lunedì 29 agosto 2016

Commedia Antica e Commedia Nuova in Plauto

Da che mondo è mondo, il genere letterario dell’antichità che piace agli studenti è la commedia. Non necessariamente perché faccia ridere (spesso le battute fanno riferimenti alla situazione politica della città nel periodo in cui sono state scritte, e noi altrettanto spesso fatichiamo a cogliere questi riferimenti) ma perché come minimo permette di trovare le parolacce sul dizionario. E a me che scrivo e a voi che leggete sembra una cosa stupida, ma posso assicurare che per uno studente di quindici anni che passa i pomeriggi a perdere la vista sul suo Montanari e a spaccarsi la testa sulle versioni di compito la cosa presenta un’attrattiva tutta sua.


Vedete il Montanari? Ecco, io avevo il Rocci
quindi non facevo quello che ho scritto sopra.
Questa fulgida premessa (che ha abbattuto la credibilità di tutto quello che scriverò dopo, amen) per dire che oggi ci occupiamo di Commedia, e in particolare di Plauto, un autore che io per lungo tempo ho faticato a capire. Principalmente mi sembrava un po’ sciapo: ok, la singola scena è divertente, ma poi tutte le commedie uguali, vogliono solo far ridere e non esprimere un significato, che noia passiamo a Catullo che invece scrive di getto e di sentimenti e quindi lo preferisco. Questo per far toccare con mano quanto in realtà non capissi né chi mi piaceva né chi non mi piaceva.

Ho avuto modo di apprezzare Plauto quest’ultimo anno, quando l’ho conosciuto un po’ meglio, quando avevo in generale maggiori conoscenze di base e quando il mio senso critico era leggermente più acuto che  in passato. E sì, ho compreso di avere di fronte un pilastro della scrittura come quasi nessuno è mai stato nella storia del teatro. Ho pensato quindi che valesse la pena spendere qualche parola sulla sua figura, e in particolare sulla sua unicità letteraria, almeno per quanto possiamo evincere da quello che del teatro latino ci è giunto.

Plauto, l'inventore del plauto traverso.
Prima di cominciare il discorso su Plauto è necessaria una premessa. Il genere della Commedia (e più in generale il teatro greco) trova le proprie radici nella realtà singolare e irripetibile della polis del V secolo a.c. Quando perciò questa realtà subirà dei mutamenti anche la Commedia si deformerà con lei, assumendo nuove forme, nuove modalità d’espressione e nuovi argomenti. È per questa ragione che nell’ambito della Commedia greca si tendono ad evidenziare tre fasi: la Commedia Antica, la Commedia di Mezzo e la Commedia Nuova. Ora, in realtà questa suddivisione è molto artificiosa, e quindi spesso nella Nuova confluiscono elementi di quella di Mezzo, e in quella di Mezzo elementi dell’Antica. Quello che conta è però che una tale suddivisione evidenzia effettivamente delle variazioni di tendenze che caratterizzano lo sviluppo della Commedia. Sono appunto i cambiamenti di cui parlavo poco fa, operati dalle diverse situazioni politiche.

Un discorso analogo non può farsi per la commedia che si sviluppa in ambito romano. O meglio, non può sicuramente essere fatto da noi moderni, che possediamo soltanto pochissimi autori di commedie latine, e, se è stato fatto dagli antichi, a noi non è giunta notizia. Questo non significa che le commedie che ci sono giunte presentino tutte le medesime caratteristiche, anzi: le commedie di Plauto e Terenzio, che pure sono state scritte a più o meno un cinquantennio le une dalle altre, sono profondamente diverse. Questo può farci pensare soltanto una cosa: che al di là delle differenze esiste nella commedia latina un’unità di fondo che persiste nell’evolvere del genere. Questo elemento non è caratteristico soltanto del teatro, ma anzi di tutta la letteratura latina, ed è senza 
dubbio la contaminazione con le opere della letteratura greca.

Aristofane sprizza simpatia da tutti i pori.
Ritengo che possa creare molti spunti per la riflessione osservare come Plauto utilizzi la letteratura greca in modo originale e proprio. Non mi riferirò qui in particolare all’uso delle fonti per le singole commedie, che pure è un ambito che potrebbe dare risultati davvero interessanti se studiato a fondo, quanto piuttosto allo spirito che anima il teatro plautino, che, come voglio mostrare, ha una doppia matrice, le cui origini possono in qualche modo ritrovarsi nella commedia greca.

Come dicevo prima, le tre fasi della commedia hanno delle differenze. Escludendo dal conteggio quella di Mezzo (che, data l’artificialità della divisione, racchiude in sé principalmente tendenze delle altre due fasi), possiamo evidenziare i tratti caratterizzanti della Nuova e dell’Antica. L’Antica si sviluppa, oltre che in Sicilia, ad Atene nel suo periodo d’oro, nel momento più florido della democrazia, dove, per dirla in modo rapido e semplicistico ma sufficiente a rendere l’idea, chiunque, dal ciabattino allo stratego, poteva avere parte attiva alla vita della città. Questo fa sì che il teatro, che era il mezzo di intrattenimento principale del cittadino, non poteva che trovare i propri spunti in quella che era appunto l’attività per eccellenza del cittadino stesso, ovvero la politica. Perciò, la Commedia Antica è ricca di elementi della vita della città dell’epoca, con riferimenti a personaggi famosi, situazioni celebri, figure di spicco di cui talvolta ci sono giunte ben poche notizie. La Commedia Antica non può essere letta senza essere calata nel proprio contesto. In altro modo le battute e le anche le situazioni parodiche messe in scena risulterebbero incomprensibili.Le situazioni sono inoltre paradossali e grottesche, e sono frequenti i casi di turpiloquio .La comicità è dunque scoppiettante ed energica, e sfrutta tutti i mezzi che possiede per far ridere lo spettatore e nel contempo farlo riflettere.

