mercoledì 12 ottobre 2016

Poeti elegiaci - Una nota a "Storia della Poesia Latina" di Luca Canali

La settimana scorsa ho comprato Storia della poesia latina di Luca Canali. L’ho fatto perché ricominciare l’università mi uccide dentro, mi provoca un drastico calo della voglia di vivere e quindi mi spinge a lanciarmi nel mondo in cerca di qualcosa che possa in qualche modo riempire questo vuoto interiore, conscio che non ce la farò mai. Ok, l’ho comprato perché mi andava. Circa la stessa cosa.

Dopo averlo comprato l’ho anche letto (ma guardate un po’, non lo avreste mai immaginato, vero?). La mia non è stata una lettura dalla prima all’ultima pagina, ho semplicemente selezionato volta per volta gli argomenti che mi interessavano di più e ho letto il capitolo che li riguardava. Quello che mi interessava del resto non era una mera conoscenza della letteratura latina (conoscenza che possiedo a un livello adeguato), quanto una diversa interpretazione critica di certi autori o di certe opere. Bé, per la maggior parte non l’ho avuta, ma soltanto perché, contrariamente a quello che pensavo, Storia della poesia latina ha un approccio molto scolastico e poco critico, e dunque mal si presta di per sé a soddisfare quelle che                                                     erano le mie esigenze.

È da dire che qualche elemento di critica però è presente, e proprio di questo vorrei parlare adesso. C'é stata una frase che mi ha lasciato particolarmente perplesso, e ho pensato che potesse valere la pena spendere qualche parola al riguardo. Con questo non voglio negare il valore dell'opinione di Canali: del resto c'è un motivo se lui é uno studioso di successo mentre io sono un signor nessuno. Quindi non é che voglio convincere qualcuno che io sono meglio di lui né l'ho mai pensato. É solo che io ho la mia opinione, diversa dalla sua, e penso che sia utile parlarne. Se non altro per dare un ulteriore spunto di riflessione a chi sta perdendo il suo tempo a leggermi.

Ci troviamo nel capitolo dedicato ai poeti elegiaci di età augustea. Dopo una breve introduzione, nella quale vengono presentati Tibullo, Properzio e Ovidio, Canali si sofferma su un discorso molto generale sulle coordinate in cui si sviluppa la loro poesia, e fa l’affermazione di cui parlavo prima e che dà spunto a tutto questo articolo. Dice che si nota in particolare in Ovidio (e un po’ meno in Properzio, anche se questa caratteristica riguarda tutti gli elegiaci di quest’epoca) come lo sforzo di questi poeti sia inferiore a quello fatto dai poeti dell’età precedente, e cita a questo proposito Virgilio, Orazio e Catullo. In sostanza, dice che gli elegiaci scrivono poesia con una maggiore libertà e comodità dei loro predecessori poiché questi ultimi hanno già spianato loro la strada.

Ecco, nel rispetto dell’idea di Canali, io non sono per nulla d’accordo. Che cosa significa che lo sforzo è minore per i poeti ai quali la strada è già spianata? Sembra quasi che vengano trascurate tutte le operazioni squisitamente letterarie compiute da Ovidio e Properzio (ok, Tibullo è più carente sotto questo punto di vista, ma carente non significa mancante del tutto), che la poesia degli elegiaci corra su sentieri già aperti e che quindi possono essere percorsi agevolmente. Sembra quasi che le loro opere seguano percorsi canonici e non abbiano una propria forma e un proprio carattere perché hanno già ricevuto la pappa fatta, sembra che a loro basti adagiarsi sulle conquiste dei predecessori e non andare oltre.

