Era da dicembre che non si parlava di
fantascienza. Sono sicuro che l’argomento vi era mancato. Non voglio parlare
qui della mia breve esperienza con Dune,
mi sveglio ancora la notte quando ci penso. Voglio invece parlare di qualcosa
che mi è piaciuto, perché dopo essermela presa con la Rowling è il caso di
tornare ad argomenti felici. Perché recensire bei romanzi è mille volte più
soddisfacente che recensire quelli brutti.
Quindi eccoci qui con Philip K. Dick e
il suo Ma gli androidi sognano pecore
elettriche?. Che è uno dei titoli migliori che esistano, ammettetelo.
Nonché causa principale delle occhiate perplesse che mi rivolgeva la gente
quando mi vedeva leggerlo in giro. Dovrei esserne felice, per una volta le
persone mi guardano strano per un motivo diverso dal modo in cui sono vestito.
Vediamo dunque di capire che cosa ha da
dire Ma gli androidi sognano pecore
elettriche? (che d’ora in poi sarà abbreviato in M.a.s.p.e.?, perché bello quanto volete ma impiego un’era geologica
e mezza a scriverlo ogni volta) e se la fama che ha sia meritata o meno.
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Autore: Philip K. Dick
Anno: 1968
Editore: Fanucci
Pagine: 238
TRAMA
Siamo in un 1992 alternativo, in cui
ormai gli umani stanno abbandonando piano piano la Terra, che ogni giorno
diventa sempre più invivibile. Moltissime specie di animali sono morte, e
perciò possedere un animale domestico è diventato simbolo di prestigio, nonché
regola della religione che si è diffusa, il mercerismo. Chi non può
permettersi un animale vero lo compra robotico, ma cerca a tutti i costi di non
farlo sapere.
Rick Deckard è un cacciatore di taglie
che si occupa dell’eliminazione degli androidi ribelli. Vive con sua moglie
Iran e con una pecora elettrica, nutrendo sempre in segreto il desiderio di un
animale in carne e ossa. Un giorno un superiore di Rick, Dave Holden, viene
mandato all’ospedale mentre si occupa dell’eliminazione di alcuni androidi di
una nuova tipologia, il nexus 6. Il caso sarà quindi affidato a Rick, che si
troverà per la prima volta da quando ha cominciato il suo lavoro a riflettere
sulle differenze tra umani e androidi.
Contemporaneamente seguiamo le vicende
di un altro personaggio. John Isidore è uno speciale, ovvero una persona che ha
un quoziente intellettivo basso a causa dell’esposizione alle polveri
radioattive presenti nell’aria. Gli speciali sono soprannominati anche cervelli
di gallina, e questo la dice lunga sulla considerazione che la società ha di
loro.
Isidore conduce un’esistenza solitaria e
monotona. Un giorno piomba nella sua vita qualcosa di inaspettato, ovvero una
vicina di casa, Pris Stratton, che risveglia in Isidore qualcosa che lui stesso
pensava di avere perso del tutto: l’iniziativa e l’intelligenza. Le storie di
Rick e Isidore si andranno a intrecciare, nel tentativo del primo di trovare
gli androidi che gli stanno sfuggendo, e dell’altro di trovare sé stesso e un
senso alla propria vita.
Philip Dick in braccio al suo padrone. |
LA MIA OPINIONE
M.a.s.p.e.? non è il primo romanzo di Philip Dick
che leggo. Ho avuto anche il piacere (inserire ironia qui) di cimentarmi con La svastica sul sole, che ok, non è
terribile come Il richiamo del cuculo
ma comunque non è tutto ‘sto granché. Non penso che lo recensirò mai,
sarebbero comunque sei Cthulhu, non di più.
Philip Dick è un personaggio molto sui
generis. Giusto per dare un’idea, era convinto di vivere una doppia vita, una
come Philip Dick e l’altra come Thomas, un cristiano del I secolo d.c., e
pensava che la nostra realtà fosse come programmata da un enorme computer, in
modo tale che le vite che viviamo non siano altro che un’illusione. E, a parte
gli psicofarmaci che prendeva fin da piccolo a causa della sua lieve
schizofrenia e delle crisi depressive, non ebbe quasi nessuna esperienza con le
droghe: assunse in qualche caso LSD, e pare nient’altro. Questo per dire, non è
che avesse i neuroni bruciati, era, come dire, particolare di suo.
Da una persona del genere è dura non
aspettarsi un romanzo strano. M.a.s.p.e.?
in effetti soddisfa abbastanza questa aspettativa, ma è ben più che la visione
allucinata di una persona che ha perso un po’ troppo il contatto con la realtà.
