La tarda antichità è un periodo particolare e interessante per moltissime ragioni, non ultimo il fatto che nella fortissima tradizione pagana si fa strada, e rapidamente prende piede al punto da soppiantarla, la nascente cultura cristiana. Non è il momento di discutere se il cristianesimo abbia portato o meno vantaggi all’impero romano, è indubbio tuttavia che nella sua formazione abbia attinto a piene mani al patrimonio culturale del paganesimo. Tutti sanno che il 25 dicembre, prima del Natale cristiano, era la festa pagana del Sol Invictus, ed è diventata festività cristiana solo in seguito all’ambigua politica dell’imperatore Costantino nei confronti della religione. Questo è un esempio molto noto, ma ce ne sono moltissimi altri. Per questo, se fino a poco tempo fa si tendeva a distinguere una letteratura latina cristiana e una pagana, ora questa divisione sta venendo meno, e sta diventando sempre più forte la consapevolezza che paganesimo e cristianesimo si intrecciano in più modi. Il primo fornisce al secondo il materiale per integrare e costruire il proprio repertorio di immagini e simboli, e per spiegare e sostenere le proprie tesi, mentre il secondo trova nel primo un modo per valorizzare le proprie idee anche di fronte a una cultura che sta subendo un cambiamento tanto veloce da essere percepibile all’interno di una sola vita.
Questa premessa è fondamentale per non
stupirci di fronte alla disinvoltura con cui certi autori cristiani utilizzano
le immagini o il linguaggio pagano (sto pensando ad Arnobio, nella cui opera
Cristo viene connotato quasi come un nuovo Epicuro). Questa disinvoltura è
anche ciò che impedisce a noi moderni di trarre giudizi troppo unilaterali o
affrettati su certe opere, tra cui, per esempio, il De ave phoenice, di cui parliamo adesso.
Il De
ave phoenice è un’opera curiosa su più fronti. Consiste in un poemetto di
nemmeno 200 versi, in cui viene descritta la fenice, uccello mitico e
particolare (si narrava che fosse unico e che risorgesse dalle proprie ceneri),
la cui figura entra nella mitologia greca e latina dalla tradizione egizia.
Il primo problema è l'incerta paternità dell’opera. Gregorio di Tours la
attribuisce a Lattanzio, e probabilmente sulla scorta di questa attribuzione
molti manoscritti che la riportano indicano Lattanzio come autore. Tuttavia
Gregorio, vissuto duecento anni dopo Lattanzio, è il primo a citare il
poemetto, prima nessuno scrittore afferma di esserne a conoscenza, e
probabilmente per questa incertezza alcuni manoscritti lo indicano come anonimo.
L’attribuzione a Lattanzio non è sicura
per varie ragioni. Intanto, bisogna capire in quale momento della sua vita
possa essere collocata. Sappiamo che Lattanzio era un retore africano,
originariamente di fede pagana, assai noto per le sue doti di scrittore e per
questo convocato a Nicomedia dall’imperatore Diocleziano. È in questo periodo,
nel quale hanno luogo le più forti persecuzioni di Diocleziano nei confronti
dei cristiani, che Lattanzio si converte. Trova la morte nel 325, mentre
svolgeva il ruolo di precettore per il figlio del nuovo imperatore Costantino.
Ora, ammettendo che Lattanzio sia effettivamente l’autore del De ave phoenice, lo ha scritto da
giovane oppure da anziano? Nel periodo africano, oppure in quello presso la
corte dell’imperatore? La domanda non può in realtà ricevere una risposta se
prima non si cerca di cogliere qual è il vero significato dell’opera, cosa che
in molti hanno provato a fare ma senza giungere mai a un’opinione condivisa. Ci
sono infatti quelli che pensano che sia un’opera cristiana, e quindi vada
collocata nella seconda parte della vita di Lattanzio, e quelli che pensano sia
pagana, e quindi appartenga invece alla prima parte. A complicare le cose c’è
anche un’altra questione, ovvero la metrica. È scritto, come potrete immaginare,
in distici elegiaci, nonostante in realtà non appartenga a nessuno dei generi
letterari che di solito usavano questo metro. Anzi, vista la sua natura
potrebbe al massimo essere considerato un epillio, genere che di solito
richiedeva l’uso dell’esametro.
Cercare di capire se l’opera sia
cristiana o pagana può gettare luce anche sul contesto in cui è stata composta,
e quindi aiutarci anche a capire perché il distico elegiaco venga utilizzato
all’apparenza così impropriamente.