I nonni di Aldo, Giovanni e Giacomo.
Notare che il nonno di Aldo ha i basettoni di Asimov.
Tutt’altro discorso si può fare invece per la Commedia Nuova, che si sviluppa in un contesto esattamente opposto, ovvero quando ormai la Grecia sta capitolando al potere macedone e le polis stanno perdendo il loro potere.Qui i riferimenti agli eventi interni alla polis diventano pochi, rari, nebulosi e decisamente ininfluenti per la comprensione della trama e delle battute. Le trame perdono i propri connotati esagerati e fantasiosi e si propongono di mostrare l’uomo nella quotidianità: i protagonisti non sono più individui eccessivi dalle mire esagerate e assurde, ma semplicemente uomini normali, uomini come sarebbe potuto essere chiunque tra gli spettatori. Di conseguenza, a differenza dell’Antica, i personaggi vengano approfonditi psicologicamente, fino a diventare verosimili, piuttosto che essere, come accadeva per esempio nelle commedie di Aristofane, delle parodie di sé stessi.
Quando nasce, come dicevo prima, la commedia latina prende a piene mani dalla commedia greca, come del resto praticamente tutta la letteratura latina, ne rielabora temi, argomenti e situazioni. È interessante osservare come Plauto faccia questo lavoro, attuando anche un confronto con il modus operandi di Terenzio, cosa che può servire a evidenziare ancora di più i tratti originali e particolari del teatro plautino.

Le commedie di Terenzio si rifanno essenzialmente alla Commedia Nuova. Le situazioni proposte sono quotidiane, i personaggi sono tutti diversi e caratterizzati in modo approfondito, lo stile è piano e pacato. Siamo dunque decisamente all’opposto rispetto alle caratteristiche della Commedia Antica.

E Plauto invece? Finalmente ci troviamo a parlare di lui. Finalmente possiamo osservare In cosa consista la sua originalità e la sua grandezza a livello letterario.

Le trame di Plauto seguono tutte quante una serie di schemi fissi, dove un giovane si innamora di un’altra giovane e, grazie all’aiuto di uno schiavo, riusciranno insieme a tramare un inganno per far sì che chi si oppone al loro matrimonio (di solito il padre oppure un lenone che non vuole che la ragazza si allontani dal suo mestiere) non costituisca più un problema. Come si vede, inoltre gli argomenti sono tratti dalla vita quotidiana, e non contengono particolari elementi eccessivi o fantasiosi. È chiara qui l’influenza della Commedia Nuova. Menandro, che ne fu il principale esponente, raccontava di essere in grado quasi di improvvisare le commedie, avendo già pronto uno schema che riproponeva ogni volta, variando i nomi dei personaggi e il contesto. Con Plauto funziona esattamente allo stesso modo.

Menandro prima di andare dall'oculista.
Da queste premesse ci si aspetterebbero personaggi ben caratterizzati, dotati di personalità profonde e spesso in evoluzione nel corso della commedia. Nulla di più sbagliato. Basta avvicinarsi a una qualunque delle commedie di Plauto per rendersi conto che caratterizzare i personaggi non è nelle sue corde. I personaggi messi in scena sono delle macchiette, privi di qualunque approfondimento. Sono piatti e monocorde, non evolvono, restano sempre tali dall’inizio alla fine. Nelle commedie di Terenzio e di Menandro capita spesso che il nodo della trama si sciolga a causa della presa di coscienza da parte di un personaggio dei propri errori, o di un suo passo indietro riguardo a un proprio atteggiamento, di solito in seguito a qualche evento importante. Nulla di tutto ciò in Plauto, dove i personaggi non hanno personalità a sufficienza per permettere alle trame delle commedie di acquisire una simile profondità. Fatto esemplificativo delle differenze è che per quanto riguarda Menandro (e anche Terenzio!) i personaggi possono essere identificati in tipi umani (il collerico, il misantropo, eccetera) mentre per quanto riguarda Plauto in ruoli (il padre, il soldato, il parassita, eccetera). Gli unici momenti in cui i personaggi di Plauto assumono un minimo di spessore è quando questo è finalizzato a generare una situazione divertente o paradossale, per il resto rimangono sempre macchiette. Questa situazione ricorda, portata all’eccesso, le caratteristiche delle commedie di Aristofane.


