La settimana
scorsa ho comprato Storia della poesia
latina di Luca Canali. L’ho fatto perché ricominciare l’università mi
uccide dentro, mi provoca un drastico calo della voglia di vivere e quindi mi
spinge a lanciarmi nel mondo in cerca di qualcosa che possa in qualche modo
riempire questo vuoto interiore, conscio che non ce la farò mai. Ok, l’ho
comprato perché mi andava. Circa la stessa cosa.
Dopo averlo
comprato l’ho anche letto (ma guardate un po’, non lo avreste mai immaginato,
vero?). La mia non è stata una lettura dalla prima all’ultima pagina, ho
semplicemente selezionato volta per volta gli argomenti che mi interessavano di
più e ho letto il capitolo che li riguardava. Quello che mi interessava del
resto non era una mera conoscenza della letteratura latina (conoscenza che
possiedo a un livello adeguato), quanto una diversa interpretazione critica di
certi autori o di certe opere. Bé, per la maggior parte non l’ho avuta, ma
soltanto perché, contrariamente a quello che pensavo, Storia della poesia latina ha un approccio molto scolastico e poco
critico, e dunque mal si presta di per sé a soddisfare quelle che erano le mie
esigenze.
È da dire
che qualche elemento di critica però è presente, e proprio di questo vorrei
parlare adesso.
C'é stata una frase che mi ha lasciato particolarmente perplesso, e ho pensato
che potesse valere la pena spendere qualche parola al riguardo. Con questo non
voglio negare il valore dell'opinione di Canali: del resto c'è un motivo se lui
é uno studioso di successo mentre io sono un signor nessuno. Quindi non é che
voglio convincere qualcuno che io sono meglio di lui né l'ho mai pensato. É
solo che io ho la mia opinione, diversa dalla sua, e penso che sia utile
parlarne. Se non altro per dare un ulteriore spunto di riflessione a chi sta
perdendo il suo tempo a leggermi.
Ci
troviamo nel capitolo dedicato ai poeti elegiaci di età augustea. Dopo una
breve introduzione, nella quale vengono presentati Tibullo, Properzio e Ovidio,
Canali si sofferma su un discorso molto generale sulle coordinate in cui si
sviluppa la loro poesia, e fa l’affermazione di cui parlavo prima e che dà
spunto a tutto questo articolo. Dice che si nota in particolare in Ovidio (e un
po’ meno in Properzio, anche se questa caratteristica riguarda tutti gli
elegiaci di quest’epoca) come lo sforzo di questi poeti sia inferiore a quello
fatto dai poeti dell’età precedente, e cita a questo proposito Virgilio, Orazio
e Catullo. In sostanza, dice che gli elegiaci scrivono poesia con una maggiore
libertà e comodità dei loro predecessori poiché questi ultimi hanno già
spianato loro la strada.
Ecco,
nel rispetto dell’idea di Canali, io non sono per nulla d’accordo. Che cosa
significa che lo sforzo è minore per i poeti ai quali la strada è già spianata?
Sembra quasi che vengano trascurate tutte le operazioni squisitamente letterarie
compiute da Ovidio e Properzio (ok, Tibullo è più carente sotto questo punto di
vista, ma carente non significa mancante del tutto), che la poesia degli
elegiaci corra su sentieri già aperti e che quindi possono essere percorsi
agevolmente. Sembra quasi che le loro opere seguano percorsi canonici e non
abbiano una propria forma e un proprio carattere perché hanno già ricevuto la
pappa fatta, sembra che a loro basti adagiarsi sulle conquiste dei predecessori
e non andare oltre.
Un sentiero. Io non vedo poesie elegiache che ci corrono, e voi? |
In
realtà non è così, e Ovidio ne è un esempio lampante. Non esiste momento della
produzione ovidiana nel quale il poeta non cerchi il confronto con la
tradizione per prenderne le distanze, per migliorarla o per parodiarla. È
famoso il verso del secondo libro dei Tristia in cui il celebre verso
dell’Eneide “arma virumque cano”
viene modificato in “[il soggetto è Virgilio]contulit in Tyrios arma virumque toros”.
