giovedì 30 marzo 2017

Recensione - Il richiamo del cuculo di Robert Galbraith (J.K. Rowling)

Facciamo un gioco. Immaginate di essere una donna di 52 anni qualunque, dove per qualunque intendo “più ricca della regina d’Inghilterra”. Immaginate di avere alle spalle sette libri che hanno venduto 450 milioni di copie, sono stati tradotti in 77 lingue e sono stati spunto per otto film di altrettanto successo. Immaginate che dopo tutto questo vi venga di nuovo voglia di scrivere, perché per voi scrivere prima che un lavoro è un piacere. Scrivereste inevitabilmente qualcosa di del tutto diverso dai famosi sette libri precedenti, no? Perché volete staccarvi quel marchio che ingombra, che viene prima di voi. Volete dimostrare che siete bravi anche con altri generi e non solo con il fantasy, che vendete perché avete talento e non per il vostro nome.

Ecco, immaginate tutto questo e sarete J. K. Rowling dopo che ha scritto il suo primo romanzo giallo, Il richiamo del cuculo. Che oggi è qui su questi schermi.
________________________________________________
Titolo: Il richiamo del cuculo
Autore: Robert Galbraith (la carissima zia Jo sotto pseudonimo)
Anno: 2013                                                         
Editore: Salani
Pagine: 547




TRAMA 

Cormoran Strike è un investigatore privato, e non se la sta passando bene in questo periodo. Ha poco lavoro, pochi soldi e una fidanzata con cui le cose vanno sempre peggio. Quando perciò incontra la sua nuova segretaria temporanea, Robin, non pensa che da lì a poco la sua vita prenderà una svolta, per quanto difficile, e lei ne sarà parte integrante.

Lula Laundry, famosa modella, è morta, è caduta dalla finestra del suo appartamento. Secondo la polizia è suicidio, ma il fratello John non è convinto. Per questo si reca da Strike: vuole che sia lui a indagare e a svelare la verità. Per Strike questa è l’occasione d’oro per guadagnare un po’ di soldi, rimettere in sesto la sua vita e rendersi conto se quello che è adesso e il mestiere che fa sono davvero ciò che desidera oppure solo il ripiego per qualcosa che non è mai riuscito a realizzare.

Il detective Cormoran mentre cattura un colpevole.

LA MIA OPINIONE


Il richiamo del cuculo è stato scritto sotto lo pseudonimo di Roberth Galbraith, e le ragioni di questa scelta le ho spiegate prima. Sta di fatto che prima che la Rowling facesse il coming out il romanzo aveva venduto pochino, qualcosa come 1500 copie cartacee (inutile dire che dopo invece le vendite sono salite alle stelle). La prima ragione che viene in mente a chiunque, la stessa che era venuta in mente a me, era che mentre Rowling è un nome che conoscono anche i sassi, Galbraith lo conoscono soltanto gli economisti e non si aspettano certo che pubblichi un giallo. Se poi si aggiunge che probabilmente il romanzo di un esordiente aveva ricevuto una pubblicità scadente, ecco spiegate le cause del flop. Bé, questo lo pensavo prima di leggere il libro, dopo che l’ho letto posso dire che la situazione, almeno a parer mio, è diversa.

Ora che tutti sanno che la Rowling è Galbraith l’intento iniziale dello pseudonimo è andato a farsi friggere. Infatti Il richiamo del cuculo è un libro che campa sul nome che l’autrice si è creata.

A me piace la Rowling. Ho adorato i libri di Harry Potter, ho cominciato il primo a sei anni e finito l’ultimo a dodici. Li avrò letti tantissime volte, non scherzo se dico che avrò superato la decina per ciascuno. Ok, non saranno dei capolavori di stile, ma hanno millemila altri pregi che  fanno dimenticare presto il fatto che, per esempio, la Rowling usi puntini di sospensione molto spesso dove non servono. Sono degli ottimi libri, che bilanciano uno stile non eccellente con ottime idee, una eccellente caratterizzazione dei personaggi, trame non scontate e molta ironia. Il richiamo del cuculo è invece un tremendo passo indietro. Quindi non è che non ha venduto perché povero caro non lo conosceva nessuno. Anche per quello, ma anche perché a conti fatti è un brutto romanzo, almeno secondo me.

E non è che la Rowling sia diventata di colpo stupida e abbia dimenticato come caratterizzare un personaggio. Strike è ben costruito, non è di certo un protagonista memorabile ma fai il suo sporco lavoro. I momenti in cui ricorda i tempi nell’esercito, in cui riflette su cosa fare di sé stesso, in cui ricorda la storia con la sua fidanzata, sono tutte parti in cui a parlare è una voce ben precisa, una voce che il lettore ha imparato a conoscere, non un punto di vista generico e asettico. Anche Robin, per quanto sia un po’ meno approfondita, va bene. E anche l’ambiente delle super modelle e degli stilisti in cui si svolge gran parte della storia è rappresentato con una precisione e una efficacia non da poco. Le scene rappresentate sono vivide e realistiche. Per dirne una, i personaggi sono tutti volgari e fumano tutti come dei turchi. Sembrano dettagli scontati, sembrano quelle cose che gli scrittori italiani inseriscono a caso nei loro romanzi per fare i trasgressivi, ma in realtà ci stanno molto bene. Del resto non credo che tra gli stilisti e le super modelle regnino una sobrietà e un’astinenza monacali, eppure sarebbe stato facile sfociare nell’eccessivo, nell’ipercaratterizzazione, nel troppo che suona surreale tanto quanto il poco. La Rowling evita tutto questo. Ma il libro non funziona comunque.