La commedia moderna sta perdendo colpi.
La comicità di Plauto è energica e brillante. Non si basa sulla singola battuta inserita in un contesto pacato, anzi, tutto il contrario, le situazioni in Plauto sono tutte finalizzate alla risata, le battute si susseguono una dietro l’altra. Le sue commedie sono divertenti e coinvolgenti soprattutto per questo, perché a Plauto, prima che raccontare una storia, quello che interessa davvero è far ridere lo spettatore. Il turpiloquio è utilizzato spesso, e con lo scopo di aggiungere pepe a qualcosa che è già esilarante di per sé.

Anche questo ricorda la comicità di Aristofane piuttosto che quella di Menandro, il quale scrive per raccontare una storia, e limita alle battute a singole frasi o comunque a situazioni ben definite e circoscritte, spesso avulse dalla trama. Se in Menandro la comicità si accosta alla trama, in Plauto la trama ha la comicità come scopo.

Altro elemento che vale la pena considerare, e sul quale la critica è stata divisa per diverso tempo, per giungere poi a una conclusione quasi unanime, è quanto della situazione della Roma per la quale erano rappresentate sia presente nelle commedie di Plauto. Nonostante quindi una fetta di studiosi abbia a lungo pensato che l’ambiente in cui Plauto scriveva fosse troppo rigido e chiuso per permettergli di inserire elementi di attualità nelle sue opere, ormai la critica si è quasi del tutto convinta del contrario. È vero, non bisognerà aspettarsi di trovare questi elementi come li si trova nelle commedie di Aristofane, ovvero espliciti e anzi, loro stessi oggetti delle battute, ma piuttosto velati, presupposti nel contesto o nella trama della commedia e mai palesi. E così nella commedia Trinnumus il personaggio di Luxuria (il lusso, la dissolutezza) presenta la propria figlia Inopia (povertà), che viene identificata come frutto dei costumi corrotti della società. Questi riferimenti, di per sé anonimi e moraleggianti, vengono giustificati se si pensa che la commedia è stata scritta poco la vittoria della seconda guerra punica, in un momento in cui Roma era ricchissima e si allontanava dalle ristrettezze economiche dei tempi di guerra. Ed ecco dunque che il commediografo denuncia i pericoli di questa situazione: il cattivo uso della ricchezza può portare al suo contrario.

Tipica reazione degli spettatori di Plauto.
È chiaro quindi come i riferimenti alla realtà siano presenti nel teatro di Plauto, ma siano camuffati e spesso non necessari per comprendere il reale significato delle commedie (ma sicuramente importanti per levarle da quel fastidioso alone moraleggiante che altrimenti si creerebbe). Ci troviamo dunque un passo indietro rispetto ad Aristofane, ma comunque sulla sua scia.

Conclusi questi discorsi, che cosa si può dire infine? Dopo tutto questo, che cosa possiamo dire sul metodo con cui Plauto riutilizza la tradizione greca?

Il modus operandi di Plauto non rientra in toto né nella Commedia Antica né in quella Nuova. Gli elementi che riguardano la comicità e i personaggi sono creati secondo i canoni dell’Antica, ma sono innestati in una struttura che si rifà alla Nuova. Gli aspetti di satira sociale sono sì presenti ma presentati attraverso modalità che ricordano più la Nuova e sono distanti anni luce dall’Antica. In sostanza, possiamo dire che Plauto è un autore estremamente originale anche nell’usare le fonti della letteratura greca, in quanto mischia a suo piacimento e in base alle sue necessità caratteristiche dell’Antica e della Nuova. Proprio in questo sta a mio parere la grandezza di Plauto, che si presenta ormai come un vero grande della letteratura: un personaggio in grado di sfruttare in modo unico e non pedissequo la tradizione, in grado di far ridere e contemporaneamente di parlare dei problemi della società del proprio tempo, in grado di mischiare satira sociale e una comicità irresistibile. Qualcosa di straordinario, rimasto imbattuto nel corso di millenni.

Spero quindi di aver dimostrato la grandezza letteraria di Plauto chiarendo anche quegli aspetti della sua scrittura che possono risultare meno immediati. Se ora vi capita di leggere qualcosa di suo, potrete farlo con la consapevolezza di essere al cospetto di un’opera di letteratura con la L maiuscola!

Recensione - Prima Fondazione di Isaac Asimov

Come potete intuire dal titolo, mi sono dato alla fantascienza. In realtà è per ora una semplice parentesi, volta perlopiù a colmare la mia enorme lacuna nelle letture di questo genere. Perciò, per riparare almeno un poco a questa mia ignoranza ho deciso di leggere quello che costituisce praticamente la base di tutta la fantascienza moderna, ovvero la Trilogia della Fondazione di Asimov.

E a questo punto sorge spontanea una domanda. La stessa che mi sono posto anche io. La stessa che mi rendeva dubbioso riguardo al recensire Asimov oppure no. Ha senso parlare di grandi della letteratura, di pilastri di genere, di libri su cui persone migliori di me hanno già versato fiumi di inchiostro sflangiando le gonadi a tutti?