Come dicevo prima, una grande parte
della simbologia e del linguaggio pagano viene ripreso senza problemi dai
cristiani. Perciò, l’opera presenta due significati diversi a seconda che il
suo contenuto sia interpretato come cristiano o pagano. L’ambiguità riguardo la
confessione dell’autore è dovuta al fatto che nell’opera ci sono rimandi che
possono portare a entrambe le culture. Può essere utile osservare qualche
esempio.
![]() |
Costantino. |
Il poemetto è abbastanza povero di
contenuti, si configura, come dicevo prima, come una descrizione della fenice e
del suo modo di vivere. Non ritengo utile riportarlo tutto, mi limiterò alle
parti che possono risultare per noi interessanti. In particolare, può essere
utile osservare la sezione riservata a quello che è l’aspetto più particolare
della fenice, ovvero il rito con cui si dà fuoco e rinasce dalle proprie
ceneri. Il testo recita in questo modo.
Tum ventos
claudit pendentibus Aeolus antris,
ne violent
fabris aera purpureum
75 neu concreta noto pubes
per inania caeli
submoveat radios soli set obsit avi.
Construit inde sibi seu nidum sive sepulchrum:
nam perit, ut vivat, se tamen ipse creat.
[…]
Tunc inter varios animam commendat odores,
depositi tanti
nec timet illa fidem.
95 Interea
corpus genitali morte peremptum
aestuat et
flammam parturit ispe calor,
aetherioque
procul de lumine concipit ignem:
flagrat et ambustum solvitur in cineres.
Allora Eolo
chiude i venti negli antri scoscesi,
perché non disturbino con il loro soffio
l’aria purpurea,
75 e le nuvole,
addensate dal vento attraverso il vuoto del cielo
non cancellino
i raggi del sole e ostacolino l’uccello.
Lì si
costruisce un nido o un sepolcro,
infatti muore
per vivere, e tuttavia si ricrea da sé.
[…]
Allora affida
via l’anima tra i vari profumi,
e non dubita
della sicurezza di un tale abbandono.
95 Nel frattempo il
corpo strappato dalla morte che porta vita
arde e lo
stesso calore genera fiamma,
e prende fuoco
dalla lontana luce nell’aria:
brucia, e
consumato si dissolve in cenere.
La traduzione come sempre vuole essere
di servizio e niente più. In questo caso mi sono preso qualche liberta per
rendere più chiaro un testo che tradotto alla lettera non sarebbe risultato
così immediato, ma comunque la traduzione continua a non avere pretese. Se si
osserva il testo latino saltano subito agli occhi alcuni fatti. Intanto
l’espressione “per inania caeli“ è una reminiscenza dal De rerum natura di Lucrezio. Suona strano che un’opera di stampo
cristiano citi un poema pagano, e per di più contenente una dottrina che
sosteneva la totale indifferenza degli dèi nei confronti dell’uomo e la
materialità dell’anima. È vero, più in generale, che tutta l’opera è densa di
citazioni dai classici. Né è un esempio il primo verso, che recita in questo
modo.
Est locus in
primo felix oriente remotus
Cominciare la descrizione di un luogo
con “est locus” è un modulo tipico della poesia epica, lo troviamo in Virgilio
e Ovidio, per nominarne solo alcuni. Un altro caso di reminiscenza classica è
il peremptum usato al verso 95, molto comune in Virgilio per indicare la morte
in modo forte ed espressivo. La citazione da Lucrezio quindi non va intesa in
senso ideologico. Il De rerum natura viene
ripreso nel suo essere un classico della letteratura, piuttosto che per le idee
che espone. Questa soluzione comunque non soddisfa del tutto, almeno a parer
mio, visto che non spiega comunque perché, nonostante la scarsa attenzione ai
contenuti, un cristiano dovrebbe scegliere di citare Lucrezio. Questo forse
apparirà più chiaro proseguendo con l’analisi del poema.
