venerdì 24 febbraio 2017

Recensione - I lupi del Calla di Stephen King (Torre Nera #5)

Accennavo sulla pagina fb che sto avendo miliardi di cose da fare in questo periodo e poco tempo per dedicarmi ad altro. Voglio però riprendere a postare con regolarità. Questo è quindi l’inizio di una nuova serie di post che (si spera) non avranno più un mese tra uno e l’altro.

Tengo fede alla promessa che facevo tempo fa. Dopo mesi che siamo lontani torniamo perciò nel Medio Mondo, a trovare Roland e i suoi compagni dove li avevamo lasciati, oltre la città degli smeraldi in stile Mago di Oz, dopo la morte di Tick Tock (con somma gioia di tutti i lettori che come me lo avevano odiato), di nuovo in cammino lungo il sentiero del Vettore. Sono certo che anche a voi è mancata la compagnia di Jake, Susannah, Eddie, Oy e Roland, sono certo che anche voi come me non vedete l’ora di incontrarli di nuovo.
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Titolo: I lupi del Calla
Autore: Stephen King
Anno: 2003                                                     
Editore: Sperling &Kupfer
Pagine: 643




TRAMA

Dopo il mega flashback di La sfera del buio torniamo alla carica con una bella carrellata di eventi. Eddie e Jake viaggiano a Contezza e tornano da Calvin Torre, l’uomo che in Terre desolate aveva venduto a Jake il libro di Charlie Ciù-Ciù, qualcosa di pericoloso e sconosciuto comincia ad albergare dentro Susannah, qualcosa di cui Roland ha ben presto consapevolezza, e il gruppo giunge a Calla Bryn Sturgis, un paese che da tempo ormai è vessato da una dannosissima piaga. Ogni 23 anni dei banditi chiamati lupi giungono a Calla e rapiscono un bambino dalle coppie di gemelli. I piccoli vengono restituiti tempo dopo danneggiati nella mente in modo irrimediabile, ridotti a uno stadio di stupidità, destinati a crescere molto e in modo rapido e a morire molto giovani. Il ka-tet di Roland decide di aiutare il paese a difendersi dall’arrivo dei Lupi, che ormai è solo questione di settimane. Sembra solo un momento di stacco dal viaggio, ma in realtà a Calla Bryn Sturgis c’è molto che a Roland e compagni potrebbe interessare conoscere e che potrebbe diventare di fondamentale importanza per la loro missione.

LA MIA OPINIONE


Stiamo parlando di Stpehen King. Quando Stephen King scrive qualcosa che non mi piace lo si capisce da come ne parlo anche dalla prima parola. Lo stesso per quando scrive qualcosa che mi piace. Quindi immagino che ci siano pochi dubbi a proposito, penso che nessuno di voi sia stato anche solo sfiorato dall’idea che io non abbia apprezzato I Lupi del Calla.

"Cameriere! Due aramostre, subito!"

Siamo al quinto volume della serie, potrebbe essere legittimo aspettarsi che la narrazione cali un po’, che comincino a essere date delle risposte agli interrogativi posti nei libri precedenti e che queste non soddisfino le aspettative, potrebbe essere legittimo aspettarsi di tutto di negativo. Voglio dire, il numero 5 porta male. Il quinto volume di Tokyo Ghoul è quello che mi è piaciuto di meno. Il quinto libro di Harry Potter è un mattonazzo gigantesco. Il quinto volume di Hunter x Hunter è una deviazione dalla trama, bella quanto volete ma pur sempre una deviazione. Più in generale, capita che i libri centrali di una serie siano più deboli rispetto a quelli iniziali e a quelli finali, perché la trama risulta allungata un po’ troppo e molti eventi suonano solo come dei riempitivi in attesa del gran finale. Bé, a onor del vero sulle prime I Lupi del Calla sembra davvero tanto un filler in stile episodi di Garlick Jr. in Dragon Ball tra la saga di Freezer e la saga di Cell. Mentre leggevo il primo capitolo nella testa avevo un solo pensiero, che può sintetizzarsi in “tutto bello, ma che c’entra?”. Non è nemmeno da dire che mi sbagliavo, e basta arrivare al punto del viaggio a Contezza per rendersi conto che di carne al fuoco ne viene messa parecchia. Altro che filler. Una delle cose più interessanti è sicuramente la faccenda del numero diciannove, che è davvero la cosa che più attira chi legge, forse anche grazie alle battute che Eddie ci costruisce sopra, come «andare a diciannove» per dire andare in fumo. In breve, comunque, la cosa è questa: capita che in quasi ogni cosa sia possibile trovare questo numero. Il robot Andy usa la Direttiva Diciannove, i personaggi hanno nomi di diciannove lettere, eccetera. Davvero davvero coinvolgente, io non vedevo l’ora di sapere dove avrebbero portato tutte queste coincidenze!