In realtà sì. Nel senso che quando scrivo qui sopra non è che mi aspetto di cambiare la storia della critica moderna, né semplicemente di dire la mia opinione. Come se pensassi che la mia opinione interessi a qualcuno. Il mio obiettivo quando scrivo è sì dire la mia su un argomento che mi interessa ma anche sperare di indirizzare le future letture di chi capita qui. Magari arriva l’utente indeciso se comprare un libro o no, legge me e si decide a farlo. Oppure se ne allontana manco fosse la peste bubbonica, è uguale. Il punto è che spero che in qualche modo le mie recensioni non siano un mio parlare al vento ma anche uno strumento per indirizzare i miei utenti. In quest’ottica diventa sensato anche recensire un libro che ha fatto storia nel genere cui appartiene.

Dopo questa premessa possiamo cominciare con Prima Fondazione. Che, se è un pilastro del suo genere, verrebbe da chiedersi se qualcuno ha per caso sentito la fantascienza scricchiolare.
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Titolo: Prima Fondazione
Autore: Isaac Asimov
Anno: 1951                                                          
Editore: Mondadori
Pagine: 210




TRAMA

Tutto l’universo è ormai sotto il controllo dell’impero galattico, che si estende per miliardi e miliardi di pianeti e mantiene il comando da qualcosa come diecimila anni. La situazione non è però così rose e fiori. È nata da tempo una nuova scienza, la psicostoriografia (o psicostoria a seconda delle traduzioni italiane), che studia il comportamento delle masse in rapporto alla probabilità di un’azione, valuta cioè le possibilità che una massa di persone faccia o non faccia qualcosa. Il fondatore della psicostoriografia è lo psicologo Hari Seldon che, grazie alla sua invenzione, ha anche fatto un’altra scoperta: nel giro di poco tempo l’impero galattico crollerà, e seguiranno al crollo trentamila anni di barbarie. Seldon decide così di ideare un piano non per impedire la barbarie, ritenuta ormai inevitabile, ma per ridurne sensibilmente la lunghezza: soltanto mille anni. Nasce così il piano Seldon, che prevede la creazione di una Fondazione all’estremità dell’universo, che cataloghi in un’enciclopedia tutto lo scibile umano e lo mantenga intatto in vista della barbarie. Il libro si propone di seguire le vicende della Fondazione per i primi duecento anni dalla sua creazione.

LA MIA OPINIONE


La Trilogia della Fondazione è un’opera dal respiro epico che si estende per centinaia di anni. O meglio, sicuramente mira ad essere un’opera epica. In realtà, in questo primo romanzo quest’obiettivo a mio parere è molto mal realizzato. Forse dirò un’eresia nei confronti degli appassionati, ma a me Prima Fondazione non ha fatto per nulla impazzire. Anzi.
"Ma veramente..."
Le premesse da cui nasce la storia, che sono quelle che ho esposto prima e che fondamentalmente vengono spiegate all’interno della prima parte (l’intero libro è suddiviso in cinque parti), sono interessanti. Il problema è quello che viene dopo.

Ciascuna delle cinque parti ha un protagonista diverso. E, escluso il protagonista della prima, Gall Dornik, tutti gli altri sono uguali. Cambiano i nomi, cambiano i loro ruoli, e basta, sono la stessa macchietta riproposta ogni volta. Tutti personaggi intelligenti, tutti in grado di risolvere le situazioni in cui si trovano, tutti che non amano agire in modo diretto ma per la maggior parte restano dietro le quinte mentre i loro piani si sviluppano. Il peggiore è il protagonista della quarta parte, Limmar Ponyets. Gaal invece, che è un povero provinciale che abita un pianeta all’estremità della galassia, è ingenuo, semplice e ignorante, e come tale si comporta per le quaranta pagine scarse a lui dedicate. È simpatico, nonostante non faccia altro che lasciarsi controllare da Hari Seldon, e leggere di lui è comunque meglio che leggere di quei fantocci tutti uguali. Voglio dire, Salvor Hardin (il protagonista della seconda e della terza parte) ancora si salva ma solo perché è il primo personaggio con quel carattere. Gli altri, che sono soltanto delle sue copie, stufano dopo poco, e infatti neppure me ne ricordo i nomi.

Limmar Ponyets in tutto il suo spessore.
La storia è troppo episodica per appassionare. Molti aspetti sono trattati in modo frettoloso o sciapo, e in generale non viene dedicato loro tempo e spazio a sufficienza perché il lettore possa farsene conquistare. Le situazioni vengono sciolte in modo spesso troppo rapido. L’unica parte che si salva sotto questo aspetto è la terza, quella in cui Salvor Hardin si reca su Anacreon, perché gli eventi non sono tanti e sono narrati in modo disteso e non frettoloso. Inoltre vengono presentati personaggi decisamente ben caratterizzati (il principe Leopoldo e il reggente Wienis) che contribuiscono a colorare la storia e a renderla più interessante. A parte questo (e in realtà anche la prima parte perché, non finirò di ripeterlo, Gaal mi sta simpatico), il resto scorre in modo non dico noioso ma sicuramente meno coinvolgente e piacevole.

Spesso Asimov ha la pessima abitudine di raccontare i fatti. In pratica, invece che mostrare al lettore gli eventi si limita a farli raccontare dai personaggi, e questo, io credo, abbatte molto l'interesse. Per una buona fetta del romanzo assistiamo a personaggi che raccontano i risultati del loro piano, piuttosto che essere noi a guardarli attraverso i loro occhi. Per esempio, la seconda parte, la prima con protagonista Salvor Hardin, se la cava bene fino alla fine (a parte la erre moscia di Lord Dorwin, che rovina un personaggio altrimenti ben congegnato) e poi alla rivelazione finale crolla. In quattro righe Salvor Hardin dice “in realtà ho vinto”. E vince lui. Fine. Un anticlimax pazzesco, che distrugge il picco di tensione che si era creato fino a quel momento.