![]() |
Lucrezio. |
Il passo sopra riportato non contiene
però soltanto riferimenti alla letteratura pagana. Tanto per cominciare,
l’espressione commendare animam è tipica del linguaggio cristiano. Assume anche
un significato particolare il modo in cui viene indicata la morte. Si parla di
morte genitali, ovvero di morte che dà vita. Quest’ossimoro si ripete più volte
nel corso del poema, e ha lo scopo di indicare l’assurdità e l’unicità del
processo attraverso cui nasce la fenice, talmente straordinario e
incomprensibile che può essere espresso solo tramite la figura retorica
dell’inconciliabilità, ovvero appunto l’ossimoro. Ora, l’ossimoro era una
figura retorica molto cara agli autori cristiani. Infatti, il messaggio di Cristo
è rivoluzionario, cambia il modo di osservare la vita e il mondo, è assurdo e
inconciliabile rispetto all’ottica pagana del passato, e questo stridore,
questa situazione in cui i valori tradizionali entrano in frizione con la
modernità risulta espressa nel suo modo più efficace attraverso gli ossimori. È
quindi possibile vedere la frequente ripetizione dell’ossimoro come un indizio
della cristianità del nostro autore. In questo caso, il tema della fenice non
può che essere allegorico. Andrebbe quindi a essere figura di Cristo, il quale
è risorto dopo la propria morte.
Chi vuole sostenere la cristianità o
meno dello scrittore il De ave phoenice
ricorre a molti altri indizi sparsi nel testo, tuttavia sono tutti più o meno
riconducibili alla tipologia di quelli che ho elencato finora. Non penso valga
la pena di riportare altri passi: il testo è di valore poetico modesto. Linkerò
in fondo all’articolo un sito dove leggere il poemetto per intero, per chi fosse
interessato. Ora, veniamo all’argomento principale, ovvero il metro. Possiamo
chiederci di nuovo, perché Lattanzio o chi per lui usano il distico elegiaco
per un breve poema sulla fenice? Rispondendo a questa domanda ci rendiamo conto
che il discorso fatto finora sulla confessione dell’autore non è futile, anzi,
tutt’altro. È scegliendo una delle due possibilità che possiamo anche avanzare
un’ipotesi sulle ragioni del metro.
Consideriamo questo. Quando un certo
elemento si diffonde nella cultura diventa patrimonio comune. Se sentiamo una
persona per strada dire a qualcun altro “sei un Giuda”, questo non significa
che la persona in questione sia cristiana, semplicemente l’idea di Giuda come
traditore è entrata a fare parte della mentalità comune. Allo stesso modo,
possiamo pensare che un autore pagano che scrive in un periodo in cui il
cristianesimo è diffuso utilizzi termini ed espressioni cristiane in quanto suo
patrimonio culturale, piuttosto che perché creda veramente nei valori che
esprimono. In questo senso, le ripresa delle espressioni cristiane non potrebbe
costituire un indizio della confessione dell’autore. Diventa più plausibile
quindi l’idea che egli sia pagano.
Abbiamo visto prima come l’opera
presenti frequenti riferimenti alla letteratura classica. Se c’era un genere in
cui questi abbondavano erano le esercitazioni scolastiche. Sappiamo che spesso
gli alunni ricevevano il compito di comporre poesie su argomenti di repertorio
o comunque canonici, rispettando determinate condizioni: magari citando
determinati autori, o seguendo una particolare struttura, o utilizzando un
certo metro. Vedete che la questione comincia a risolversi? Possiamo pensare
che il De ave phoenice fosse
un’esercitazione scolastica, e in questo modo riusciamo a dissipare tutti i
dubbi che avevamo, in particolare quello del metro. In quest’ottica infatti il
distico elegiaco non viene utilizzato con un vero e proprio significato, ma
semplicemente è una delle condizioni imposte dal maestro
all’allievo per la sua composizione. Lo troviamo svuotato quindi di qualunque
possibile significato: è soltanto un ornamento, nulla di più. A questo punto,
quindi, pur essendo impossibile stabilire se Lattanzio sia o meno l’autore,
possiamo dire che se lo fosse e se davvero l’opera fosse soltanto
un’esercitazione allora non potrebbe che appartenere al suo primo periodo,
quello in cui non aveva ancora abbracciato la fede cristiana.
Privo di ogni valore, il distico
elegiaco viene in questo caso impiegato in modo arbitrario e senza alcun legame
con la letteratura classica, e rispecchia quindi quel pregiudizio che per anni
ha riguardato il tardo antico, ovvero che in quest’epoca la grande cultura del
passato risulta arida e impoverita. Tuttavia, non è sempre così, avremo modo di
vederlo analizzando altre opere. Il discorso su Lattanzio può quindi ritenersi
concluso. La prossima volta è mia intenzione dedicarmi a Ausonio, per osservare
un modo veramente opposto di comporre in distici elegiaci.
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