L’apparizione nella storia di alcuni libri scritti dall’autore stesso è un altro fatto che mi è piaciuto molto, aggiunge sale alla trama, ed è un’altra caratteristica che invita molto la lettura. Direi che una delle qualità principali del libro è questa, offrire tutta una serie di fatti curiosi che verranno spiegati successivamente e che lì per lì mettono moltissima voglia di continuare. E rendono il romanzo particolare, avvincente e stimolante.

Il diciannove avrà a che fare con i templari?

Da questo libro comincia a vedersi un filo conduttore preciso e lineare, molto più che nei romanzi precedenti. Diciamoci la verità, i primi quattro libri possono essere considerati degli stand-alone. Almeno nella misura in cui possono esserlo considerati anche i libri di Harry Potter, non so se mi spiego. Le vicende della storia principale si sviluppano in tutta la serie, ma in ogni libro c’è una trama che comincia e si conclude. Non che questo sia un male, anzi, né significa che l’autore si comporti così perché ancora non conosce come evolverà la storia (la carissima Rowling lo sapeva mentre zio Steve non ne aveva la minima idea, eppure nessuno si lamenta). Dicevo, dunque, che da questo libro non c’è più nulla di episodico, ma il plot va a distendersi in maniera uniforme nei vari romanzi. È vero che c’è una vicenda che ha un inizio e una fine, ma le cose lasciate a metà sono talmente tante e importanti che ha davvero poco senso pensare che possa essere considerato autoconclusivo, anche in senso lato.

Questo è sicuramente un punto di miglioramento per la storia. Non nascondo che quando Stephen King si inventava le cose più strane senza sapere come le avrebbe spiegate questa sua ignoranza di fondo non si notava per niente, anzi, dissimulava proprio bene. Era un mago a cui riesce il trucco ma neppure lui sa come fa. Devo però anche aggiungere che ora che sa quello che fa e che ha in mente tutto lo svolgersi della vicenda fino alla fine la narrazione acquista forza ed energia in più. Non so bene spiegare come né perché, sta di fatto che la penna pare scrivere in modo più sicuro, più energico. Forse è semplicemente una mia impressione, dovuta al fatto che so che ora King non improvvisa più, non lo so, sta di fatto che l’ho sentita. E mi ha fatto molto apprezzare la lettura.

La saga della Torre Nera si configura ne I lupi del Calla, anche se già indizi di ciò si potevano trovare ne La sfera del buio, come centro della produzione kinghiana, come fulcro attorno al quale ruotano tutte le storie che ha scritto. In senso letterale: è mostrata la via attraverso la quale si giunge ai vari presenti alternativi in cui sono ambientate. Non stupisce dunque che appaiano delle vecchie conoscenze per i Fedeli Lettori. Prima di dire a che cosa mi riferisco, andiamo con ordine.