Asimov prima e dopo essersi tagliato i basettoni.
Se dovessi quindi fare una classifica delle cinque parti metterei la prima (c’è Gaal, quello simpatico, ricordate?) e la terza allo stesso livello, poi la seconda e la quinta a pari merito e infine la quarta. La quarta parte è proprio brutta, gente. Personaggi inconsistenti o fotocopia di altri, trama raffazzonata e anche un po’ confusionaria e personaggi che raccontano cose che andrebbero mostrate come se non ci fosse un domani. Meno male che almeno è corta, appena una quindicina di pagine.

Ora, so che l’episodicità non è indice dell’incapacità di Asimov, ma ha una precisa ragione: le varie parti sono state all’inizio pubblicate separatamente e poi sono diventate un unico romanzo. Questo però non toglie che il risultato che ne esce fuori non sia il massimo. Del resto, anche gli altri due romanzi (che recensirò a breve) sono stati inizialmente pubblicati in parti, eppure sono libri di grande qualità.

E fin qua una carrellata di cose negative. Non c’è però soltanto del marcio in Prima Fondazione, anzi. La trama, per quanto non coinvolgente, è davvero ben congegnata. Non ci sono personaggi che fanno cose stupide, o che agiscono perché la trama dice così, ma ogni evento ha una precisa causa logica e meditata. Inoltre è articolata ed elaborata, ricca di colpi di scena e di situazioni inaspettate, che complicano la situazione fino alla risoluzione finale. Se fosse più coinvolgente sarebbe il massimo, perché è davvero ben costruita. Seguire certi snodi diventa un piacere, perché dalle situazioni più gravi i personaggi riescono a inventare idee per uscirne che non suonino tirate ma coerenti e sensate. Inoltre quando mette da parte la fretta e dà agli argomenti lo spazio dovuto Asimov riesce a creare tensione in modo molto efficace. Il fatto è che, almeno in questo romanzo, quest’abilità di Asimov non viene più di tanto alla luce.

C’è da lodare l’accuratezza con cui ogni evento è costruito. Pare che di recente mi capiti di lodare spesso questa caratteristica negli autori che leggo (l’ho fatto anche recensendo Miyazaki), ma forse questo è l’aspetto più peculiare di Asimov. Ogni cosa viene trattata con una grandissima cura. Gli elementi scientifici sono precisi e approfonditi, ma l’autore non si perde in lunghi spiegoni, anzi, ai lettori non viene praticamente spiegato niente. Quando scrivo approfonditi intendo che Asimov conosceva bene quello di cui parla, e infatti la narrazione non risulta mai incredibile o assurda.

Quello che tentano di spacciare
oggi per fantascienza.
La fantascienza di Asimov è in realtà una fantascienza particolare, almeno rapportata alla nozione comune di fantascienza. Magari sono strano io, ma quando mi dicevano fantascienza io pensavo ad alieni bizzarri e a pianeti sconosciuti. E almeno per quanto riguarda gli alieni, Asimov mi ha fregato. Non c’è un alieno in tutto il libro. Inoltre, per quanto le persone abbiano alte tecnologie e astronavi che permettono loro di viaggiare da un capo all’altro della galassia, ci sono comunque elementi terra terra che potrebbero a prima vista stonare con il contesto. Per esempio, c’è un punto in cui un personaggio si accende un sigaro con un accendi sigari. Che è un aggeggio ben poco futuristico, e che appunto potrebbe sembrare non adatto al contesto ipertecnologico. In realtà io credo che questa forma di fantascienza un po’ se vogliamo ingenua (del resto è stata anche scritta quasi settant’anni fa, quando alcune cose che ora sono realtà allora erano pura fantasia) e sicuramente poco fantasiosa e libera si adatti perfettamente alla storia e allo stile di Asimov. Infatti ho apprezzato l’assenza di alieni, la loro presenza avrebbe rovinato l’atmosfera.

La scrittura di Asimov è buona. È scarna ed essenziale, a volte è un po’ asettica, e quindi può rendere difficile al lettore capire e simpatizzare con i personaggi. Mi è capitato un po’ di volte di far fatica a comprendere gli stati d’animo dei personaggi, perché appunto sono spiegati in modo fin troppo distaccato. Ma del resto abbiamo visto che con alcuni personaggi si riesce a simpatizzare comunque (chi ha detto Gaal? O anche i governanti di Anacreon), mentre i personaggi che risultano più freddi sono anche quelli che valgono di meno, come tutte le fotocopie di Salvor Hardin. Quindi non posso lamentarmi, anzi, a volte, specialmente nelle descrizioni, lo stile diventa poetico e lirico, dando alle scene efficacia e leggerezza.