Avete mai letto un libro di Agatha Christie? Io tra la prima e la seconda superiore ho avuto il periodo in cui mangiavo pane e Agatha Christie. Li ho letti praticamente tutti nel giro di circa un anno, ne leggevo quasi uno al giorno. E non è che io avessi tanto tempo libero e non facessi altro che leggere, semplicemente i romanzi della Christie si leggono da soli. Ne cominci uno, ti prende e non fai in tempo a dire bah che toh, è finito ed era fantastico, avanti il prossimo. E sapete perché è così? Perché i gialli di Agatha Christie sono abbastanza brevi e vi succedono un sacco di cose. Nel giro di duecento pagine scarse c’è tempo per tre omicidi, caratterizzazione dei personaggi, approfondimento psicologico, evoluzione dei personaggi, gente che si sposa, gente che si lascia, gente che litiga, Hastings che ride dietro a Poirot per le sue manie, e venti-trenta pagine di spiegazione che tengono il lettore con il fiato sospeso. Il richiamo del cuculo è l’esatto opposto.

Ancora una volta mi sono lasciata prendere la mano...

Se tornate alla scheda del libro a inizio recensione vedrete che il dura la bellezza di 547 pagine. Più del doppio dei romanzi più lunghi della Christie. Cominciate già a intuire qual è il problema? È proprio come state pensando. Il richiamo del cuculo è un inutile polpettone.

Un romanzo giallo deve tenere viva l’attenzione del lettore e deve essere ricordabile. Perché lo scrittore di gialli è un prestigiatore che deve mostrare al lettore una magia e al tempo stesso ingannarlo, spostare la sua attenzione su certi dettagli e nasconderne altri in modo da rendere più difficile possibile capire il trucco. Se però il lettore non ricorda i punti salienti della vicenda come potrà partecipare alla sfida di capire l’assassino prima dell’investigatore? È come guardare lo spettacolo del prestigiatore al buio totale. Invece ciò che è affascinante è poterlo osservare sotto ogni aspetto e rendersi conto che è nella sua limpidezza che consiste l’inganno, che il trucco è in qualche modo pulito, è onesto, perché è essenziale ma allo stesso tempo in grado di illuderti. La bellezza di leggere un libro della Christie è proprio questa, che per duecento pagine ti fa credere una cosa e poi ti svela che non era vera, e lo si poteva capire, tutti gli elementi erano in bella vista, non nascosti sotto un cumulo di inutilità.

Tutto questo per dire che Il richiamo del cuculo è troppo lungo per quello che ha da raccontare. Il centro del romanzo è occupato dagli interrogatori, e dura qualcosa come 350 pagine. E questo è dannoso per due motivi. Il primo, perché impedisce ai dettagli di essere ricordabili: di un interrogatorio di due o tre pagine è facile tenere a mente tutti gli elementi, anche quando magari di interrogatori così ce ne sono cinque o sei. Ma quando ci sono dieci interrogatori di quasi trenta pagine l’uno, inframmezzati per altro da altre vicende che non c’entrano niente, tipo i problemi di Strike o roba simile bé, la situazione è ben diversa. Il lettore non può gareggiare con l’investigatore, sente qualcosa che si va a contraddire con quello che ha dichiarato un altro personaggio ma non può rendersene conto perché magari ha sentito dire quella cosa duecento pagine prima, e così piano piano perde coinvolgimento in quello che legge. Sia ben chiaro, non sto dicendo che in un giallo gli indizi non debbano essere nascosti, sto dicendo che esistono modi eleganti per nasconderli. E allungare il brodo a dismisura non rientra tra questi.

La reazione di zia Jo alla mia recensione.

Il secondo motivo è che gli interrogatori sono una fase di stallo. Vengono ascoltate le versioni di ognuno dei sospettati e quindi per forza di cose la trama non può andare avanti. Anche per questo devono essere corti, perché non è piacevole leggere una storia dove non succede niente. Quindi, trenta pagine di interrogatori possono avere un senso, 300 e passa invece no, anzi, sono un ottimo modo per uccidere l’interesse del lettore e per affossare la sua voglia di continuare la lettura.

Tutto questo rende nullo il buono di cui ho parlato prima. Perché va bene, Strike è caratterizzato, ma leggere 300 pagine di nulla su un personaggio ben caratterizzato è comunque noioso. Anche quando verso pagina 440 la Rowling si decide a far succedere qualcosa è comunque una ripresa fiacca e che viene salutata con freddezza dal lettore ormai sfinito. Anche Harry Potter aveva dei punti meno entusiasmanti di altri, ma lì c’era l’ironia oppure la trovata bizzarra che mantenevano vivo l’interesse, che facevano venir voglia di continuare la lettura. Qui per forza di cose non c’è nulla di tutto ciò, e quindi la noia è dietro l’angolo.

E poi arriviamo al finale. Non voglio fare spoiler, per quanto se vi dicessi chi è l’assassino vi risparmierei noia e tempo. Semplicemente, vi basti sapere che per quante spiegazioni si tenti di dare il tutto continua a suonare abbastanza stupido. Non perché la soluzione di per sé non abbia senso, credo che lo abbia (non ne sono sicuro perché grazie alle famose 300 pagine di interrogatori non ricordo tutti gli elementi fondamentali del caso), il fatto è che c’è un incoerenza di fondo che, per quanto si noti che specie verso la fine l’autrice abbia cercato di giustificarla, in pratica continua a suonare senza senso. Non dico di più, se lo leggete capirete subito di cosa sto parlando.

Conan dopo aver letto chi è l'assassino.

IN CONCLUSIONE


Il richiamo del cuculo è un romanzo noioso, troppo lungo e pieno di parti inutili. Ha delle qualità positive che gli impediscono di cadere negli Abyssi della brutta letteratura e lo stile funziona, ma comunque non è riuscito a piacermi. Non è il male assoluto, questo no, ma è ben lontano dall’essere anche solo accettabile. Quindi in caso ve lo steste chiedendo no, non ho al momento intenzione di leggere i due seguiti (anche se il secondo me lo ha regalato qualcuno in qualche occasione) ne ho avuto abbastanza per un po’ di Cormoran Strike e di Robin.  Peccato, dalla Rowling mi sarei aspettato di più, almeno a livello di idee e coinvolgimento.