Non so se avrò mai l’occasione di parlarne in modo puntuale qui, comunque Le notti di Salem, il secondo romanzo di Stephen King, quello che lo ha etichettato in modo definitivo come scrittore di horror, a me non è piaciuto. Non è Abyss naturalmente, ma siamo lontani da quello che può definirsi un libro anche solo accettabile. Comunque, tra le poche cose che salvo ci sono il personaggio di padre Donald Callahan e la scena del suo confronto con il vampiro, che è un piccolo capolavoro di tensione in mezzo a eventi che la tensione non sanno fare altro che ammazzarla. Ecco, ne I lupi del Calla il prete fa la sua comparsa (e anche come un personaggio importante!), e la scena con il vampiro viene riproposta in modo praticamente identico. Tra l’altro, ne Le notti di Salem la storia di padre Callahan viene narrata fino a un certo punto e poi basta, viene abbandonato, così di punto in bianco, senza che nulla fosse concluso. Zio Steve ha poi dichiarato che all’epoca non sapeva perché aveva sentito di dover lasciare a metà le vicende del prete, e quando ha cominciato a scrivere la Torre Nera si è reso conto che doveva riprenderlo, che lo aveva abbandonato in attesa di riprendere a raccontare la sua storia insieme a Roland e compagni. Sappiamo tutti che Stephen King dice che le sue storie si costruiscono da sole e che lui si limita soltanto a raccontare quello che i personaggi fanno di propria spontanea volontà, quindi in quest’ottica il suo discorso ha senso. Comunque sia, padre Callahan è un personaggio che se non è né simpatico né piacevole è comunque ben caratterizzato e perciò è se non altro interessante sentire raccontare di lui, perciò non può che essere positiva la sua apparizione.


Padre Callahan si prepara ad affrontare i vampiri.

Il romanzo tiene il ritmo abbastanza bene, va detto. In pratica, il grosso del libro si focalizza sul periodo in cui Roland, Eddie, Jake, Susannah e Oy attendono i lupi a Calla Bryn Sturgis, preparando nel frattempo un piano per sconfiggerli insieme agli abitanti. Si intersecano a questo varie altre sottotrame, alcune che poi andranno a rivelare eventi molto importanti per quanto succederà nei volumi successivi. Il tutto non annoia, anche se bisogna dire che la parte in mezzo è più sotto tono rispetto all’inizio e alla fine. Non dico che sia inutile o che si trascini implorando il lettore di mettere fine alla sua lenta agonia, non dico che sia un palese cumulo di vuoto come le pagine tra 70 e 510 de Il richiamo del cuculo (a me la Rowling giallista non piace, dite quello che volete ma mi ha annoiato a morte), ma non è neppure un focolaio di eventi che si susseguono uno dietro l’altro senza lasciare un attimo di respiro. Del resto, questo è un fatto che ho notato in molti romanzi di Stpehen King, anche quelli più acclamati. Un solo esempio, 22/11/63. Non ditemi che la parte a metà del libro non l’avete trovata molto meno scorrevole del resto, perché allora abbiamo letto due cose diverse.

Ad ogni modo questo non significa che il libro non si legga bene, anzi. Riesce a suscitare la quantità di interesse sufficiente per permettere di continuare senza stancarsi. La trama è ben costruita e ben articolata, e per questo il colpo di scena finale, per quanto intuibile, comunque riesce a creare nel lettore quella giusta quantità di stupore. Insomma, parte un po’ sotto tono o meno, si lascia seguire in modo piacevole e a tratti appassionante.

Non serve, credo, che spenda altre parole sulla scrittura di Stephen King. King scrive da dio e lo sappiamo, e questo libro non fa eccezione. Una scena in particolare verso la fine è scritta in modo fantastico, ma non aggiungo altro per non fare spoiler, e poi, come dicevo prima, anche il confronto tra Callahan e Barlow è un fantastico picco di stile. Ma tutto il libro si mantiene su livelli invidiabili.

Un vecchio di Calla Bryn Sturgis contro uno dei lupi.