Infine, merita una menzione il fatto che le situazioni politiche, militari e storiche presenti nel romanzo sono credibili e create con intelligenza. Questo non solo grazie alla precisione di cui parlavo prima, ma anche al fatto che Asimov, per la scrittura della trilogia, si sia ispirato a un libro di Gibbon, La caduta dell’impero romano. Questo ha ispirato l’idea di un impero in decadenza e di una barbarie imminente. E l’appassionato di storia romana del tardo impero che è in me non ha potuto fare a meno di andare in brodo di giuggiole quando lo ha scoperto.


Il Gibbon che ha ispirato Asimov.

IN CONCLUSIONE


Prima Fondazione non è un gran romanzo. Ha alcuni lati positivi, come l’accuratezza dei dettagli, l’abilità con cui è costruito l’intreccio e alcuni personaggi che non sono da buttare via, e altri negativi, come l’episodicità e lo scarso coinvolgimento della trama e la scarsa riuscita di un buon numero di personaggi. È un libro che consiglio, ma soltanto perché è indispensabile per leggere i successivi. Quelli che valgono la pena.

VOTO:

Recensione - Nausicaa della Valle del Vento di Hayao Miyazaki

Tutti conoscono Hayao Miyazaki. È impossibile che chi legge manga e guarda anime non abbia mai sentito parlare dello Studio Ghibli o non si sia mai imbattuto in uno dei suoi film, magari finendo per apprezzare il tratto morbido dei suoi disegni, l’intensità dei colori, la carica emotiva che emana da ogni fotogramma e una poetica profondità concettuale che svela dietro l’apparenza spesso infantile una grande riflessione. Ecco, tutti conoscono questo. Ma c’è una cosa che in pochi conoscono e suppongo che interessi a tutti: a me piace moltissimo. I film sono splendidi (come immagino non si sia capito dalla mia tirata di prima), sono profondi, semplici e intensi allo stesso tempo. Ogni film è un capolavoro, un raccoglitore di emozioni che si dipanano tra colori e figure.

Miyazaki non si è occupato soltanto di film, ha alle spalle anche un manga, Nausicaa della Valle del Vento (da cui poi ha tratto, con forti ridimensionamenti, uno dei suoi primi film, dal titolo omonimo, e che tra l’altro ha ricevuto giusto poco meno di un anno fa un nuovo doppiaggio italiano). Planet Manga ha alcuni anni fa portato in Italia Nausicaa. Io l’ho letto, e l’ho anche riletto recentemente per poterne parlare qui. La lettura vale la pena? Miyazaki è bravo a disegnare manga quanto è bravo a dirigere film? La smetterò con le domande retoriche e comincerò con la recensione?

Nausicaa ci dà l'ok
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Titolo: Nausicaa della Valle del Vento
Autore: Hayao Miyazaki
Anno: 1982                                                      
Volumi: 7
Editore: Planet manga




TRAMA

Sono passati mille anni da quando una gigantesca guerra ha devastato la società, facendone regredire di molto la tecnologia. Ora nel mondo restano soltanto i resti delle antiche modernità, che risultano quasi un mistero per le persone, in particolare perché i loro poteri distruttivi non sono ben chiari e controllabili.

Oltre alle tecnologie abbandonate, del vecchio mondo rimane un enorme foresta, chiamata Mar Marcio, inaccessibile alle persone senza l’uso di maschere antigas a causa dei miasmi tossici emanati da piante e funghi. Nel Mar Marcio vivono creature bizzarre e pericolose come i Vermi Re, enormi insetti che quando si infuriano si lanciano in una marcia impazzita che devasta tutto ciò che incontra.

Nausicaa è la principessa della Valle del Vento, un piccolo stato protetto dai miasmi dalle montagne che lo circondano. Un giorno approda nella Valle del Vento una aeronave in fiamme, che si schianta al suolo ed esplode. Tra i resti Nausicaa trova una ragazza, proveniente da Pejite, che le affida il suo ciondolo, raccomandandole di consegnarlo soltanto a suo fratello Asbel, e di proteggerlo dalle mire dello stato di Tolmekia. Da quel momento, Nausicaa si troverà coinvolta in eventi molto superiori a lei, finendo a prendere parte alla guerra tra Tolmekia e Dorok, per poi scoprire così, nel tentativo di salvare tutte le nazioni dall’autodistruggersi, gli oscuri misteri del passato dimenticato.

LA MIA OPINIONE


Che Nausicaa della Valle del Vento mi sia piaciuto un sacco non mi pare un segreto per nessuno. È un fumetto splendido, che conquista fin dall’inizio e trascina con pochissime pause narrative verso evoluzioni inaspettate degli eventi fino al climax finale.

Miyazaki, come del resto dimostra ampiamente nei film, è in tutti i sensi un maestro della narrazione. Il plot principale si divide ben presto in diverse sottotrame che riguardano personaggi diversi e che si intrecciano spesso in maniera indiretta o soltanto verso la loro conclusione, e ciascuna di queste sottotrame è gestita in modo esemplare: innanzitutto le viene dedicato il tempo che serve, quindi non troverete mai aspetti trascurati perché l’autore voleva parlare di altro, oppure situazioni sciolte velocemente perché non riguardano la protagonista. Ogni personaggio ha la sua importanza nello svolgersi degli eventi che lo riguardano, e infatti capita spesso che per molte pagine Nausicaa sia messa da parte per parlare di altro. Certo, poi tutto quello che viene narrato in questo modo avrà influenze sul plot principale di Nausicaa, ma sta di fatto che conosco autori che avrebbero dedicato a questi elementi secondari molta meno importanza e molte meno pagine, sminuendoli in importanza e in coinvolgimento.