VOTO:
 

giovedì 16 marzo 2017

Recensione - Steel Ball Run di Hirohiko Araki


La recensione di oggi non sarà oggettiva. So che non è una novità, visto che ogni recensione è la mia opinione e non la verità svelata. Intendevo dire che quella di oggi sarà particolarmente poco oggettiva.

Le bizzarre avventure di Jojo è uno di quei manga che io non mi stufo mai di leggere. Nelle ultime settimane  mi sono messo riletto tutta la settima serie, e ho deciso che su questo blog non poteva assolutamente mancare un articolo su Araki. Quindi se ve lo steste chiedendo sì, è trash. Sì, ci sono poteri assurdi. Sì, i personaggi sono quasi tutti mal caratterizzati. Sì, la trama ha dei risvolti insensati.

Sì, è maledettamente geniale.
____________________________________
Titolo: Steel Ball Run
Autore: Hirohiko Araki
Anno: 2006                                               
Volumi: 24
Editore: Star Comics




TRAMA

Dai, davvero volete sapere la trama? Davvero pensate che nel momento in cui spunta fuori un portatore di stand con poteri impensabili e intenzioni ostili importi la trama? Mamma mia, come siete pignoli. E va bene.

Siamo in America sul finire del 1800, e il ricco Stephen Steel ha organizzato una corsa a cavallo che partirà da una costa e giungerà a quella opposta. Il viaggio è lungo e difficile, ma il premio è molto ricco, e per questo i partecipanti sono molti e accaniti. Tra questi troviamo alcuni personaggi molto particolari, come Sandman, l’indiano che partecipa per riscattare la sua gente, Pocoloco, che partecipa perché non ha nulla da fare e gli è stato predetto che avrà un periodo molto fortunato, e tanti altri. Un giovane ex-fantino che ha perso l’uso delle gambe in un incidente, Johnny Joestar, tocca la sfera di ferro di un partecipante, J.Lo Zeppeli, e riprende per un attimo a poter camminare. La cosa lo spinge a cercare di scoprire il segreto di questa sfera, e così si lancia nella Steel Ball Run, divenendo ben presto amico di J.Lo e correndo insieme a lui nella gara. Il cammino è erto di insidie: non solo qualcuno dall’Italia, paese natale di Zeppeli, vuole impedire che loro arrivino sani e salvi alla fine, ma qualcosa di ben più misterioso (e pericoloso!) si nasconde dietro la corsa. Qualche con cui ben presto J.Lo e Johnny, volenti o nolenti, dovranno entrare in contatto...


Ad Araki piace, e si vede.

LA MIA OPINIONE


Se avete già letto Jojo sapete cosa aspettarvi, e Steel Ball Run soddisferà in modo perfetto le vostre aspettative. Forse riuscirà perfino a stupirvi.

Nessuno penso che, aprendo a caso una serie di Jojo, creda di trovare i pregi che normalmente rendono un fumetto bello e di qualità. Eppure, Jojo ha un’attrattiva tutta sua, riesce a risultare straordinario pur avendo delle premesse di ben scarso valore. Questo per il motivo che nominavo all’inizio. Jojo è geniale.

E badate, non nel senso con cui potrei definire geniale Liar Game, per dirne uno. O Hunter x Hunter. Ha una genialità tutta sua, tutta particolare, che poi è la genialità unica di Araki.

Ok, forse posso smettere di ripetere sempre la stessa cosa e provare a spiegarmi. Jojo è geniale perché è composto da una serie infinita di trovate che sono una più assurda dell’altra eppure vengono sfruttate al massimo nelle loro potenzialità. Perché quando un personaggio ha un potere lo usa in modo furbo e astuto e sempre variegato (per farvi un esempio di ciò che intendo, è la differenza che passa tra come Rufy usa l’elasticità del suo corpo e come invece la usa Hokushin in Yu degli spettri), cercando di ideare la strategia più intelligente ed efficace in quel momento. L’uso abile dei poteri dei personaggi è di certo la caratteristica più notevole di tutte le serie di Jojo, e Steel Ball Run non fa eccezione. Araki è davvero fantastico in questo, e ciò rende i combattimenti davvero molto interessanti da leggere e da seguire. Non troviamo mazzate alla Dragon Ball o alla Bleach, la strategia la fa da padrona, e appunto, come dicevo prima, la strategia meditata e calcolata nei minimi dettagli e nei suoi risvolti più inaspettati.

Come sa chiunque abbia letto un capitolo di Jojo, i combattimenti sono la struttura portante della trama, che in sostanza è solo un metodo per collegare le une con le altre le varie battaglie. Bisogna dire che Araki fin dall’inizio è stato un patito delle strategie e infatti fin dalla terza serie (quella dove vengono per la prima volta introdotti gli stand, il marchio di fabbrica di Jojo) sui combattimenti non si poteva trovare nulla da dire. Se Stardust Crusaders è la parte che mi è piaciuta di meno è perché lì la trama veramente non esiste, è solo un pretesto per menare le mani. Perché sì, ad Araki della trama non frega niente, quello che gli interessa è inventarsi qualche idea assurda per mettere in seria difficoltà i personaggi e poi inventarsene un’altra per salvarli. Nonostante questo con il trascorrere degli anni è diventato sempre più bravo a creare trame perlomeno decenti, e Steel Ball Run rappresenta un perfetto esempio di ciò. Qui abbiamo un plot che in effetti ha diversi colpi di scena, diverse parti in causa che lottano tra di loro e degli snodi che non sono scontati. Ci sono dei cambi di bandiera e dei tradimenti, perfino. Tutto subordinato alle battaglie e comunque con un ruolo che è rilevante solo in modo relativo, ma voglio dire, per Jojo questi sono passi da gigante!