Non mi dilungherò nemmeno sui personaggi principali, ormai li conosciamo da quattro libri e sappiamo che sono caratterizzati in modo ottimo. L’unico aspetto notevole a questo proposito è la crescita di Jake, che comincia a svilupparsi durante la storia e si conclude alla fine del libro, con la sua prima sigaretta a significare il suo definitivo passaggio a un’età maggiore. È un momento abbastanza delicato e toccante, reso molto bene, e questo non può che essere buono, visto che parliamo di uno dei personaggi migliori della storia. Sarà da questo libro in poi che il legame tra Jake e Roland diverrà sempre più stretto.

I personaggi nuovi, invece, a parte padre Callahan, ovvero gli abitanti del Calla, sono caratterizzati in modo vario, chi meglio e chi peggio a seconda di quanta importanza hanno poi nella storia. Di conseguenza in certi casi si poteva fare di meglio in certi di peggio, ad ogni modo che personaggi minori siano caratterizzati peggio non costituisce certo un problema.

IN CONCLUSIONE


I lupi del Calla è un signor romanzo, che unisce bene lo stile autoconclusivo dei precedenti con quello scopertamente continuativo del successivo. Un ottimo libro, dunque, che proietta la saga della Torre Nera verso un penultimo volume che, visti gli eventi del finale, aprirà porte (in senso anche letterale!) per nuove possibilità e nuovi sviluppi imprevisti.

VOTO:
 

sabato 18 febbraio 2017

Commento integrale al Liber di Catullo. Carme 1.


Più di un mese fa avevo annunciato il commento a Catullo, ignaro del fatto che non avrei potuto scrivere in modo continuativo per parecchio. Ora finalmente riesco a dedicarmi a questo progetto, in ritardo sulla tabella di marcia di almeno due poesie. Quasi tre. Oh, bé, poteva andare peggio immagino.

Quindi, dopo la lezioncina noiosa ma necessaria dell’altra volta lanciamoci subito nel vivo dell’azione. Vediamo subito il primo carme del Liber, prima nel testo originale e poi in traduzione.


Cui dono lepidum novum libellum
arida modo pumice expolitum?
Corneli, tibi: namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas
iam tum cum ausus es unus Italorum
omne aevum tribus explicare cartis
doctis, Iuppiter, et laboriosis.
Quare habe tibi quicquid hoc libelli
qualecumque; quod, patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo.

A chi dedico questo libretto bello nuovo,
appena levigato con l’arida pietra pomice?
A te, Cornelio: infatti tu eri solito
pensare che le mie stupidaggini valgano qualcosa,
già allora, quando, unico tra gli italici,
hai osato raccontare la storia di tutte le epoche in tre libri
eruditi, per Giove, e laboriosi!
Accetta questo libretto, qualunque cosa 
valga; possa, o vergine protettrice,
durare perenne oltre un secolo.


Il metro, per chi fosse interessato, è l’endecasillabo falecio. La mia traduzione non è il massimo, me ne rendo conto, a volte è faticosa e in certi punti usa termini che non direbbe nemmeno vostra nonna. Ma sono sicuro che se aveste voluto una buona traduzione sareste andati a leggervi Quasimodo, e non Aproposidoketon. Quella che ho riportato qui ha lo scopo semplicemente di costituire un buon parallelo tra testo in latino e testo in italiano, in modo tale che, se uno volesse, potrebbe istituire con facilità un confronto.

Un endecasillabo falecio.

Da dove cominciare? Questo componimento, in quanto primo della raccolta, è davvero succoso e ricco di informazioni. È senza dubbio una poesia programmatica, c’è disaccordo tra gli studiosi se Catullo l’avesse pensata come proemio all’intero Liber così com’è giunto a noi oppure soltanto alle prime sessanta poesie, affermando così implicitamente che l’opera catulliana era stata concepita non come un libro solo ma come più opere. Non ho elementi a sufficienza per schierarmi con una di queste posizioni, o eventualmente per prenderne una mia, né penso che in questo caso faccia una particolare differenza appoggiare l’una o l’altra idea. Per semplicità, perciò, supporrò che questa poesia costituisca il preambolo di tutto il Liber. 