Kurotowa, un personaggio tutto sommato marginale ma non per questo mal fatto
Anche per via di questo intrecciarsi di sottotrame, seguire tutto il plot non è semplice per nulla. Sia perché spesso tra un evento e l’altro ci sono stacchi narrativi che non vengono spiegati ma soltanto lasciati intuire dalle parole dei personaggi, sia perché spesso ci sono inaspettati cambi di scena (per esempio durante le battaglie con le aeronavi, quando si passa da un’aeronave all’altra senza che il lettore sia avvertito in alcun modo) che possono generare non poca confusione. Diverse spiegazioni per eventi che accadono vengono date molto dopo in maniera indiretta oppure lasciate intendere. Inoltre a tratti viene tirata in ballo la politica (spesso con riferimenti ai singoli regni) e le questioni militari, che arricchiscono il tutto di precisione e accuratezza.

E a proposito di accuratezza, è da lodare Miyazaki nell’attenzione che rivolge ad ogni piccolo dettaglio relativo a situazioni o persone. C’è il popolo con una determinata struttura sociale (tipo Dorok), ci sono le varie leggende che appaiono sotto forma diversa in ciascuna nazione, c’è Tolmekia che ha una determinata suddivisione dell’esercito e una determinata strategia militare e Dorok che invece agisce diversamente. Anche i combattimenti con le aeronavi sono ricchi di dettagli di strategie e sulla struttura con cui sono costruite. Insomma, nulla è lasciato al caso, ogni singola cosa detta o mostrata rientra nel grande mosaico del mondo che Miyazaki ha costruito. Ne deriva che non si ha la sensazione che l’autore crei la trama mano a mano che essa si sviluppa (che poi non è necessariamente un male, qualcuno ha detto Stephen King?), anzi. Si capisce fin dall’inizio che esiste un disegno preciso che viene portato a compimento.

La mappa del mondo
La precisione di cui ho parlato si riscontra anche nel disegno, che è spettacolare. Non nel senso in cui lo può essere il disegno di Kentaro Miura, ha tratti più morbidi (come del resto in generale ha Miyazaki), ma è dettagliatissimo. Scordatevi fondali bianchi, oppure scene confusionarie o incomprensibili, è tutto chiaro, semplice e allo stesso tempo complesso, perché ogni angolo delle vignette è curato all’estremo. Questo dà ovviamente più gusto alla lettura, fa piacere soffermarsi a cogliere gli aspetti anche più nascosti e meno visibili di un luogo o di un oggetto. Aggiunge realismo, credibilità e aumenta l’interesse nel lettore.

Il senso che traspare da tutto ciò è una forte epicità. Le grandi battaglie, i grandi personaggi, le situazioni, ogni cosa si staglia come un gigante nella mente di chi legge. Mentre si prosegue pagina dopo pagina si ha la sensazione di stare leggendo qualcosa di solenne e sublime, come un’antica leggenda dei tempi che furono.

Ottima è anche la gestione dei tempi narrativi, e lo stile della narrazione, che ad essi viene adattato. Miyazaki rifugge i modi banali per far sì che la storia prosegua sciolta e appassionante, come per esempio i cliffhanger, ma si affida alla propria abilità di sceneggiatore. Vengono alternati in modo sapiente momenti più distesi, dove la narrazione si svolge attraverso vignette numerose e con molti discorsi, e momenti dove la tensione aumenta, e le vignette diventano più rapide, con dialoghi più radi e un forte dinamismo. Molto spesso inoltre, nelle scene dove la tensione deve raggiungere il picco massimo, azioni dinamiche vengono bloccate come in una fotografia. Sono momenti di stacco dove l’azione viene colta nel suo svolgersi e cristallizzata. Sono momenti potenti che coinvolgono e suscitano emozioni forti di fronte agli eventi che mostrano.

Quindi sì, la sceneggiatura è ottima, la trama è ottima e ottimamente gestita, i dettagli sono curati con un’attenzione che diventa quasi maniacale. Quello su cui forse si può muovere qualche critica è la creazione dei personaggi, che non sempre è buona quanto il resto. Per quanto riguarda la protagonista Nausicaa, è effettivamente ben caratterizzata, ed è anche un personaggio che riesce a conquistare il lettore. È fin troppo perfetta, quello sì, ma bilancia questo con una personalità estremamente umana, generosa, semplice e sensibile, e al tempo stesso forte e granitica. Un personaggio protagonista di scene poetiche e molto delicate, che in uno scenario di guerra e violenza sono come un raggio di sole. Memorabile la scena del primo volume in cui, dopo aver dovuto dare fuoco a un albero affetto dai miasmi, Nausicaa contempla il tronco ormai arso e morto e desidera di non essere la figlia del capo villaggio (nonché l’ultima rimasta viva), per non essere costretta a trovarsi a fare queste cose, con la consapevolezza che a causa del suo ruolo dovrà sobbarcarsi incombenze ben peggiori. Il tutto seduta su un prato di fronte a un laghetto, a piangere per l’albero morto. Più in generale, non si può finire di leggere i sette volumi senza provare per lei un misto di ammirazione, comprensione e affetto. È un personaggio vivo e credibile, che fa pensare che di persone così ce ne vorrebbero anche nel mondo reale!