Wekapipo in una comoda posizione per combattere.

Vi dirò di più, i personaggi non sono proprio da buttare via. Se in Stardust Crusaders avevano tutti quanti una personalità spessa quanto una razza, qui siamo messi meglio. Sia protagonisti che antagonisti hanno un passato ben definito e questo li ha resi in misura diversa quello che sono al momento della storia, inoltre hanno tutti quelle due o tre caratteristiche che li identificano. Per esempio, di solito J.Lo è quello che agisce in modo avventato e impetuoso mentre Johnny quello più riflessivo e prudente (eccetto quando si parla delle sfere di ferro e delle sue gambe). Come vedete non è nulla di particolare, è una caratterizzazione appena accettabile, che di certo in un altro caso avrei cassato come poco precisa e raffazzonata. Ma non in Jojo.

Vi chiedete perché? Semplice. Ha poco senso applicare in modo rigido e asettico dei criteri di valutazione come fossero regole universali di qualità. È stupido che io dica che ogni manga con personaggi poco caratterizzati o con combattimenti senza strategie è brutto. Bisogna osservare caso per caso ciò che l’autore voleva realizzare e trasmettere.

Quando crea e disegna Le bizzarre avventure di Jojo Araki non vuole sfornare qualcosa di profondo o ben organizzato. Vuole soltanto dare corpo alle sue idee assurde, vuole stupire e coinvolgere, vuole che il lettore resti di stucco a leggere della strategia che si è inventato il protagonista con i poteri di trasformare le sopracciglia in fruste contro il cattivo che invece si solletica sempre il naso perché quando starnutisce emette un gas tossico che scioglie tutto ciò con cui entra in contatto. Non gli interessa una caratterizzazione profonda dei personaggi o una trama ricca di snodi, punta su ben altro, ed è questo che va valutato nell’ottica di capire ciò che si ha di fronte piuttosto che inserirlo nel proprio schema mentale rigido e inflessibile di qualità o non qualità.

Quindi Steel Ball Run soddisfa perfettamente lo scopo per cui è stato pensato e realizza in pieno quelli che sono i suoi obiettivi. Vogliamo parlare della sceneggiatura? Avete mai letto qualcosa di così coinvolgente come le sceneggiature di Araki? Non sono come quelle di Urasawa, ma centrano perfettamente nel segno. Spesso rappresentano le scene prese a rallentatore nei loro minimi sviluppi, cambiano prospettiva per mostrare la stessa azione da punti diversi, hanno l’unico scopo a seconda dei casi o di tenere il lettore con il fiato sospeso, o di rendere anche il gesto più semplice qualcosa di assurdo, insensato o bizzarro. In qualunque altro manga non avrebbero senso, ma sono fatte apposta per Jojo.

Quanto a idee, siamo ai massimi storici. Nessuna delle serie precedenti conteneva situazioni così folli, eppure trattate dai personaggi in modo così serio. Un esempio sotto spoiler.


[SPOILER]La Steel Ball Run si rivela presto come una scusa, un pretesto ideato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump Funny Valentine per bombardare la Corea del Nord impossessarsi di un oggetto di capitale importanza nella storia del mondo, un oggetto leggendario e straordinario che possiede un potere smisurato, e che è stato diviso in nove pezzi nascosti in nove punti diversi in tutta l’America. Sto parlando del – tenetevi forte – corpo di Gesù Cristo in persona personalmente!

Non so se mi spiego. Gesù Cristo. In America. Non è semplicemente geniale?[SPOILER]

Ok, mi rendo conto che è assurdo, ma come dicevo prima non conta, non importa, è perfetto così! Questo è quello che uno si deve aspettare da Jojo, e questo è quello che riceve. Quindi sì, Steel Ball Run non è per tutti, perché va preso per quello che è, soltanto così si può apprezzare seriamente.

II combattimenti, che già lodavo in precedenza, seguono l’usuale schema che ritroviamo anche nelle altre serie di Jojo, ed è poi la ragione, insieme alla sceneggiatura, per la quale sono così coinvolgenti. Lo schema è pressappoco questo. Si comincia in una situazione di normalità, in cui i protagonisti stanno facendo qualcosa di ordinario, come per esempio che ne so, comporre canzoni che ripetono in loop pizza-mozzarella. D’improvviso succede qualcosa di strano, che i protagonisti non riescono a spiegare e che presto scopriranno essere diretto contro di loro. A questo punto salta fuori che quello è il potere di un nemico che li sta attaccando per qualche ragione che non importa a nessuno, quello che conta è capire la vera natura di quel potere per poterlo poi contrastare. Dopo aver subito vari attacchi ed essere stati feriti nei modi più improponibili (ferite che scompariranno magicamente a fine della battaglia, ma di nuovo non importa a nessuno), i protagonisti intuiscono in cosa davvero consista il potere nemico e lo respingono con una strategia inaspettata. Seguono varie pagine di sberle ignoranti e il nemico è finito, possiamo passare al prossimo.

Questo schema è sfruttato in tutte le sue potenzialità, in tutte le sue variazioni possibili e immaginabili. Ed è per questo che i combattimenti sono così ben realizzati, perché i protagonisti si trovano sempre nella peggiore situazione possibile (ulteriore esempio di questo è che i nemici sanno quasi sempre che potere hanno i protagonisti, ma non vale mai il contrario) e devono trovare soluzioni sempre più ingegnose per uscirne vivi. Questa costante situazione di svantaggio di quei personaggi per cui il lettore parteggia genera una tensione che non se ne va quasi mai e tiene in continuazione con il fiato sospeso. Del resto, c’è un motivo se i combattimenti di Jojo sono tra i migliori che io abbia mai letto.