Un sentiero. Io non vedo poesie elegiache che ci corrono, e voi?
In realtà non è così, e Ovidio ne è un esempio lampante. Non esiste momento della produzione ovidiana nel quale il poeta non cerchi il confronto con la tradizione per prenderne le distanze, per migliorarla o per parodiarla. È famoso il verso del secondo libro dei Tristia in cui il celebre verso dell’Eneide “arma virumque cano” viene modificato in “[il soggetto è Virgilio]contulit in Tyrios arma virumque toros”. Questo è solo un esempio, ma come dicevo tutta l’opera ovidiana è un dialogo con la tradizione e, oltre a questo, è un continuo gioco di identità e confusione tra la figura dell’autore e il suo libro. Se nell’epigramma di proemio agli Amores a prendere la parola sono i libri stessi, identificati come un’entità a sé stante, nelle Metamorfosi si realizza l’esatto opposto, e infatti, unendo il verso iniziale con quello finale, si realizza la trasformazione dell’autore nella sua opera, simbolo della gloria imperitura che questa gli fornirà, e del fatto che sarà sua traccia sulla terra anche dopo la morte. Ecco, tutto questo per mostrare che in Ovidio non esiste distensione, non esiste tranquillità, non esiste il seguire la strada spianata dagli autori che lo precedevano. Esiste al contrario una costante tensione verso il cambiamento, un costante sperimentalismo nel tentativo di superare le barriere e i limiti dei generi letterari e della morale di cui questi erano impregnati.

Lo sforzo di Ovidio è grande e se non maggiore uguale a quello dei suoi predecessori, ma orientato in un’ottica completamente diversa. Dove Virgilio, per esempio nelle Bucoliche, doveva prendere un genere (la poesia bucolica) che non era mai stato frequentato nella letteratura latina (con l’esclusione di qualche tentativo in ambiente preneoterico) ed elevarlo a dignità di opera letteraria tramite la sua abilità poetica e un uso sapiente dei modelli, il lavoro che Ovidio si trova di fronte è quasi l’opposto. Virgilio non aveva antecedenti illustri nella letteratura latina, non aveva qualcuno da superare, non nella sua lingua almeno. Possiamo dire che lo sforzo di Virgilio è finalizzato ad una gara dove è l’unico partecipante, e il suo fine non è quindi tanto vincere quanto realizzare qualcosa di grande. Ovidio invece ha già un illustre avversario da superare, non è più da solo a gareggiare. Il suo scopo quindi è vincere, realizzare qualcosa di ancora più grande di ciò che ha fatto chi è venuto prima di lui.

Coi tempi che corrono Virgilio è dovuto diventare un informatico.
In questo senso vanno tutti i suoi esperimenti, tutta la letterarietà che permea l’intera sua opera, tutta l’ironia, tutte le citazioni. Sono modi per stravolgere la materia, modificarla, arricchirla, adattarla al suo gusto e al suo sentire per renderla ancora migliore di ciò che è passato. Dire quindi che in Ovidio che “l’impegno” viene meno, che si registra una sorta di tranquillità compositiva che risiede nel fatto che i generi letterari sono stati già canonizzati significa non comprendere o ignorare la diversità dello sforzo del poeta rispetto ai suoi predecessori, significa trascurare il significato ultimo dell'intera produzione ovidiana, e darne una visione semplificata o parziale.

Un discorso molto simile si può fare per Properzio. Properzio é un poeta d'amore, e l'intera sua opera (che consta di quattro libri di elegie) é dedicata alla figura di una donna amata, Cinzia. All'apparenza i caratteri della poesia properziana possono sembrare canonici, standardizzati, fondamentalmente poco originali e artificiali. In realtà, se anche é vero che i topoi della poesia elegiaca vengono rispettati e riutilizzati in modo preciso, é altrettanto vero che Properzio é il primo poeta elegiaco ad avere consapevolezza della propria grandezza letteraria. Anche Catullo aveva scritto elegie, ma l'elegia catulliana é, passatemi il termine, ingenua. Nel senso che é scritta senza che l'autore si renda conto dell'apporto che sta dando alla letteratura latina, e che utilizza momenti tipici e canonizza certe situazioni senza né la volontà né la consapevolezza di farlo. A Properzio accade invece il contrario, Properzio vuole compiere un'operazione tutta letteraria nelle sue elegie. Vuole usare apposta un linguaggio prezioso, vuole ornare la sua poesia con citazioni e riferimenti colti e di difficile riconoscimento perché vuole dare un certo tono alla sua produzione. Nella prima elegia del terzo libro non a caso si proclama il Callimaco romano, perché ha la piena consapevolezza di stare svolgendo un'operazione mai compiuta prima: coniugare la tradizione romana dell'elegia (che aveva tema essenzialmente amoroso) con quella greca (che aveva tema di solito erudito e che, pur parlando anche se non sempre d'amore, era ricca di riferimenti difficili e spesso si occupava di spiegare l'origine di luoghi, nomi o tradizioni), di cui Callimaco era senz'altro il principale e più illustre esponente.