Il contenuto é semplice: ci troviamo di fronte alla dedica del libro, destinata a Cornelio Nepote. Questa scelta non é casuale, né é dovuta esclusivamente a un rapporto d'amicizia che legava i due, ma può essere collegata a precise linee di poetica di Catullo, che egli ritrova nell'opera di Nepote. Tornerò su questo nello specifico in seguito, per ora é importante ricordare chi fosse Nepote: amico di Attivo e Cicerone (del quale é all'incirca un contemporaneo, nasce nello stesso periodo ma muore alcuni anni dopo di lui) fu autore di opere note più per la grande erudizione che le caratterizzava che per l'eleganza o la bellezza dello stile. L'unico dei suoi scritti giunto fino a noi é il De viris illustribus (raccolta di biografie di uomini famosi), anche se originariamente doveva contare sedici libri, mentre né é pervenuto unio soltanto. Aveva scritto anche gli Exempla (opera in cinque libri nella quale venivano elencati esempi di festa di valore compiute da personaggi del passato) e i Chronica, che narravano in tre libri per tavole sinottiche eventi storici avvenuti in luoghi diversi del mondo. É proprio ai Chronica che si riferisce Catullo in questa poesia.

Detto questo andiamo con ordine. Già il primo verso si rivela molto interessante, in quanto delinea due aspetti essenziali della poesia catulliana. In primo luogo è molto importante l’uso dell’aggettivo lepidus, parola fondamentale nella produzione di tutti i poeti neoterici. Lepos significa “grazia”, ed era una delle qualità che i neoteroi, attingendo dalla tradizione letteraria alessandrina e da Callimaco in particolare, attribuivano alle proprie poesie: non versi aspri, ma garbati e arguti, conditi con un pizzico di leziosità dovuta all’uso dei diminutivi. E proprio con un diminutivo (libellum significa “libretto”) Catullo definisce subito dopo la propria opera, collocandola così in modo inequivocabile nel solco della nuova poesia. Questo primo verso da solo segna con una linea di demarcazione incancellabile tra il Liber di Catullo e tutta la poesia che lo precede. L’opera è neoterica dall’inizio alla fine, e Catullo vuole metterlo in chiaro fin dall’inizio. In quest’ottica la parola novus, che accompagna il libellum insieme a lepidum, può essere intesa non soltanto in senso di “nuovo”, “appena scomposto”, ma anche di “innovativo”. È indubbio a mio parere che Catullo volesse intendere anche questo con l’uso di questa parola, perché così facendo va a caratterizzare ulteriormente la già ben marcata modernità che è concentrata in questo endecasillabo falecio d’apertura. 


Un pezzo di Catulio.

C’è di più oltre a quanto detto finora. Questo primo verso contiene anche un allusione all’opera di un poeta di età ellenistica, ovvero Melagro di Gadara. Il riferimento è al primo verso (dettaglio non certo casuale) della poesia di apertura della sua antologia, che raccoglieva poesie sue e di molti altri autori, come lui stesso ci tiene a sottolineare, e che ci è tramandata nel libro IV dell’Antologia Palatina. Questo verso recita così:

Μοῦσα φίλα, τίνι τάνδε φέρεις πάγκαρπον ἀοιδάν;

Cara Musa, a chi porti questo canto dai molti frutti?

In caso ve lo steste chiedendo la risposta è no, non ho l’Antologia Palatina intera a casa da consultare, però ho un internet intero che supplisce senza problemi. Le somiglianze con il verso di Catullo sono talmente evidenti che non serve stare troppo tempo a sottolinearle. Qual è dunque lo scopo di questa evidente citazione? La risposta è che essa costituisce la non dichiarata affermazione di un altro principio di poetica, che Catullo e anche gli altri neoteroi avevano fatto proprio, e che deriva dall’influenza della letteratura di età ellenistica. Si tratta dell’intertestualità, che aveva come fine il dimostrare la grande erudizione dell’autore. Infatti più ricercata era la citazione maggiore e più raffinata appariva la sua cultura. Siamo una seconda volta di fronte a un elemento della poesia alessandrina, che a questo punto possiamo definire con abbondanza di prove antecedente imprescindibile della poesia neoterica.