Non si possono purtroppo decantare allo stesso modo le lodi degli altri personaggi. Non che siano pessimi, non voglio dire quello, non sono sagome di cartone. Però non reggono il confronto con Nausicaa. Abbiamo il sommo Yupa, amico di Nausicaa e di suo padre, saggio, previdente e intelligente, abile e veloce nel pensare e agire, con grandi doti diplomatiche. Poi Kushana, la principessa di Tolmekia, severa, rigida e spietata ma anche furba e strategica. Insomma, come vedete non sono mal caratterizzati, però appunto, non hanno quella complessità perfetta del personaggio di Nausicaa.

Come chi ha visto almeno un film di Miyazaki sa bene, dietro a ogni storia c’è un significato o una riflessione. Nausicaa della Valle del Vento riassume in sé la maggioranza delle istanze che Miyazaki porterà avanti nei film successivi. Mi soffermerò qui su quelle principali, ma ci sarebbe molto altro da dire.

Le tematiche ambientaliste sono il primo motore della storia: il mondo post apocalittico in cui si svolge il racconto è in crisi ambientale, e fin dall’inizio gli uomini si lamentano di questo. Con mano a mano che la trama prosegue i personaggi realizzeranno piano piano che ha poco senso incolpare la natura della sua ostilità, ma l’unico colpevole è l’uomo, che ha sconvolto gli equilibri ambientali. Dove l’uomo vede ostilità la natura semplicemente si sta purificando. Non è la natura che è fatta contro l’uomo, è l’uomo che ribellandosi non la comprende e cerca di uscirne, ma non essendo ciò possibile non può fare a meno di scontrarsi con lei.

La crudeltà della guerra è condannata fin dall'inizio, insieme alla pericolosità di lasciarsi andare ai propri peggiori istinti, che hanno l’unico effetto di condurre alla violenza. Nausicaa stessa, nonostante sulle prime sperimenti in lei una forma di rabbia che neppure pensava di avere e che la porta a combattere con più ferocia di quanta lei stessa desideri, comprenderà l’insensatezza di questo suo sentimento e comincerà a desiderare la fine dei conflitti. La guerra e la violenza sono insensate perché portano all'autodistruzione, e Miyazaki veicola attraverso Nausicaa questo suo messaggio di pacifismo.


[SPOILER]Ma il messaggio forse più grande che il manga vuole trasmettere, lo stesso che non a caso è espresso in Si alza il vento, l’ultimo film di Miyazaki. Ho deciso di metterlo sotto spoiler perché appunto è questo il significato complessivo di tutti e sette i volumi, che è intuibile poco a poco nel corso della storia, ma viene poi enunciato da Nausicaa stessa alla fine del fumetto contro il sacerdote nella cripta. Conoscerlo senza aver letto il manga significa davvero rovinarsi la lettura. Questo messaggio è una forte e al tempo stesso disillusa esortazione alla vita. Le ultime parole pronunciate alla fine del fumetto da Nausicaa stessa sono “dobbiamo vivere”. L’opera tutta di Miyazaki esorta alla vita, ma non in maniera superficiale o idilliaca. Come Nausicaa dice nel suo confronto con i sacerdoti, le persone non sono perfette, non funzionano, hanno difetti e sbagliano. E a lei, come a Miyazaki, va bene così. La vita, lei urla, è luce che splende nell’oscurità. La vita è come l’uomo, è sbagliata, è imperfetta, è cattiva. Ma vivere sul serio significa accettare tutto questo e continuare con le proprie forze a lottare per quello che si crede, consci che la ricerca della perfezione è stupida ed inutile. La vita è appunto errore e correzione, cercare la perfezione e così disconoscere gli errori significa aver dimenticato che cosa significhi vivere. La vita è movimento, la perfezione è stasi, e la stasi è morte.[SPOILER]

Come si può vedere dunque, tutto ciò di cui si parlerà nei film successivi conterranno in parte i temi che in Nausicaa della Valle del Vento sono trattati in modo puntuale. Darsi alla sua lettura può essere dunque un modo per riflettere su argomenti che ci riguardano nel profondo. Oltre che naturalmente un passo obbligato per chi vuole conoscere Miyazaki.
Hayao felice per la recensione positiva.
Aveva bisogno di pubblicità.

IN CONCLUSIONE


In poche parole, Nausicaa della Valle del Vento è uno dei manga più belli che io abbia mai letto. Intenso, poetico, coinvolgente e potente, in grado di raccontare con abilità una grande storia. Non è una lettura semplice, come del resto sapeva bene e teneva a sottolineare Miyazaki stesso, tuttavia una lettura che davvero consiglio vivamente. Non ne resterete delusi, anzi, vi troverete di fronte a una delle più importanti opere d’arte degli ultimi anni.

IL GIUDIZIO DI HISOKA: