domenica 5 marzo 2017

Recensione - La canzone di Susannah di Stephen King (Torre Nera #6)

Alla fine de I lupi del Calla la situazione era precipitata in modo rapidissimo. Susannah è fuggita attraverso la porta e ha viaggiato tra i mondi controllata da Mia, un demone nato dentro di lei che ha il compito di partorire. Soltanto due vettori ormai reggono i mondi, e nel covo dei lupi i Frangitori sono in continuazione al lavoro per distruggerli. Il Re Rosso ha quasi completato il suo progetto di gettare i mondi nel caos. Roland e il suo ka-tet, affiancati da padre Callahan, hanno poco tempo per tentare di risolvere la situazione. Seguiamoli dunque in questa penultimo volume delle loro avventure, che riserva per i lettori davvero delle sorprese inaspettate.
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Titolo: La canzone di Susannah
Autore Stephen King
Anno: 2004                                                        
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 400




TRAMA

Il ka-tet di Roland si divide in due gruppi. Entrambi viaggiano attraverso i mondi per giungere a New York in momenti differenti. Oy, Jake e Padre Callahan arrivano nel 1999 all’inseguimento di Susannah e Mia, per impedirle di recarsi dai servi del Re Rosso che sono stati incaricati di farla partorire. Mia ha stipulato un patto con l’uomo in nero, Walter O’Dim, o Randall Flagg, come gli piace farsi chiamare, che prevede che una volta partorito il bambino sarà consegnato a lei insieme al difficile e onorevole compito di crescerlo.

Roland ed Eddie sono nel Maine nel 1977, con lo scopo di verificare l’acquisto da parte di Calvin Torre del pezzo di terra che contiene la rosa, probabilmente manifestazione di uno dei vettori ancora in piedi. Qui, in seguito a una serie di eventi, trovano rifugio presso un uomo, John Cullum, e dopo essere stati con lui decidono di fare visita a una persona che hanno sentito nominare spesso e che sono certi abbia un ruolo molto importante nella loro vicenda. Una persona che, casualmente, abita proprio nel Maine...

Il peggior nemico dell'uomo in nero.

LA MIA OPINIONE


La canzone di Susannah è diverso dai romanzi che lo precedono. Avevo accennato a questo cambiamento già nella recensione de I lupi del Calla, e ora è il momento di parlarne con precisione. Se I lupi del Calla aveva una sua vicenda autoconclusiva ma poi lasciava aperte alcune vicende molto importanti perché fossero svolte e risolte nei libri successivi, La canzone di Susannah abbandona completamente lo stile autoconclusivo per diventare il tassello centrale di un puzzle composto dagli ultimi tre libri. Le vicende narrate in questi tre romanzi sono uniche, La canzone di Susannah non ha senso se non dopo I lupi del Calla e prima de La Torre Nera. Infatti non abbiamo qui un inizio uno svolgimento e una fine, abbiamo soltanto lo svolgimento, che riprende e sviluppa quanto era stato lasciato in sospeso ne I lupi del Calla e lo proietta poi verso la sua conclusione nel volume successivo.

Questa trasformazione, almeno su di me, ha avuto un effetto positivo. Ha innanzitutto rinnovato lo spirito della saga e le sue modalità di sviluppo. Non che ce ne fosse bisogno, ma è stata comunque benvenuta. Inoltre ha reso ancora più grande la tensione verso gli sviluppi dell’ultimo volume. Se anche questo fosse stato autoconclusivo come potevano esserlo il primo o il secondo sono certo che lo stacco con La Torre Nera sarebbe stato meno incisivo e meno efficace. Così invece ha funzionato alla perfezione.

La carne messa al fuoco in questo libro è davvero molta. Cominciamo con l’imminente nascita del figlio di Susannah/Mia, che si chiamerà Mordred, e del quale si scopre l’identità del padre. Siamo di fronte al primo grande colpo di scena del romanzo, e anche a uno dei momenti meglio arrangiati di tutta la saga. Stephen King, quando ancora scriveva senza sapere che cosa sarebbe successo la pagina dopo, aveva fatto succedere determinate cose, e ora che invece ha dei piani più precisi si esibisce in un esempio di continuità retroattiva che fa quadrare le sue nuove idee con quello che era già accaduto. Inutile dire che le cose funzionano a meraviglia, non dico che sembra che lo zio Steve avesse tutto in mente fin dall’inizio ma quasi. Volete un indizio su chi sia il padre di Mordred? Non è lui.

Mordred, io sono tuo...ah, no.

Entrano poi in scena i cosiddetti uomini bassi, che erano stati nominati nel romanzo precedente da Callahan, e viene portato avanti il progetto di acquisto del terreno con la rosa-vettore. Ed è in mezzo a questi sviluppi, di per sé molto interessanti, che avviene il secondo grande colpo di scena del libro, quello che si poteva già subodorare dal volume precedente ma che nessuno avrebbe mai creduto si sarebbe realizzato fino a quando non lo ha letto con i propri occhi. Lo metto sotto spoiler perché è bello grosso.