Può quindi sorgere spontaneo un dubbio. Sappiamo che tutta la poesia latina nasce dall’esperienza letteraria di età ellenistica. Dove risiede dunque l’originalità dichiarata in modo implicito ed esplicito da Catullo, se per ora ciò che dichiara era presente anche nella poesia di Ennio e Livio Andronico, per citarne soltanto un paio?
Nepote. Notare la gioia immensa che prova a essere citato da Catullo.

La differenza consiste nel riutilizzo del modello ellenistico. Ennio, nel proemio degli Annales, si dichiara sia poeta filologo sia reincarnazione di Omero, mostra sé stesso come naturale continuatore della poesia più antica e della poesia nuova, di punto d’incontro tra due tradizioni diverse della poesia greca con anche la tradizione latina. Ennio si presenta come nuovo Omero ma anche come nuovo Callimaco, nuovo poeta erudito. Anche Catullo vuole essere poeta erudito, ma della tradizione precedente recupera un aspetto che la poesia che veniva prima di lui aveva trascurato. La letteratura ellenistica mostra un gusto particolare per tutto ciò che è piccolo, quotidiano, particolare e per traslato tecnico. Mostra sì gli eroi e gli dèi ma ama anche mostrare gli uomini nella loro vita di tutti i giorni, nella loro semplicità e ingenua bellezza, tratteggiando dei quadretti molto particolareggiati e vividi. In una poesia come quella di Ennio il lepos o l’uso frequente di diminutivi non avrebbero avuto senso, l’attenzione non è rivolta al piccolo ma a ciò che è solenne, epico, e il poeta diventa istruttore della comunità. Mentre per esempio avrebbero potuto avere senso in un mimiambo di Eroda, o in un idillio di Teocrito.

Catullo e gli altri poetae novi, quindi, vogliono sì ricercare l’erudizione e la raffinatezza ma in un ambito diverso dai loro predecessori, e anche più vicino alla sensibilità e al gusto di un poeta ellenistico. Per questo assumono anche un'altra regola di poetica di età ellenistica, ovvero la brevitas (“brevità”), che contrastava contro la lunghezza spesso eccessiva dei poemi delle epoche precedenti. Infatti il carme 1 di Catullo è lungo una decina di versi mentre quello di Meleagro, che pure è modello diretto, supera i 50. Anche nei carmina docta, quando il canto si eleva e la poesia diventa più lunga, l’attenzione del poeta resta comunque sui dettagli, si focalizza sugli aspetti più intimistici o psicologici delle vicende. Il carme 64, per fare un esempio, è un epillio (“piccolo epos”) eppure ha ben poco di epico e solenne, è piuttosto avvolto da un velo di malinconia, di lontananza crepuscolare che somiglia alla sensazione che danno i ricordi d’infanzia. Questa è la quintessenza dell’originalità di Catullo e degli altri neoteroi, è il cuore pulsante che anima la loro poesia.

"Qualcuno ha detto cuore? Posso darvi una mano io"

Temo di avere divagato, ma credo che questo discorso sia fondamentale per capire davvero Catullo. Comunque, ora posso tornare al commento puntuale dei versi. Passando perciò all’endecasillabo successivo, Catullo specifica ulteriormente quanto sia recente il suo libretto, addirittura è appena stato levigato dalla pomice (termine qui usato al femminile ma di solito maschile in latino), cioè è stato proprio concluso da poco. Nel terzo verso si risponde alla domanda del primo, e appunto viene indicato Nepote come destinatario della dedica del Liber. Mentre raccontavo chi fosse Nepote accennavo alle ragioni di questa dedica. Ce ne sono due: una esplicita e l’altra no. Quella esplicita è dichiarata nel verso successivo: Nepote ha sempre pensato che le poesie di Catullo avessero un qualche valore, e quindi è più che giusto che a lui sia dedicato il libro che le contiene. La ragione implicita è naturalmente più importante dal punto di vista poetico, e va dedotta da quello che viene detto nei tre versi successivi. 