Il presidente degli Stati Uniti che ha organizzato la steel ball run.

IN CONCLUSIONE


In caso qualcuno si stesse chiedendo perché ho deciso di recensire per prima la settima serie la ragione è semplice: mi andava di rileggere questa, e del resto le serie di Jojo sono abbastanza indipendenti l’una dall’altra, quindi non creava alcun problema.

Comunque, Steel Ball Run è un manga molto ben realizzato, che si propone di intrattenere il lettore con trovate assurde e poteri impensabili, con una vagonata di tensione e picchi di stupore a ogni pagina, e ci riesce in modo perfetto. Se vi piace il genere, se amate il trash, non potete perdervelo. Se vi piacciono le mazzate con strategia e intelligenza non potete perdervelo. Se cercate il fumetto della vita, la grande opera d’arte seria e che si prende sul serio, bé, allora girate al largo.

IL GIUDIZIO DI HISOKA:

mercoledì 8 marzo 2017

Recensione - La Torre Nera di Stephen King (Torre Nera #7)

Siamo giunti al gran finale. Chi se lo aspettava, eh? Io no di sicuro, a un certo punto mi ero convinto che le recensioni della Torre Nera sarebbero rimaste ferme a metà. Fortunatamente non è così, e quindi potete avere anche voi lo stesso onore di Eddie, Susannah, Jake e Oy, lo stesso onore che ho avuto io e che hanno avuto tanti altri Fedeli Lettori in tutto il mondo. Seguire Roland fino alla fine, fino in cima alla Torre per scoprire che cosa essa ha in serbo per il pistolero.

Parlare non serve. Immergiamoci nella storia.
_____________________________________
Titolo: La Torre Nera
Autore Stephen King
Anno: 2004                                                         
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 803




TRAMA 

Siamo alle battute finali della storia. Padre Callahan, Jake e Oy si infiltrano nel Dixie Pig per salvare Susannah e impedire la nascita di Mordred, figlio di due padri (Roland e il Re Rosso) e di due madri (Mia e Susannah). Ancora separato da Roland ed Eddie, e presto diviso anche da padre Callahan, che si ferma a combattere i vampiri per coprirgli le spalle, Jake si trova a introdursi solo con Oy nella tana del nemico, dovendo affrontare il ka-tet dei suoi scagnozzi.

Nel frattempo Roland ed Eddie si trovano ancora nel Maine, nel quando in cui hanno incontrato Stephen King. e devono ritornare al più presto a dare man forte al resto del ka-tet. Non prima, naturalmente, di essersi assicurati che il terreno con la rosa, il terreno che ospita uno degli ultimi Vettori ancora in piedi, possa ricevere protezione e difesa dagli uomini del Re Rosso e dall’associazione che questi controlla e attraverso la quale agisce nel mondo che noi tutti conosciamo. 


LA MIA OPINIONE


Leggete La Torre Nera. Qualunque giudizio io possa esprimere qui in questa recensione sarà sempre e comunque riduttivo rispetto a quello che è il libro. Leggetelo perché è un’esperienza che non vi capiterà più nella vita. Questo è il vero Stephen King, lo stesso di It, lo stesso di Misery, quello che sconvolge, che fa amare i personaggi come amici di vecchia data, che si fa odiare per quello che succede nella storia, quello che conquista e non lascia andare, che apre mondi dai quali non vorresti andare mai via, che fa compiere viaggi verso confini che mai nessuno avrebbe immaginato, che ti porta in cima alla Torre Nera solo per farti scoprire che c’è ancora una porta da attraversare.

Ho adorato questo libro. L’ho adorato pur detestando quello che succedeva in certi punti, pur avanzando a stento in certi altri che proprio non volevo leggere, pur trovandomi avvolto da cappe di malinconica solitudine mano a mano che proseguivo con la storia.

Qui non c’è un racconto, c’è la vita gente, i personaggi sono così vivi che ti sembra di averli vicino. Ti sembra di essere davvero a Fine-Mondo, a Fedic, nel Maine, davanti alla Torre Nera. Non c’è nulla di più vero di quello che prende prepotentemente vita dalle pagine di questo romanzo.

La lettura è qualcosa di strano, che ha fatto nascere in me emozioni contrastanti e che non ho molto cercato di conciliare. Da un lato avevo una voglia pazzesca di continuare, di non staccarmi mai dalla pagina per non spezzare l’incantesimo, di interrompere all’improvviso quell’assurdo viaggio a Contezza accanto a Roland che stavo conducendo attraverso le parole di Stephen King. Dall’altro però leggere diventava sempre più difficile mano a mano che la trama proseguiva, ogni evento era come un pugno in faccia. Non aspettatevi lieti fine gratuiti o risoluzioni facili, tutto ciò che può andare male va male e quel senso di vuoto che ti rimane nello stomaco quando dici addio agli amici più cari non vi lascerà mai dall’inizio alla fine.


Molto spesso emergono nella storia all’improvviso momenti malinconici che danno un sapore dolce alla lettura. Come quando tornano alla mente ricordi di tanti anni fa, e ci si culla nella loro serenità, così succede in certi punti del libro. L’esempio più lampante e più genuino, più evocativo e intenso, è proprio all’inizio, quando la tartarughina d’avorio di Padre Callahan viene paragonata alla barchetta di George Denbrough, che esce per sempre dalla storia alla fine del primo capitolo di It.