[SPOILER]In sostanza, a un certo punto della storia Eddie e Roland si trovano a parlare con Stephen King stesso, lo Stephen King del 1977, quello alcolista tanto per capirci. King si rappresenta in modo divertito, autoironico e sincero, mostrando quali fossero i suoi punti deboli all’epoca, i suoi lati fragili, e si rimprovera attraverso i suoi personaggi. Non che sia quello lo scopo della sua apparizione, ma quando Eddie osservandolo commenta con un po’ di distacco e un po’ di apprensione che beve un po’ troppo bé, non si può non notare uno sguardo rassegnato e quasi di scusa dell’autore verso il proprio passato. Oltre a essere geniale di suo, l’inserimento dell’autore stesso come personaggio (non è originale, va detto, ma sicuramente fa il suo effetto e risulta senz’altro inaspettato) costituisce anche uno svolgimento non banale di un nodo della trama che risulterà fondamentale negli eventi del libro successivo. Stephen King è la voce di Gan, il mezzo attraverso il quale viene narrata la storia di Roland, tant’è vero che alla fine della sua visita il pistolero lo esorta a continuare a scrivere, a non lasciare la serie in sospeso, altrimenti la sua ricerca della Torre Nera non avrà mai una fine. La cosa interessante è che questo prende spunto da una storia vera: c’è stato un momento in cui Stephen King ha sognato che i suoi personaggi venissero a fargli visita e lo esortassero a continuare! [SPOILER]

In questo volume non vengono introdotti molti personaggi nuovi, non importanti almeno, a parte Mia, che viene approfondita e dotata di una personalità interessante e sfaccettata. Quello che fa King a questo giro è concentrarsi (come del resto aveva già fatto ne I lupi del Calla con Jake) sullo sviluppo dei personaggi che ha già, e qui siamo al turno di Susannah. Susannah, come dicevo nelle recensioni precedenti, era il membro del ka-tet che si faceva sentire di meno, quello che non è che attirasse meno le simpatie del lettore ma che sicuramente era non era presente quanto gli altri, non restava altrettanto impresso. Quel genere di personaggio che resta sullo sfondo della storia e dopo due giorni che hai chiuso il libro già lo hai dimenticato. Ecco, non so se Stephen King si sia accorto di questo in corso d’opera, se fosse tutto già programmato, se sono io che penso troppo o se è colpa del Chupacabra, comunque in questo romanzo il punto di vista di Susannah viene assunto in modo stabile (per ovvie ragioni, visto che rimane separata dagli altri quattro dall’inizio alla fine), e questo permette al lettore di conoscerla bene, di imparare ad apprezzarla non solo come soprammobile di contorno tanto bello e simpatico ma di avere con lei un rapporto profondo e diretto come quello che ha con gli altri personaggi. Insomma, se siamo arrivati a leggere al sesto libro non è soltanto perché vogliamo sapere se Roland troverà la Torre Nera. Certo, quello è importante, ma quello che conta sul serio non come finirà la storia, ma come finiranno i personaggi. Perlomeno, questo vale per me, non so per gli altri. Io sono arrivato al punto che quello che mi importava era trascorrere del tempo con i protagonisti, più che la trama in sé. Ed è bello finalmente avere occasione di legare anche con Susannah, oltre che con gli altri quattro.

Padre Donald Callahan contro Barlow il vampiro.

Il ritmo del romanzo procede in modo incalzante e imprevedibile. Un po’ grazie ai colpi di scena, un po’ grazie alla sequela di eventi che si verificano uno dietro l’altro, ho trovato difficile staccarmi dalla lettura. Lo stile coinvolgente di King unito alla sua capacità di interessare e generare tensione trascina il lettore in una spirale dalla quale è impossibile uscire finché non ha concluso il libro. Parlo per me, ma io avevo una curiosità pazzesca di sapere che cosa sarebbe successo, che altra idea inaspettata Stephen King avrebbe tirato fuori dal suo cappello a cilindro. A tutto questo va aggiunto l’effetto che fa il finale, un brano tratto dal diario di un personaggio che non svelo per non fare spoiler, che visto quello che è stato detto nel libro pare annunciare che gli eventi precipiteranno in modo incontrollabile se non verrà fatto qualcosa. C’è un altro fattore che sconvolge il lettore nella lettura del finale, ma non posso rivelarlo per questioni di spoiler.

Non che vada proprio tutto bene, qualche critica da muovere la ho. Per esempio, l’inizio è più lento del resto del romanzo, e a volte si perde un po’. Esempio. Chiunque abbia letto un libro di Stephen King sa che questi conosce tutti i suoi personaggi, dal primo all’ultimo, come le sue tasche. Ed è un’ottima cosa, è il motivo per il quale sono così ben caratterizzati. Ecco, però non è necessario che anche il lettore li conosca uno per uno come se li conoscesse da quando andavano all’asilo insieme. Con i personaggi importanti è buono e giusto e importante che sia così, con quelli che appaiono per tre pagine no. Anzi, è da evitare. Ne La canzone di Susannah ci sono qualcosa come una quindicina di pagine dedicate a un personaggio che nella vicenda ha un ruolo marginale, sparisce subito dopo e non apparirà mai più. Ma a che sono servite? Dai, è un errore da dilettanti, lo fa Regazzoni per dirne una, non posso trovarlo in un romanzo di Stephen King, romanzo che per quanto riguarda tutti gli altri aspetti si mantiene su ottimi livelli. Mi rendo conto che sia un peccato veniale, ma mi ha comunque lasciato l’amaro in bocca. Non doveva esserci, bastava così poco per evitarlo!

IN CONCLUSIONE


A parte quello che ho appena scritto ciò di cui posso lamentarmi è davvero poco e insignificante. La canzone di Susannah è un ottimo romanzo, coinvolgente ed efficace, che, pur essendo in modo scoperto un ponte tra il quinto e il settimo volume, raggiunge livelli eccellenti di caratterizzazione personaggi, colpi di scena e tensione. È un tipico esempio in cui il libro-ponte verso il volume finale non funziona da semplice connettivo in cui il brodo viene allungato. La canzone di Susannah ha molto da dire, davvero davvero molto, e questo si sente.

Siamo quasi alla fine ormai. La Torre Nera è sempre più vicina. Stringiamoci al nostro Din e prepariamoci all’ultima parte viaggio.


VOTO:

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