Viene menzionata soltanto una delle tre opere di Nepote, i Chronica, dei quali ho già parlato. Ecco, questo è stato in passato oggetto di un’interpretazione critica scorretta: si pensava che Catullo chiamasse in causa i Chronica in quanto opera di storia universale (e quindi monumentale) in netta contrapposizione con la brevità del suo libretto, che pure non è meno laboriosus dello scritto di Nepote. In realtà non è così, e basta riflettere un attimo sulla questione per rendersene conto. Può essere utile attuare un confronto. I Chronica era lunghi tre libri. Livio scrive un’opera storica su Roma che copre un arco di circa settecento anni, e per farlo impiega centoquarantadue libri. Quanti libri sarebbero dovuti servire per una trattazione esauriente della storia universale di ogni parte del mondo conosciuto? Sicuramente molti più di tre! Di conseguenza possiamo pensare che l’opera di Nepote non fosse affatto monumentale come l’argomento potrebbe indurre a credere, ma che anzi fosse particolarmente ridotta. Possiamo affermare cioè che facesse della brevitas un proprio punto di forza fondamentale. Ecco quindi che si esplicita il filo conduttore nascosto tra Nepote e Catullo, un aspetto di poetica comune e innovativo rispetto alla tradizione. Quindi Nepote non viene nominato per creare un contrasto, ma anzi, per instaurare un legame e quindi in modo implicito per aggiungere altra carne al fuoco alla dichiarazione di originalità e di principi compositivi contenuta nel primo verso.

L’adesione alla tradizione della poesia latina si nota nell’uso frequentissimo di figure di suono, quali l’allitterazioni e l’omoteleuti. Per quanto riguarda le prime troviamo, per esempio, ausus es unus, per quanto riguarda i secondi lepidum novum libellum, poi solebas meas nugas e doctis laboriosis (ma potrei citarne altri). Le figure di suono sono quindi il principale ponte tra Catullo e il passato, e hanno lo scopo di sottolineare punti importanti della poesia.

L’ottavo verso invita Nepote a prendere il Liber per quello che è. Non è del resto la prima affermazione di modestia del componimento, anche il nugas del quarto verso ha un significato analogo. Ovviamente quella di Catullo è una modestia di rito, e questo appare evidente nell’ultimo verso. Qui la Musa (invocata come patrona virgo) viene invitata a proteggere l’opera, e a farla vivere perenne per più di un secolo. L’ossimoro tra l’enfatico “perenne” e il modesto “più di un secolo” svela l’ironia contenuta nella’umiltà di Catullo, che appare invece del tutto consapevole della grandezza della propria poesia. 

L'opera di Catullo durerà molto più di questo libro!

Siamo giunti alla fine, tiriamo quindi le conclusioni del commento di questo primo carme. Per quanto riguarda il contenuto costituisce la dedica del libro a Nepote, sul piano interpretativo svela i punti focali della poetica di Catullo: brevitas, erudizione (in latino doctrina), raffinatezza, attenzione al piccolo e al quotidiano. Questi principi derivati dalla poesia ellenistica si uniscono alla forma e alle figure retoriche tipiche invece della tradizione latina.

La presenza di un proemio potrebbe fare pensare a una sistemazione organica delle poesie, ma vedremo che non è così. Non siamo di fronte a un canzoniere in stile Petrarca, ma anzi, siamo quanto più lontani possibile da un’idea del genere di raccolta poetica. Comunque, tutto questo sarà più chiaro leggendo le prossime poesie. Per ora ho parlato fin troppo. Giuro che comunque i prossimi commenti saranno più brevi, questo era lungo perché la poesia proemiale è sempre densissima di significato. Con le altre andremo più spediti. La prossima poesia che ci aspetta è quella dedicata al passero di Lesbia in vita. Spero di riuscire a pubblicare il commento il prima possibile, in modo da tornare in carreggiata con pubblicazioni più o meno costanti. A presto!