La trama è davvero ben realizzata. All’inizio pensavo che King avesse deciso di concentrare troppe cose nel volume finale, mentre avrebbe fatto meglio a dilazionare anche all’interno del sesto la risoluzione di qualche nodo principale. In realtà mi sbagliavo, le vicende si seguono in modo magnifico in un crescendo di tensione sempre maggiore e a ciascun evento è dedicato lo spazio necessario. Nonostante siamo al volume finale viene introdotta ulteriore carne al fuoco, e questo è bene, perché rende ancora più palpabile la tensione. Smettere di leggere diventa impossibile, le pagine sono un vortice di eventi che intrappola e trascina fino alla fine. I dolori di Roland e del ka-tet sono i dolori del lettore, e lo stesso vale per le gioie.

Viene introdotto un discreto numero di nuovi personaggi. Poi visto che stiamo leggendo un libro di Stephen King e non Bleach tutti questi personaggi sono ben caratterizzati. Una menzione va a parer mio a Pimli, il capataz di Algul Siento (il luogo dove sono tenuti prigionieri i Frangitori), che non è semplicemente un cattivone versione 2.0 ma ha una personalità precisa e anche con le sue particolarità. È un umano in mezzo ai mostri e a persone con poteri paranormali e si vede, si vede eccome!

Volete sapere di un personaggio che invece è particolarmente insignificante? Il Re Rosso. Appare venti pagine scarse e non fa niente se non attaccare Roland. Di solito l’antagonista finale si suppone che abbia una personalità un po’ più sfaccettata, ma bisogna anche considerare un fatto di importanza non trascurabile. Il Re Rosso è sì l’antagonista principale, ma diciamoci la verità: a chi fregava, mentre leggeva, sapere se sarebbe stato sconfitto, e a chi invece fregava arrivare finalmente in cima alla Torre Nera? La Torre batte decisamente il Re per quanto riguarda interesse e importanza, e questo lo riconosceva anche Stephen King. Per questo motivo a mio avviso non ha speso troppo tempo per caratterizzarlo in qualche modo particolare, perché alla fine della fiera quello che importava era ben altro.


Questa è senza ombra di dubbio la degna conclusione che la serie meritava. Un romanzo in cui vengono risolte tutte le questioni aperte (compresa quella con Randall Flagg, ancora in ballo da L’ultimo cavaliere) ma che contemporaneamente offre nuovi dubbi e nuove domande, che aggiunge molti elementi nuovi al mondo di Roland e che allo stesso tempo riesce a creare forti collegamenti con romanzi di Stephen King che lo hanno preceduto. È il punto di incontro di tutto l’universo che King ha creato nel corso del suo lavoro di scrittore, il centro attorno al quale vortica la sua fantasia.

Un senso di smarrimento vi accompagnerà per la lettura aumentando sempre di più mano a mano che proseguite, e quando arriverete al finale sentirete sulle spalle anche voi il peso del lungo viaggio, rimarrete desolati davanti a ciò che sta succedendo e alla fine non potrete che convenire che, come dice Stephen King stesso, che sia bello o brutto, originale o banale, quello non poteva che essere l’unico finale della serie.

A dirla tutta esistono due finali, uno dedicato ad alcuni personaggi, un altro ad altri. Entrambi sono intensi, inaspettati (specialmente il secondo!) e coerenti con tutto il resto. Non credo che qualcuno al mondo abbia ascoltato l’invito di Stephen King scritto tra il primo e il secondo finale, per quanto fosse molto sentito. Insomma, dopo sette volumi non si può non volere arrivare in fondo!

Volevo infine approfittare di questo spazio per dire due parole sulla serie in generale, ora che siamo giunti all’ultima recensione. La saga della Torre Nera ha alti e bassi, questo lo sapete. Il primo libro detiene la medaglia d’argento come peggior libro recensito finora su questo blog, l’ultimo al contrario è tra i migliori. Ma questo non importa, perché gli alti non soltanto controbilanciano i bassi ma anzi, ne avanza per i beati. La Torre Nera non è una saga epica nel senso che segue vicende che hanno luogo per centinaia di migliaia di anni in una terra fantastica, né perché ha come protagonisti un gruppo di eroi votati al bene per principio. È assai distante, almeno sotto questo punto di vista, dal fantasy in stile Tolkien, nonostante questo resti un modello dichiarato e imprescindibile. Tuttavia è epico perché racconta la storia di cinque figure grandiose, cinque persone che si imprimeranno nel cuore del lettore come se questi li conoscesse da una vita, che sono molto più vive di tanti che si credono vivi e che invece si limitano ad occupare spazio. Il più grande punto di forza della serie è proprio il ka-tet, l’amicizia (anche se parlare di amicizia è riduttivo, il ka-tet è molto di più!) tra Roland, Jake, Oy, Susannah ed Eddie. Dopo viene tutto il resto.

La trama prosegue in modo discontinuo e affatto calcolato, ma non è importante. La scrittura è straordinaria. Leggetela, fidatevi, leggetela, e non ne resterete delusi. Viaggerete nei mondi più disparati, vivrete vite che mai avete immaginato al fianco dei vostri compagni più fedeli, che non vi lasceranno mai. Siete ka-tet, siete uno di molti. Questa è la vostra forza.

Zio Steve dopo aver visto il voto in fondo all'articolo.

IN CONCLUSIONE


Dico la verità, mi dispiace concludere questo gruppo di recensioni, mi ha permesso di trascorrere ancora un po’ di tempo insieme al mio Dihn Roland e agli altri. Mi ha anche permesso di riscoprire che cosa ho amato di questa serie e di cercare di trasmetterne un po’ anche a chi mi legge. So di non esserci riuscito, ma perché l’unico modo per capire davvero che cosa sia la saga della Torre Nera è leggerla.

Voglio infine ringraziare Stephen King per aver scritto questi libri. Non lo faccio perché spero che mi legga, è ovvio che non mi leggerà mai, ma lo ringrazio lo stesso, perché se ho potuto sognare per un po’ è tutto merito suo.

A Stephen King io dico grazie.

Lunghi giorni e piacevoli notti.

VOTO:

domenica 5 marzo 2017

Recensione - La canzone di Susannah di Stephen King (Torre Nera #6)

Alla fine de I lupi del Calla la situazione era precipitata in modo rapidissimo. Susannah è fuggita attraverso la porta e ha viaggiato tra i mondi controllata da Mia, un demone nato dentro di lei che ha il compito di partorire. Soltanto due vettori ormai reggono i mondi, e nel covo dei lupi i Frangitori sono in continuazione al lavoro per distruggerli. Il Re Rosso ha quasi completato il suo progetto di gettare i mondi nel caos. Roland e il suo ka-tet, affiancati da padre Callahan, hanno poco tempo per tentare di risolvere la situazione. Seguiamoli dunque in questa penultimo volume delle loro avventure, che riserva per i lettori davvero delle sorprese inaspettate.
_________________________________________
Titolo: La canzone di Susannah
Autore Stephen King
Anno: 2004                                                        
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 400




TRAMA

Il ka-tet di Roland si divide in due gruppi. Entrambi viaggiano attraverso i mondi per giungere a New York in momenti differenti. Oy, Jake e Padre Callahan arrivano nel 1999 all’inseguimento di Susannah e Mia, per impedirle di recarsi dai servi del Re Rosso che sono stati incaricati di farla partorire. Mia ha stipulato un patto con l’uomo in nero, Walter O’Dim, o Randall Flagg, come gli piace farsi chiamare, che prevede che una volta partorito il bambino sarà consegnato a lei insieme al difficile e onorevole compito di crescerlo.

Roland ed Eddie sono nel Maine nel 1977, con lo scopo di verificare l’acquisto da parte di Calvin Torre del pezzo di terra che contiene la rosa, probabilmente manifestazione di uno dei vettori ancora in piedi. Qui, in seguito a una serie di eventi, trovano rifugio presso un uomo, John Cullum, e dopo essere stati con lui decidono di fare visita a una persona che hanno sentito nominare spesso e che sono certi abbia un ruolo molto importante nella loro vicenda. Una persona che, casualmente, abita proprio nel Maine...

Il peggior nemico dell'uomo in nero.

LA MIA OPINIONE


La canzone di Susannah è diverso dai romanzi che lo precedono. Avevo accennato a questo cambiamento già nella recensione de I lupi del Calla, e ora è il momento di parlarne con precisione. Se I lupi del Calla aveva una sua vicenda autoconclusiva ma poi lasciava aperte alcune vicende molto importanti perché fossero svolte e risolte nei libri successivi, La canzone di Susannah abbandona completamente lo stile autoconclusivo per diventare il tassello centrale di un puzzle composto dagli ultimi tre libri. Le vicende narrate in questi tre romanzi sono uniche, La canzone di Susannah non ha senso se non dopo I lupi del Calla e prima de La Torre Nera. Infatti non abbiamo qui un inizio uno svolgimento e una fine, abbiamo soltanto lo svolgimento, che riprende e sviluppa quanto era stato lasciato in sospeso ne I lupi del Calla e lo proietta poi verso la sua conclusione nel volume successivo.

Questa trasformazione, almeno su di me, ha avuto un effetto positivo. Ha innanzitutto rinnovato lo spirito della saga e le sue modalità di sviluppo. Non che ce ne fosse bisogno, ma è stata comunque benvenuta. Inoltre ha reso ancora più grande la tensione verso gli sviluppi dell’ultimo volume. Se anche questo fosse stato autoconclusivo come potevano esserlo il primo o il secondo sono certo che lo stacco con La Torre Nera sarebbe stato meno incisivo e meno efficace. Così invece ha funzionato alla perfezione.

La carne messa al fuoco in questo libro è davvero molta. Cominciamo con l’imminente nascita del figlio di Susannah/Mia, che si chiamerà Mordred, e del quale si scopre l’identità del padre. Siamo di fronte al primo grande colpo di scena del romanzo, e anche a uno dei momenti meglio arrangiati di tutta la saga. Stephen King, quando ancora scriveva senza sapere che cosa sarebbe successo la pagina dopo, aveva fatto succedere determinate cose, e ora che invece ha dei piani più precisi si esibisce in un esempio di continuità retroattiva che fa quadrare le sue nuove idee con quello che era già accaduto. Inutile dire che le cose funzionano a meraviglia, non dico che sembra che lo zio Steve avesse tutto in mente fin dall’inizio ma quasi. Volete un indizio su chi sia il padre di Mordred? Non è lui.

Mordred, io sono tuo...ah, no.

Entrano poi in scena i cosiddetti uomini bassi, che erano stati nominati nel romanzo precedente da Callahan, e viene portato avanti il progetto di acquisto del terreno con la rosa-vettore. Ed è in mezzo a questi sviluppi, di per sé molto interessanti, che avviene il secondo grande colpo di scena del libro, quello che si poteva già subodorare dal volume precedente ma che nessuno avrebbe mai creduto si sarebbe realizzato fino a quando non lo ha letto con i propri occhi. Lo metto sotto spoiler perché è bello grosso.