Questo è solo un esempio, ma come dicevo tutta l’opera ovidiana è un dialogo
con la tradizione e, oltre a questo, è un continuo gioco di identità e
confusione tra la figura dell’autore e il suo libro. Se nell’epigramma di
proemio agli Amores a prendere la
parola sono i libri stessi, identificati come un’entità a sé stante, nelle Metamorfosi si realizza l’esatto
opposto, e infatti, unendo il verso iniziale con quello finale, si realizza la
trasformazione dell’autore nella sua opera, simbolo della gloria imperitura che
questa gli fornirà, e del fatto che sarà sua traccia sulla terra anche dopo la
morte. Ecco, tutto questo per mostrare che in Ovidio non esiste distensione,
non esiste tranquillità, non esiste il seguire la strada spianata dagli autori
che lo precedevano. Esiste al contrario una costante tensione verso il
cambiamento, un costante sperimentalismo nel tentativo di superare le barriere
e i limiti dei generi letterari e della morale di cui questi erano impregnati.
Lo
sforzo di Ovidio è grande e se non maggiore uguale a quello dei suoi
predecessori, ma orientato in un’ottica completamente diversa. Dove Virgilio,
per esempio nelle Bucoliche, doveva
prendere un genere (la poesia bucolica) che non era mai stato frequentato nella
letteratura latina (con l’esclusione di qualche tentativo in ambiente
preneoterico) ed elevarlo a dignità di opera letteraria tramite la sua abilità
poetica e un uso sapiente dei modelli, il lavoro che Ovidio si trova di fronte
è quasi l’opposto. Virgilio non aveva antecedenti illustri nella letteratura
latina, non aveva qualcuno da superare, non nella sua lingua almeno. Possiamo
dire che lo sforzo di Virgilio è finalizzato ad una gara dove è l’unico
partecipante, e il suo fine non è quindi tanto vincere quanto realizzare
qualcosa di grande. Ovidio invece ha già un illustre avversario da superare,
non è più da solo a gareggiare. Il suo scopo quindi è vincere, realizzare
qualcosa di ancora più grande di ciò che ha fatto chi è venuto prima di lui.
Coi tempi che corrono Virgilio è dovuto diventare un informatico. |
In
questo senso vanno tutti i suoi esperimenti, tutta la letterarietà che permea
l’intera sua opera, tutta l’ironia, tutte le citazioni. Sono modi per stravolgere
la materia, modificarla, arricchirla, adattarla al suo gusto e al suo sentire
per renderla ancora migliore di ciò che è passato. Dire quindi che in Ovidio
che “l’impegno” viene meno, che si registra una sorta di tranquillità
compositiva che risiede nel fatto che i generi letterari sono stati già
canonizzati significa non comprendere o ignorare la diversità dello sforzo del
poeta rispetto ai suoi predecessori, significa trascurare il significato ultimo
dell'intera produzione ovidiana, e darne una visione semplificata o parziale.
Un
discorso molto simile si può fare per Properzio. Properzio é un poeta d'amore,
e l'intera sua opera (che consta di quattro libri di elegie) é dedicata alla
figura di una donna amata, Cinzia. All'apparenza i caratteri della poesia
properziana possono sembrare canonici, standardizzati, fondamentalmente poco
originali e artificiali. In realtà, se anche é vero che i topoi della poesia
elegiaca vengono rispettati e riutilizzati in modo preciso, é altrettanto vero
che Properzio é il primo poeta elegiaco ad avere consapevolezza della propria
grandezza letteraria. Anche Catullo aveva scritto elegie, ma l'elegia
catulliana é, passatemi il termine, ingenua. Nel senso che é scritta senza che
l'autore si renda conto dell'apporto che sta dando alla letteratura latina, e
che utilizza momenti tipici e canonizza certe situazioni senza né la volontà né
la consapevolezza di farlo. A Properzio accade invece il contrario, Properzio vuole
compiere un'operazione tutta letteraria nelle sue elegie. Vuole usare apposta
un linguaggio prezioso, vuole ornare la sua poesia con citazioni e riferimenti
colti e di difficile riconoscimento perché vuole dare un certo tono alla sua
produzione. Nella prima elegia del terzo libro non a caso si proclama il
Callimaco romano, perché ha la piena consapevolezza di stare svolgendo
un'operazione mai compiuta prima: coniugare la tradizione romana dell'elegia
(che aveva tema essenzialmente amoroso) con quella greca (che aveva tema di
solito erudito e che, pur parlando anche se non sempre d'amore, era ricca di
riferimenti difficili e spesso si occupava di spiegare l'origine di luoghi,
nomi o tradizioni), di cui Callimaco era senz'altro il principale e più illustre
esponente.