Anche perché è sì strano per certe
cose, ma di allucinato ha ben poco.
Dick scrive bene. È sintetico, diretto
ed efficace. Le scene d’azione gli riescono molto bene perché sono rapide,
nessun dettaglio di troppo, sono serrate concatenazioni di eventi che passano
al lettore quell’ansia concitata che stanno provando i personaggi. Quando deve
invece mostrare i sentimenti e le impressioni usa immagini vivide e intense,
spesso sviluppandole e soffermandosi sui dettagli per rendere ancora meglio il
concetto. Quello che gli viene un po’ peggio sono i dialoghi. In M.a.s.p.e.? ne ho trovato più di uno che
suonava artificioso o insensato. Mi viene in mente giusto quello a inizio
romanzo tra Dick e Iran, in cui praticamente litigano senza motivo, ma ce ne
sono altri. È comunque soltanto un’imperfezione in uno stile che per il resto
funziona benissimo.
I pericolosi Nexus 6. |
La trama non è nulla di complicato, e
soprattutto non ha grossi sconvolgimenti o colpi di scena. Prosegue in modo
lineare fino alla fine e, quando capita che vengano cambiate le carte in
tavola, sono parti della storia che non sono meno importanti ma
comunque si situano in qualche modo accanto agli avvenimenti principali senza
intaccarli. Alla fine della fiera tutto va come uno può immaginare. Non che sia
necessariamente un male, specie quando come in questo caso tutto il resto
funziona abbastanza bene, ma comunque avrei di certo apprezzato una maggiore
cura dell’intreccio.
Per quanto riguarda i personaggi, anche
qua non mi posso lamentare. Rick è caratterizzato in modo sufficiente, è un po’
il classico protagonista di queste storie e, per quanto abbia un suo personale
sviluppo e una sua evoluzione, ho trovato difficile immedesimarmi con lui.
Isidore invece è un personaggio che è reso molto meglio, che appare all’inizio
come lo stupido qual è e poi nel corso della storia tira fuori tutte le buone
qualità che possiede. Voglio dire, chi non tifava per lui durante la telefonata
alla moglie del proprietario del gatto morto? Chi non ha desiderato di tirare un
bel pugno sul grugno a Sloat mentre insisteva che telefonasse lui e non ha
festeggiato mentre al telefono gli venivano quei lampi di genio? Insomma, sarà
che viene descritto come l’ultimo degli ultimi e alla fine riesce a fare anche
la sua porca figura, comunque Isidore mi è stato simpatico fin dall’inizio e mi
è piaciuto seguire le parti in cui la storia è dedicata a lui. Il fatto che poi
Dick liquidi con un po’ troppa rapidità il finale della sua sottotrama ammetto
che mi ha un po’ infastidito, ma per il resto va tutto bene.
I personaggi coprotagonisti sono
abbastanza ben messi a caratterizzazione, nulla di particolare ma va bene, un
po’ come Rick. Iran, Phil Resch e Rachael non sono affatto monocorde, hanno una
propria personalità e un proprio modo di sentire (nel caso di Resch anche una
forte etica), ma si mantengono abbastanza nella media.
Come in tutti i romanzi di Dick ad avere
un ruolo di rilievo è la componente ideologica, gli spunti di riflessione che
l’autore riesce a intrecciare in modo perfetto con la storia e che emergono qua
e là, per essere sviluppati in modo compiuto entro la fine del romanzo. È
proprio questo aspetto riflessivo che ora fa dire a molti che Dick non scrive
fantascienza, no, perché la fantascienza non è letteratura mentre Dick vuole
anche dire delle cose, mica solo raccontare una storia. Giudizi affrettati dei
soliti intellettualoidi insomma, nulla di nuovo sotto il sole.
La mia reazione a a questi giudizi affrettati. |
Comunque, le tematiche che Dick tratta
in M.a.s.p.e.? sono comuni anche ad
altri suoi romanzi. La prima e più presente è la ricerca del divino. Nella
distopia che fa da sfondo a questo romanzo la divinità principale è Wilbur
Mercer, che invita la gente a collegarsi a una sorta di sentimento collettivo
attraverso le cosiddette scatole empatiche. Da un lato Mercer e dall’altro Buster
Friendly, personaggio solo nominato e mai mostrato dal vivo, comico conduttore
di una trasmissione che tenta in tutti i modi di demolire il mercerismo.
Ovviamente la soluzione che Dick trova attraverso Rick non la rivelo per non
fare spoiler, comunque le prospettive a questo proposito vengono sconvolte un
paio di volte, fino al cambiamento finale, mai spiegato sul serio ma solo
intuibile dal lettore attraverso la situazione. Da quel che ne so, il tema del
divino è trattato in modo più approfondito anche in altri libri, comunque già
qui assume dei contorni ben definiti, e le conclusioni che vengono
implicitamente tirate verso la fine non sono scontate, e possono offrire materia
su cui pensare.
Androidi ed esseri umani, robot e
animali vanno sempre più a identificarsi mano a mano che il romanzo prosegue.
Quello che è all’inizio è un confine ben segnato e ben preciso si assottiglia
sempre di più fino a dissolversi e a lasciare le cose in una specie di limbo,
un momento in cui fare suddivisioni certe diventa affrettato e in ultima
analisi anche poco corretto. Dalle prime pagine capiamo l’antipatia e il
fastidio che Rick e Iran provano per il fatto di non possedere un animale reale
e di doversi accontentare di una pecora elettrica, ma questa prospettiva viene
sul finale ribaltata con l’arrivo del rospo. Non aggiungo altro per non fare
spoiler, comunque qui risiede il nucleo centrale del romanzo: in diversi
momenti vari personaggi ripetono che è a volte è più giusto fare la cosa
sbagliata che quella giusta, ma quando non ci sono più uomini e androidi ma
soltanto esseri viventi come si può ancora fare una distinzione netta fra le
cose? Ecco che crolla qualunque certezza, qualunque divisione rigida di valori
e credenze. C’è soltanto la vita così com’è, la vita di cui fa parte ogni cosa,
la vita che non ammette distinzioni. Smette di avere senso parlare di giusto e
di sbagliato in base a criteri precostituiti, c’è soltanto l’individuo, e
chissà che non possa essere di nuovo Wilbur Mercer a rivelargli come stanno le
cose. Un Wilbur Mercer però molto diverso da quello solito.
Questo è soltanto un piccolo assaggio
delle tematiche toccate nel corso della storia. Dick le approfondisce molto di
più e in modo molto personale e non sempre esplicito attraverso le azioni e le
decisioni dei personaggi.
E fin qua più o meno funziona tutto.
Cosa invece non va? Bé, la faccenda è strana in realtà. Perché non c’è nulla
che in realtà non vada bene, e quindi tutto non va bene. Mi spiego. Nulla in
particolare non funziona, ma ci sono tantissime piccole cose sparse qua e là
che mi hanno fatto storcere il naso. Molti elementi non sono chiari o sono
trattati in modo troppo sbrigativo. Tipo il Palazzo di Giustizia di Mission
Street, per dirne una, non dico che non abbia senso, lo ha, ma andrebbe come
minimo contestualizzato un po’, altrimenti sembra proprio buttato lì a caso,
sembra che Dick dica “toh lettore, io faccio succedere questo, le spiegazioni
ci sono ma dattele da solo”. Non si fa così. Lo stesso vale per il finale della
vicenda di Isidore, tirato così come se fosse un evento marginale e raccontato
sotto il punto di vista di un altro personaggio. Sciatteria mi verrebbe da
chiamarla, se non fosse che quando vuole Dick sa essere tutto tranne che
sciatto.
E se non vi vanno bene le pecore elettriche, abbiamo anche un gatto cibernetico! |
Ci sono come dicevo prima un po’ di
dialoghi surreali, qualche personaggio a volte prende decisioni improvvise e
non comprensibili nell’immediato (le motivazioni ci sono ma bisogna stare lì a
pensarci), ogni tanto capita che i sentimenti dei personaggi mutino un po’
troppo rapidamente e qualche evento avviene in modo così repentino che il
lettore non riesce a capire che cosa sia successo e rimane disorientato. Non
faccio esempi di tutto ciò per non fare spoiler, comunque sta di fatto che
rovina non poco la lettura, e controbilancia in parte in negativo tutti i pregi che ho
elencato finora.
IN CONCLUSIONE
M.a.s.p.e.? è un buon romanzo, ben scritto e ben
congegnato, con dei personaggi discreti e molte cose da dire. È a volte troppo
frettoloso o troppo buttato lì a caso e questo affossa un po’ le sue qualità,
ma resta comunque un’ottima lettura, che mi sento di consigliare a chi voglia
approcciarsi a Dick. È sicuramente meglio de La svastica sul sole, non c’è paragone.
VOTO:
P.S. L’edizione italiana è la solita
Fanucci di tutte le opere di Dick, quella con la frase fiera scritta sul retro
come se fosse un incentivo a comprare il libro, mentre in realtà fa venire
voglia di rimetterlo sullo scaffale. Che ci volete fare, dobbiamo tenercela
così.
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