[SPOILER]In sostanza, a un certo punto della storia Eddie e Roland si trovano a parlare con Stephen King stesso, lo Stephen King del 1977, quello alcolista tanto per capirci. King si rappresenta in modo divertito, autoironico e sincero, mostrando quali fossero i suoi punti deboli all’epoca, i suoi lati fragili, e si rimprovera attraverso i suoi personaggi. Non che sia quello lo scopo della sua apparizione, ma quando Eddie osservandolo commenta con un po’ di distacco e un po’ di apprensione che beve un po’ troppo bé, non si può non notare uno sguardo rassegnato e quasi di scusa dell’autore verso il proprio passato. Oltre a essere geniale di suo, l’inserimento dell’autore stesso come personaggio (non è originale, va detto, ma sicuramente fa il suo effetto e risulta senz’altro inaspettato) costituisce anche uno svolgimento non banale di un nodo della trama che risulterà fondamentale negli eventi del libro successivo. Stephen King è la voce di Gan, il mezzo attraverso il quale viene narrata la storia di Roland, tant’è vero che alla fine della sua visita il pistolero lo esorta a continuare a scrivere, a non lasciare la serie in sospeso, altrimenti la sua ricerca della Torre Nera non avrà mai una fine. La cosa interessante è che questo prende spunto da una storia vera: c’è stato un momento in cui Stephen King ha sognato che i suoi personaggi venissero a fargli visita e lo esortassero a continuare! [SPOILER]

In questo volume non vengono introdotti molti personaggi nuovi, non importanti almeno, a parte Mia, che viene approfondita e dotata di una personalità interessante e sfaccettata. Quello che fa King a questo giro è concentrarsi (come del resto aveva già fatto ne I lupi del Calla con Jake) sullo sviluppo dei personaggi che ha già, e qui siamo al turno di Susannah. Susannah, come dicevo nelle recensioni precedenti, era il membro del ka-tet che si faceva sentire di meno, quello che non è che attirasse meno le simpatie del lettore ma che sicuramente era non era presente quanto gli altri, non restava altrettanto impresso. Quel genere di personaggio che resta sullo sfondo della storia e dopo due giorni che hai chiuso il libro già lo hai dimenticato. Ecco, non so se Stephen King si sia accorto di questo in corso d’opera, se fosse tutto già programmato, se sono io che penso troppo o se è colpa del Chupacabra, comunque in questo romanzo il punto di vista di Susannah viene assunto in modo stabile (per ovvie ragioni, visto che rimane separata dagli altri quattro dall’inizio alla fine), e questo permette al lettore di conoscerla bene, di imparare ad apprezzarla non solo come soprammobile di contorno tanto bello e simpatico ma di avere con lei un rapporto profondo e diretto come quello che ha con gli altri personaggi. Insomma, se siamo arrivati a leggere al sesto libro non è soltanto perché vogliamo sapere se Roland troverà la Torre Nera. Certo, quello è importante, ma quello che conta sul serio non come finirà la storia, ma come finiranno i personaggi. Perlomeno, questo vale per me, non so per gli altri. Io sono arrivato al punto che quello che mi importava era trascorrere del tempo con i protagonisti, più che la trama in sé. Ed è bello finalmente avere occasione di legare anche con Susannah, oltre che con gli altri quattro.

Padre Donald Callahan contro Barlow il vampiro.

Il ritmo del romanzo procede in modo incalzante e imprevedibile. Un po’ grazie ai colpi di scena, un po’ grazie alla sequela di eventi che si verificano uno dietro l’altro, ho trovato difficile staccarmi dalla lettura. Lo stile coinvolgente di King unito alla sua capacità di interessare e generare tensione trascina il lettore in una spirale dalla quale è impossibile uscire finché non ha concluso il libro. Parlo per me, ma io avevo una curiosità pazzesca di sapere che cosa sarebbe successo, che altra idea inaspettata Stephen King avrebbe tirato fuori dal suo cappello a cilindro. A tutto questo va aggiunto l’effetto che fa il finale, un brano tratto dal diario di un personaggio che non svelo per non fare spoiler, che visto quello che è stato detto nel libro pare annunciare che gli eventi precipiteranno in modo incontrollabile se non verrà fatto qualcosa. C’è un altro fattore che sconvolge il lettore nella lettura del finale, ma non posso rivelarlo per questioni di spoiler.

Non che vada proprio tutto bene, qualche critica da muovere la ho. Per esempio, l’inizio è più lento del resto del romanzo, e a volte si perde un po’. Esempio. Chiunque abbia letto un libro di Stephen King sa che questi conosce tutti i suoi personaggi, dal primo all’ultimo, come le sue tasche. Ed è un’ottima cosa, è il motivo per il quale sono così ben caratterizzati. Ecco, però non è necessario che anche il lettore li conosca uno per uno come se li conoscesse da quando andavano all’asilo insieme. Con i personaggi importanti è buono e giusto e importante che sia così, con quelli che appaiono per tre pagine no. Anzi, è da evitare. Ne La canzone di Susannah ci sono qualcosa come una quindicina di pagine dedicate a un personaggio che nella vicenda ha un ruolo marginale, sparisce subito dopo e non apparirà mai più. Ma a che sono servite? Dai, è un errore da dilettanti, lo fa Regazzoni per dirne una, non posso trovarlo in un romanzo di Stephen King, romanzo che per quanto riguarda tutti gli altri aspetti si mantiene su ottimi livelli. Mi rendo conto che sia un peccato veniale, ma mi ha comunque lasciato l’amaro in bocca. Non doveva esserci, bastava così poco per evitarlo!

IN CONCLUSIONE


A parte quello che ho appena scritto ciò di cui posso lamentarmi è davvero poco e insignificante. La canzone di Susannah è un ottimo romanzo, coinvolgente ed efficace, che, pur essendo in modo scoperto un ponte tra il quinto e il settimo volume, raggiunge livelli eccellenti di caratterizzazione personaggi, colpi di scena e tensione. È un tipico esempio in cui il libro-ponte verso il volume finale non funziona da semplice connettivo in cui il brodo viene allungato. La canzone di Susannah ha molto da dire, davvero davvero molto, e questo si sente.

Siamo quasi alla fine ormai. La Torre Nera è sempre più vicina. Stringiamoci al nostro Din e prepariamoci all’ultima parte viaggio.


VOTO: