come l’animaletto. Nel carme 3 l’associazione è ulteriore, ed è realizzata attraverso espliciti rimandi al carme 8, rimandi che esaminerò più nel dettaglio quando mi occuperò del carme 8 stesso. Per ora, basti sapere che si va a creare una perfetta corrispondenza tra il passero e Catullo, andando così a sovrapporre le due figure. Il passero è alter ego di Catullo nella misura sono accomunati dai sentimenti che provano. Nel carme 72 Catullo affermerà di aver amato la sua donna come un padre ama i figli. Salta subito agli occhi l’analogia con la similitudine usata qui, che paragona la ragazza amata e il passero a una madre e una figlia. Il sentimento tra Catullo/passero e la donna non è quindi un amore semplicemente carnale, è un amore legato a un vincolo familiare, è un amore istituzionalizzato quasi, ma al tempo stesso naturale e non solo fisico ma anche affettivo.

Incontriamo qui adombrata una tematica fondamentale della poetica catulliana, quella che costituisce una sua cifra originale e unica. Quell’aspetto che caratterizza Catullo in modo straordinariamente preciso, e che lo rende anche molto romano, se capite che cosa intendo. Un greco non avrebbe mai potuto pensare a una cosa del genere, per lui non avrebbe avuto senso. Ma per un romano, per un romano con la sensibilità di Catullo che vive in un momento in cui, per quanto non si interessi della vita politica della sua città, non può che risentire delle lotte intestine e del crollo dei valori che tanto terrorizzava gli intellettuali dell’epoca, per un romano così dicevo tutto ciò ha senso.

Accenno soltanto a questo tema per riprenderlo poi molto oltre, quando sarà necessario. Ciò che Catullo cerca dalla ragazza che ama non è soltanto l’amore, ma è una rilettura di questo sentimento attraverso i valori della tradizione romana, che sono tipicamente collettivi, e tendono a dissolvere l’individualità nella totalità dello stato. Catullo vuole un amore unico e individualista e al tempo stesso basato su quei valori collettivi, riletti però in chiave del tutto nuova. Nel paragonare l’amore del passer (e quindi il proprio) a quello tra madre e figlio si cela proprio questo, la volontà di calare nel contesto della famiglia, cellula prima che compone lo stato, quella che in realtà è l’esperienza individuale e irripetibile dei singoli.


I versi 8, 9 e 10 riprendono il carme 2, e raccontano con altre parole la scena di gioco che lo caratterizza, questa volta ancora più distante, perché appartenente a un passato che non potrà più ripetersi. I versi successivi riportano la maledizione contro le ombre del regno dei morti, formula tipica dell’epicedio. Vale la pena sottolineare poi che la poesia si conclude con un nuovo riferimento al pianto, mostrando così una struttura a cerchio. Il pianto era presente anche nel primo verso, solo che, se lì era il pianto delle divinità invocate, qui è quello della donna amata, e infatti viene caratterizzato in modo molto più realistico, con il dettaglio degli occhi arrossati.

In questo carme l’arte di Catullo emerge molto meno che nei due precedenti. L’adesione alle regole di un genere, seppur per ribaltarle, impedisce al poeta di esprimere al meglio le sue capacità. A parte quindi la commistione di linguaggio alto e basso, di quotidianità ed erudizione (del resto tipica del neoterismo in generale), e la parodia, c’è ben poco altro di notevole da sottolineare, giusto l’accenno al tema della rilettura dei valori del mos maiorum romano. Tutto il resto è retorico, non brutto (assolutamente no!) ma di certo rarefatto, poco sentito, un po’ sterile in ultima analisi. È anche per questo che mi sono soffermato di più sull’analisi della prima metà della poesia e ho tagliato con velocità la seconda, perché di fatto di importante a livello di contenuto, di materia per capire la sostanza del mondo poetico catulliano, c’è poco o niente.

Dicevo all’inizio che è passato un mese dall’ultimo post su Catullo. Spero che non ne debba passare ancora un altro, ma ormai mi conosco. Comuque, chi va piano va sano, e va lontano, e nessuno ci mette fretta per arrivare a parlare del carme 4. A presto!