Anche per Properzio dunque non si può parlare di strada spianata, anzi. Il compito che il poeta si propone é quanto mai arduo ed elevato, e prevede la totale rifondazione di un genere già esistente per innalzare ulteriormente la sua dignità letteraria. Altro che libertà o agevolezza compositiva! Properzio compie uno sforzo per certi versi analogo a quello che Canali attribuisce ai poeti della generazione precedente, a Virglio, Catullo e Orazio. Sicuramente la sua poesia é difficile e laboriosa, non si adagia sugli allori di ciò che è stato fatto ma vuole cambiare, canonizzare ed elevarsi. Vuole divenire lo strumento profetico attraverso cui parla la reincarnazione del primo e più grande poeta di età ellenistica, vuole assurgere a nuova punta di diamante della letteratura latina. Del resto, una reincarnazione di Omero, del più grande poeta dell’età arcaica, c’era già stata a Roma. C’era già stato chi aveva fatto rivivere Teocrito, chi Saffo, chi Alceo, chi i tragici, ma chi facesse rivivere la grande poesia erudita ancora mancava.

E poi c'è anche chi ha fatto rivivere lui...
Insomma, anche in Properzio l’impegno è notevole, è denso di letterarietà, è consapevole ed elevato. Non si può dire lo stesso forse per Tibullo, il quale in effetti non presenta all’interno della sua produzione nessuna consapevolezza di letterarietà, nessuna intenzione di originalità o volontà di cambiamento. È forse per lui più valida l’affermazione di Canali, anche se va sottolineato che tutto il mondo poetico di Tibullo nasce in seguito alla sperimentazione di contaminazione dei generi operata da Virgilio. E questo, se a prima vista potrebbe sembrare un’ulteriore conferma del fatto che Tibullo navighi su acque sicure perché già sperimentate in passato, mostra anche come ci sia stato anche da parte sua un lavoro nei generi: ha preso un elemento di originalità e lo ha spinto al massimo, declinandolo in più modi possibile, e ne ha fatto il nucleo fondante della propria produzione. Vediamo anche qui uno sforzo verso l’originalità, un movimento verso sentieri non del tutto esplorati, anche se meno definito che negli altri due poeti.

Alla luce di tutto ciò, credo che quello che dicevo per Ovidio possa essere esteso per tutti i tre poeti elegiaci. Il loro impegno è diverso da quello dei poeti passati, non è più nel creare qualcosa di grande, ma qualcosa di più grande. E mi pare che ce l’abbiano fatta, chi in un modo chi in un altro, tutti e tre sono riusciti, con il loro lavoro, il loro sforzo e la loro grandezza poetica, a lasciare un segno di sé anche in noi, che ancora li apprezziamo e li leggiamo dopo più di duemila anni.

Tibullo se ne frega di questo cartello.
Che cosa posso dire infine? A me sembra che le cose stiano così, ed è una situazione un pochino differente da quella descritta in Storia della poesia latina. È anche vero che io ho tirato avanti per poco meno di duemila parole, mentre Canali spende appena qualche frasetta scarsa, quindi forse in una trattazione più approfondita le nostre idee non sarebbero state così divergenti. Non posso saperlo. Per quanto riguarda quale opinione sia più vicina al vero, non saprei. Forse una posizione mediana tra queste? Boh. Ai posteri l’ardua sentenza.


P.S. A parte l’argomento di questo post, ho trovato molto che per tutto il resto Storia della poesia latina sia un libro davvero ben fatto. Semplice, completo e diretto. Questo riconferma il grande talento che Canali possedeva!

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