Anche
per Properzio dunque non si può parlare di strada spianata, anzi. Il compito
che il poeta si propone é quanto mai arduo ed elevato, e prevede la totale
rifondazione di un genere già esistente per innalzare ulteriormente la sua
dignità letteraria. Altro che libertà o agevolezza compositiva! Properzio
compie uno sforzo per certi versi analogo a quello che Canali attribuisce ai
poeti della generazione precedente, a Virglio, Catullo e Orazio. Sicuramente la
sua poesia é difficile e laboriosa, non si adagia sugli allori di ciò che è
stato fatto ma vuole cambiare, canonizzare ed elevarsi. Vuole divenire lo
strumento profetico attraverso cui parla la reincarnazione del primo e più
grande poeta di età ellenistica, vuole assurgere a nuova punta di diamante
della letteratura latina. Del resto, una reincarnazione di Omero, del più
grande poeta dell’età arcaica, c’era già stata a Roma. C’era già stato chi
aveva fatto rivivere Teocrito, chi Saffo, chi Alceo, chi i tragici, ma chi
facesse rivivere la grande poesia erudita ancora mancava.
E poi c'è anche chi ha fatto rivivere lui... |
Insomma,
anche in Properzio l’impegno è notevole, è denso di letterarietà, è consapevole
ed elevato. Non si può dire lo stesso forse per Tibullo, il quale in effetti
non presenta all’interno della sua produzione nessuna consapevolezza di
letterarietà, nessuna intenzione di originalità o volontà di cambiamento. È
forse per lui più valida l’affermazione di Canali, anche se va sottolineato che
tutto il mondo poetico di Tibullo nasce in seguito alla sperimentazione di
contaminazione dei generi operata da Virgilio. E questo, se a prima vista
potrebbe sembrare un’ulteriore conferma del fatto che Tibullo navighi su acque
sicure perché già sperimentate in passato, mostra anche come ci sia stato anche
da parte sua un lavoro nei generi: ha preso un elemento di originalità e lo ha
spinto al massimo, declinandolo in più modi possibile, e ne ha fatto il nucleo
fondante della propria produzione. Vediamo anche qui uno sforzo verso
l’originalità, un movimento verso sentieri non del tutto esplorati, anche se
meno definito che negli altri due poeti.
Alla
luce di tutto ciò, credo che quello che dicevo per Ovidio possa essere esteso
per tutti i tre poeti elegiaci. Il loro impegno è diverso da quello dei poeti
passati, non è più nel creare qualcosa di grande, ma qualcosa di più grande. E
mi pare che ce l’abbiano fatta, chi in un modo chi in un altro, tutti e tre
sono riusciti, con il loro lavoro, il loro sforzo e la loro grandezza poetica,
a lasciare un segno di sé anche in noi, che ancora li apprezziamo e li leggiamo
dopo più di duemila anni.
Tibullo se ne frega di questo cartello. |
Che
cosa posso dire infine? A me sembra che le cose stiano così, ed è una
situazione un pochino differente da quella descritta in Storia della poesia latina. È anche vero che io ho tirato avanti
per poco meno di duemila parole, mentre Canali spende appena qualche frasetta
scarsa, quindi forse in una trattazione più approfondita le nostre idee non
sarebbero state così divergenti. Non posso saperlo. Per quanto riguarda quale
opinione sia più vicina al vero, non saprei. Forse una posizione mediana tra
queste? Boh. Ai posteri l’ardua sentenza.
P.S. A
parte l’argomento di questo post, ho trovato molto che per tutto il resto Storia della poesia latina sia un libro davvero ben fatto. Semplice, completo e
diretto. Questo riconferma il grande talento che Canali possedeva!
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